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Autore: Sheep01    16/11/2014    7 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 5

 

 

Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c'è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un'origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te.

(La Strada – Cormac McCarthy)

 

*

Pennsylvania

 

Aveva aperto gli occhi al forte profumo di bacon appena arrostito.

Ci mise un po' a focalizzare i dintorni, a capire dove si trovasse.

La sensazione di straniamento e angoscia svanì rapidamente quando la sua memoria allacciò tutti i cavi di connessione, ricordandogli gli eventi di due sere prima.

Aveva navigato in una situazione di dormiveglia costante per più di ventiquattro ore.

La schiena gli doleva, ma per la prima volta, dopo giorni poteva finalmente dirsi... riposato.

Non un solo incubo a tormentarlo.

Non gli schiocchi.

Non quel corridoio.

Non il ruggito.

Non la sensazione di essere preso per la gola.

Cominciò a pensare che fosse la sua situazione di carcerato a ridurlo in quello stato allucinato. Forse il soffocamento aveva dei risvolti inconsci alle condizioni in cui aveva versato solo fino a un mese prima.

I ragazzi delle motociclette erano disposti in circolo fuori dalla strada. Una larga campagna ad accogliere la loro sosta. Una massa di alberi, poco distanti.

Avevano allestito un piccolo accampamento la sera precedente. Non che Loki lo ricordasse. Era troppo esausto anche solo per pensare. Tutto quello che aveva potuto fare era stato affidarsi, totalmente, fiduciosamente a quel gruppo di bestioni tutti barba (per lo più) e tatuaggi e crollare, letteralmente in uno degli ennesimi stati di pseudo incoscienza.

Si rimise seduto, rendendosi conto di essere sdraiato su una coperta di quelle che si usano per i pic-nic. Un attimo dopo aveva un piatto di bacon ancora sfrigolante sotto al naso.

“Ehi! Ti sei svegliato finalmente, fratello, pensavamo fossi finito in coma.”

Loki alzò uno sguardo sul tizio che gli si era rivolto. Lo stesso che gli aveva evitato di finir con la testa spappolata. Il biondone dall'espressione gioviale e forse un po'... tonta.

Non trovò la domanda degna di una risposta.

“Hai fame?” evidentemente nemmeno se l'aspettava, una risposta.

Valutò il piatto di bacon e, a giudicare da come il suo stomaco si contorse al profumo, dovette constatare che sì, aveva decisamente fame.

“Grazie...” recuperò il piatto.

“Spiacente, non abbiamo posate. Di questi tempi ci dobbiamo accontentare delle cose un po' rustiche.”

Loki scrollò le spalle.

“Nessun problema... è più di quanto abbia recuperato in questi... giorni.”

Il biondo gli si era seduto di fianco. Probabilmente si sentiva in vena di chiacchiere. Non era sicuro fosse predisposto lui, però. Nel dubbio cominciò a mangiare, domandandosi dove diavolo avessero trovato del bacon. Un lusso assurdo di quei tempi. Forse li aveva sottovalutati.

“Allora... da quale penitenziario sei sbucato fuori?”

Loki quasi si ingozzò, prima di rialzare uno sguardo ostico e vagamente sospetto su... Thor (quanto gli faceva strano chiamarlo a quel modo, ancora).

Lo sentì scoppiare a ridere. Probabilmente aveva intuito tutta la sua sorpresa. Forse era pure meno tonto di quanto sembrasse. Forse era la barba a dare quell'impressione.

“Non ti preoccupare, qui in mezzo c'è gente che fa dentro e fuori di galera da almeno una decade...”

“Insomma della brava gente...”

“La più affidabile che abbia mai conosciuto.”

Loki gli scoccò uno sguardo rapido e tornò ad addentare il suo bacon.

“Penitenziario statale di Warren”, rispose solamente.

“Crimine... ?”

Loki deglutì lentamente.

“Furto. Con scasso”, mentì.

“Come il nostro Volstagg!” additò il gigante lontano, coinvolto in una fitta conversazione con l’unica donna della brigata, nemmeno avesse appena rivelato una celebrità. Un uomo di facili entusiasmi, questo Thor.

“Insomma, mi sembra di capire che tu sia riuscito a scappare...”

“Così sembra.”

La faceva suonare una cosa da niente, e dal suo stomaco cominciò a ribollire quell'orribile sensazione che associava da sempre a suo padre. Alla sua disarmante capacità di sminuire sempre ogni sua azione, fin da quando non era altro che un ragazzino scostante e pacato.

Suo padre che, al contrario di tutti i cliché che vedevano mitizzare i caduti, sperava fosse morto in malo modo, lentamente, sbranato da quei mostri. Così che avesse potuto assimilare istante dopo istante tutto il dolore necessario.

“Ho dovuto fracassare la testa a un secondino”, gli uscì ancora prima di realizzare cosa volesse veramente rivelargli, “con la gamba di ferro... della mia branda. Le vedi le mie mani?” ne aveva alzata una per portarla all'altezza del suo viso.

“Ho recuperato le chiavi della mia cella... e tutt'intorno non c'erano che... cadaveri. Cadaveri che facevano schioccare quei denti... clack, clack, clack... hai presente il rumore, fratello? Clack, clack, clack... ovunque.”

Il piatto tremava nelle sue mani.

“Clack, clack... clack... un istinto elementare. Come quello del respiro. Clack, clack, clack... la fame. È la fame che li spinge a fare quello che fanno, ma è solo un impulso, non una necessità. Perché sono già morti”, sbuffò una risata vagamente preoccupante, “Sai quanto mi ci è voluto per capirlo? Il tempo di guadagnare l'uscita. Una libertà un po' fittizia perché... non erano tanto quelli rinchiusi nelle loro gabbie che avrebbero dovuto preoccuparmi... ma quelli che stavano fuori. E che reclamavano il loro pranzo... con una certa... urgenza.”

Adesso lo stava guardando, e a giudicare dal modo in cui Thor lo stava fissando dovette proprio ammettere di aver quantomeno catturato la sua attenzione.

“Clack, clack, clack... è così che li senti arrivare. Sì, d'accordo, prima c'è quella specie di formicolio alla base della nuca... quella sensazione di non essere solo. E poi lo senti. Prima solo un vago mugolio... che poi diventa una specie di canzoncina ritmata... clack, clack, clack... e quando sono vicini ti domandi come tu abbia fatto a trascurare il dettaglio tanto facilmente. Perché ti sono addosso. E poco gli importa qualsiasi cosa tu stia facendo... loro devono seguire quella fame... quell'istinto, capisci? Io ci ho messo un po' a comprenderne le dinamiche. Ma meno a capire che per abbatterli definitivamente, era sufficiente centrare la base dove risiedono tutti gli istinti della terra”, sospirò mettendo a terra il piatto, “il cervello.”

Sorrise. Lo aveva capito tutto da solo. Aveva affrontato tutti quei mostri da solo. E ne era uscito vivo.

“Cazzo, fratello, questa storia deve averti proprio fottuto cervello.”

Trasalì a quella constatazione, e ringraziò il cielo di non avere più il piatto fra le mani per non vederlo scivolare a terra, perché gli arrivò una pacca sulla schiena che lo costrinse al silenzio.

“Io ho cominciato a prenderli alla testa perché è il modo più veloce. Non ci ho mica pensato granché. Bam! Un colpo secco. La prima volta con una mazza da baseball che avevo in soggiorno. E bam! Steso. Ho continuato così. Poi ho capito che andava bene... sono stato fortunato.”

Loki lo osservava stranito.

Certo.

Bam.

Perché non ci aveva pensato subito, no? Bastava una mazza da baseball e pensare a quanto fosse più pratico ammazzarli a botte in testa, invece di stenderli a casaccio.

Era così logico.

Cercò di scacciare la sensazione di essere stato liquidato, di nuovo. Minimizzato.

Ma tentò anche di lasciarsi consolare dal fatto che il bestione non sembrasse una cima.

“Insomma... ce l'avevi l'aria di uno che ne ha passate parecchie. Forse ti meriti anche una birra, uh?”

Una birra. L'alcool come soluzione a tutti i mali del mondo, e poi: “Non sarai mica astemio, vero?” Il sospetto tangibile in ogni sfumatura della sua espressione.

“Una birra. Certo.” come avrebbe potuto dargli una delusione rifiutando, dopotutto? “Beviamoci su.”

“Bravo fratello!” la benedizione del gigante biondo non lo consolò affatto. Lo guardò allontanarsi, non senza avvertire, nitida, la sensazione che fosse finito fra le mani di un branco di idioti. Un branco di idioti che però sapevano come procurarsi del cibo. E dell’alcool. A dispetto della crisi più nera in cui era precipitato il mondo.

Si concentrò sul fatto che aveva finalmente messo nello stomaco qualcosa di solido. E che non doveva più preoccuparsi di guardarsi le spalle ogni istante.

Solo quando cercò di tornare all'idillio statico del risveglio, sentì qualcosa prudere alla base della nuca. Dapprima solo un fastidio... come quello di un insetto che risale con le sue zampette a stuzzicar la cute... e poi una sensazione ben più distinta. Da fischio alle orecchie, accelerazione dei palpiti cardiaci, aumento della sudorazione, gelo nello stomaco, come quella che annuncia un calo di pressione, uno svenimento imminente.

Solo che no, non era in procinto di svenire, aveva imparato a conoscerla, quella sensazione, in tutti quei giorni di solitudine, di lotta per la sopravvivenza.

La stessa sensazione che lo attanagliava anche nella sua dimensione onirica. Quella stessa sensazione che precedeva l'avvento di quegli... schiocchi.

Clack, clack, clack, nel cervello.

Clack, clack, clack, trasportati dal vento.

Si rimise in piedi a una velocità tale da urtare il piatto di plastica e rovesciare quel che restava del bacon.

“Stanno arrivando”, un sussurro che poi si tramutò in un grido, “Stanno arrivando!”

“Che ti prende, fratello, chi sta arrivando?” la voce di Thor e la risata di Volstagg.

La campagna tutt'intorno silenziosa e deserta.

Come era possibile che non lo avvertissero anche loro… che non lo sentissero, anche loro?

“Non ti ho nemmeno ancora portato la birra!”

Nemmeno il tempo di registrare la battuta che il fogliame della vegetazione di quel boschetto alle loro spalle prese a muoversi frenetico. Il cinguettio degli uccelli surclassato da quello di mille schiocchi.

Clack, clack, clack... facevano.

Clack, clack, clack.

Così come il rumore dei caricatori delle armi dei motociclisti.

Avevano rapidamente perso la voglia di ridere.

 

*

Tennessee

 

La puzza tossica del bagno di quell'area di servizio le stava dando alla testa.

E non migliorava affatto il suo umore.

Lo specchio rotto le rimandava un'immagine distorta. Il suo viso, spezzato a metà, sembrava ancora più pallido e mal messo di quanto ricordasse.

I capelli non erano che un groviglio sporco e arruffato. Si chiese quando avrebbe avuto la possibilità di farsi una doccia.

Nel dubbio prese a legarsi i capelli con un elastico, trovato in fondo alla tasca dei suoi pantaloni.

Infilò le mani sotto l'acqua che stillava a fatica dal rubinetto e ci si lavò il viso, che ne trasse immediato e rapido benessere.

Decise di proseguire con le operazioni finché gliene sarebbe stata data l'occasione. Lavandosi a pezzi, in modo sommario. Giusto per levarsi di dosso la puzza di sudore, polvere e disinfettante.

E concedersi un attimo di beata solitudine, il tempo per rimettere insieme le idee ed arrivare a tirare le somme di tutto quello che le era successo nel giro di una settimana.

La compagnia dei fratelli Barton si era rivelata più piacevole di quanto si aspettasse.

Nessuno strano comportamento. Nessuna mira particolare nei suoi riguardi. Aveva avuto a che fare con uomini che non ci avevano messo molto più che un pugno di minuti per avanzare richieste specifiche.

Non sembravano afflitti da quell’esigenza di procacciarsi femmine in barba alla loro riluttanza.

Perciò si sentiva tranquilla. Tranquilla abbastanza da poter dormire con un’arma solo per proteggersi dai cadaveri viventi o anche solo… dormire, mentre uno dei due faceva il turno di veglia.

Non era stato facile abituarsi all’idea di non dover tenere sempre un occhio aperto, in allerta. Ma dopo il terzo giorno la spossatezza aveva avuto la meglio e si era fatta una delle dormite più sonore della sua vita.

Sonore e, per una volta tanto, prive di sogni. Perché di tanto in tanto, ancora le capitava di sognare.

Aveva sognato Ivan. I suoi fratelli. Aveva sognato di vederli rialzarsi dal loro tumulo di terra e sangue. Le mani protese nella sua direzione a invocare il suo, di sangue. La sua, di carne. Così come a pagare lo scotto di una vita colpevole, di una sopravvivenza immeritata.

Si era sempre svegliata dopo una manciata di minuti di riposo. A recuperare l’arma, a riprendere il viaggio infinito.

I fratelli Barton erano la sua realtà rassicurante del momento. E per quanto ancora avesse il dubbio che il più giovane, Clint, la stesse valutando, sapeva che avrebbe potuto fidarsi di lui, se si fosse comportata bene.

E poi aveva cominciato a capirli. A stare ai loro giochi. A ridere, in qualche modo, delle loro battute.

Non sarebbe arrivata sola ad Atlanta. E, nel caso, avrebbe saputo da quale parte schierarsi se le cose non fossero andate secondo i piani.

 

Uscì dai bagni che Barney aveva appena finito di fare benzina e di caricare almeno tre taniche sul pick-up. Mangiava un pacchetto di patatine, sgranocchiandole con fragore, poggiato sul cofano, fregandosene del silenzio circostante. La radio gracchiava in lontananza, su quel segnale che avevano disperatamente rincorso dopo Paris.

Uno scenario piuttosto desolante.

Il rumore delle suole delle sue scarpe che sfrigolavano sulla terra smossa dava il tocco finale al quadretto apocalittico.

“Dov’è tuo fratello?” ecco cosa mancava alla scena.

“In alto.”

Natasha gli lanciò uno sguardo perplesso e vagamente irritato. Era troppo infastidita dal suo essere sporca per poter sopportare battute incomprensibili.

Che diavolo significava: in alto? Era la metafora per indicare qualcosa di specifico? Magari solo nell’universo dei Barton Brothers.

Barney, forse intuendo la sua perplessità, aveva semplicemente allungato un braccio e indicato un punto… in alto.

Natasha aveva istintivamente alzato la testa, dimentica del proverbio sullo stolto che non guarda la luna ma il dito e aveva trovato… Clint.

Arrampicato sul palo più alto dell’intera area di servizio, aggrappato a un vecchio cartello della 7even Up.

“Che sta facendo?”

“Guarda la strada.”

“Come?”

“La strada. E’ pieno di statali bloccate. Cerca una via di fuga.”

Se non altro l’affermazione aveva senso. Si era trovata a dover fare retrofront più volte da quando aveva intrapreso il viaggio verso Atlanta. Tutto per colpa delle macchine ferme, in coda, sulla strada. Macchine che per lo più contenevano cadaveri. Molti di essi trasformati in quelle orride creature. Alcuni bloccati da una serratura troppo ostica, altri a vagar fra le vetture in cerca di cibo.

Qualche cadavere vero e definitivamente morto a condire il tutto con un po’ di sana teatralità.

Clint aveva preso a dondolare in modo un po’ bizzarro, prima di lasciarsi andare, aggrapparsi con agilità d’atleta alla trave del cartello pubblicitario, e ricadere con una capriola.

“Esibizionista.” Commentò Barney a mezza voce, affinché potesse sentirlo solo lei. E per sottolineare l’affermazione le aveva rivolto uno sguardo complice.

Si trovò a sorridere senza nemmeno sapere perché.

“Dove ha imparato a farlo?” la domanda sorse più spontanea di quanto avesse preventivato.

“Al circo.”

Natasha si trovò a sollevare un sopracciglio. Cominciò a pensare di non sapere un bel niente sul loro conto. E qualcosa le diceva che avrebbe potuto cavarci qualche informazione interessante, dalle loro storie.

A partire dal fatto che entrambi sapevano usare in modo perfetto arco e frecce. Insomma, non un intrattenimento immediato.

“Allora? Novità?” la distrasse Barney, indirizzando il suo sguardo ben al di là delle sue spalle.

Clint si stava avvicinando, spolverandosi le mani sui jeans stinti.

“A sud è tutto bloccato. Dovremo riprendere la strada e allungarla a est… oppure c’è un’alternativa. Solo che è un po’ rischiosa.” Aveva avvicinato Barney e fregato un paio di patatine, non senza suscitare proteste.

“Rischiosa quanto?” si era ritrovata a chiedere, mentre li osservava. Messi così vicino erano talmente simili... A parte la stazza e il colore dei capelli. Oh, e il naso rotto di Barney.

“Dovremmo attraversare un tunnel ferroviario.” Le rispose con una smorfia che non annunciava niente di buono.

La preoccupazione di Clint le si palesò in un istante. Un tunnel avrebbe potuto rivelarsi una trappola mortale, pick-up o meno.

“Hai paura che passi il treno?”

Barney si guadagnò il furto dell’intero pacchetto di patatine da parte di Clint che ebbe la malaugurata idea di passarglielo.

“Finiscile. Non se le merita.”

“Ma perché?”

“Perché sei un coglione.”

“Non ho detto niente di male, magari a qualcuno è saltato in mente di guidare un treno, no?”

“Mangiale Natasha.”

Non se lo fece ripetere due volte, dopotutto non metteva niente sotto i denti dall’ora di pranzo.

“Dunque che si fa?” chiese a Clint direttamente, mentre Barney ancora si stava domandando cosa avesse sbagliato nel suo intervento.

“Non so. Ci eviterebbe un sacco di strada, quel tunnel.”

Vero, ma forse sarebbe stato il caso di valutare pro e contro, una volta tanto.

Pro: sarebbero arrivati prima dall’altra parte.
Contro: avrebbero potuto arrivarci sotto forma di affamati cadaveri.

Il gioco valeva la candela?

“Magari val la pena tentare. Il serbatoio è pieno. E nel caso trovassimo sgradite sorprese, potremmo sempre tornare indietro… dubito salterebbe fuori un vigile in vena di multe per un’inversione di marcia in un tunnel.”

Anche quella una possibilità.

“Allora proviamoci.” Non sembrava nemmeno il caso di perder tempo.

 

*

 

Albany, Georgia

 

“Non faccia complimenti, ce n’è abbastanza per un esercito.” Bess, cinquant’anni, bassina, corporatura possente e massiccia quanto un blocco di cemento, aveva dato fondo a tutte le sue risorse pur di preparare un lauto pranzo ai nuovi arrivati.

La piccola comunità di Albany, messa in piedi – suo malgrado – dallo sceriffo Fury aveva accolto l’arrivo di un carro armato con un’esultanza degna di una home run degli Atlanta Braves.

Sembrava il giorno di Natale e tutti avevano immediatamente preso in simpatia il Capitano Rogers e quel suo compare un poco esaltato, Sam Wilson.

Quest'ultimo si era crogiolato immediatamente nella fama, mentre l’altro sembrava troppo morigerato anche solo per accettare un complimento.

Un uomo che si sarebbe potuto dire d’altri tempi. Anche dal taglio di capelli.

“Non ne faccio, la ringrazio, signora.”

“Signorina…” cinguettò Bess, versandogli nel piatto un’altra porzione di piselli. Una colazione, se non altro, piuttosto singolare.

“Pare che qualcuno l’abbia appena scaricata, sceriffo…”

Maria Hill si era sporta nella sua direzione con aria complice e divertita.

Fury stronfiò qualcosa, in fondo in fondo appena infastidito da quella patriottica intrusione. Se non erano diventati carne da macello fuori dalla stazione radio, era anche merito loro dopotutto. A mente lucida si trovò a considerare quanto poco ci avesse messo a decidere di sacrificarsi per il gruppo. Una volta forse se la sarebbe data a gambe con egoistico eroismo. Adesso invece... Forse ormai troppo vecchio per avere davvero qualcosa da perdere, forse troppo stanco per poter affrontare davvero tutta quella apocalittica merda.

Credeva che dopo l’avvento degli smartphone, dei social network e del mondo alienante in cui ci si lasciava precipitare non si sarebbe più potuto stupire di niente, non fino al giorno della sua dipartita, e invece…

Un colpo di coda come quello non l’aveva visto arrivare.

Chi avrebbe potuto?

Se non altro nessuno aveva avuto modo e tempo di twittare a riguardo. O forse sì?

“Posso avere una parola con lei, sceriffo?” il capitano Rogers sembrava aver vinto contro l’attacco frontale di Bess e, dopo averle concesso di servirgli almeno un’altra porzione di piselli, era riuscito a districarsi dalle sue amorevoli insistenze. Con la scusa che Rogers le ricordava tanto il suo presunto ex fidanzato, al sicuro, oltreoceano, aveva finito per monopolizzarlo e trattarlo con una familiarità quasi sconveniente.

“Sicuro.” Aveva fatto cenno alla Hill di tenere occupati gli altri, mentre Wilson intratteneva i presenti con aneddoti splatter dai risvolti da action movie.

Lo trascinò in quello che sembrava il suo studio. O quantomeno lo stanzino che avevano deciso di adibire a suo studio. Chiunque si fosse preso la responsabilità di eleggerlo capo di quell’improvvisata comunità, si era persino assicurato che ci stesse fin troppo comodo, in quell’ingrato compito. Si chiese se non fosse solo la divisa ad averne fatto uno pseudo leader da quattro soldi.

“Mi piace come siete riusciti ad organizzarvi qui.” Esordì Rogers, con una franchezza ed educazione che non riuscivano a risultargli insincere.

“Di necessità virtù… non è così che si dice?” Fury non amava parlare per proverbi, ma sembrava il tipo di cose che potevano piacere a quell’uomo dall’acconciatura impeccabile. Come se l’apocalisse non lo avesse sfiorato per niente. Un lieve fastidio. Un inconveniente superabile.

Magari aiutava il fatto di possedere un carro armato.

“Già bè… non mi vergogno nel dire che il vostro è il gruppo più consistente che abbiamo trovato dacché siamo partiti da Washington.”

Fury gli riservò un’occhiata strana. Da quale altra parte poteva arrivare, se non da Washington?

“Non mi dica che faceva parte di uno di quei gruppi diretti ad Atlanta... ?”

La possibilità che il mistero sull’esodo Atlanta potesse dipanarsi, gli si parò di fronte in modo fin troppo evidente, ora.

Rogers osservò per qualche istante il quadro di dubbio gusto sulla natura morta di un casco di banane e scrollò le spalle.

“Non proprio.” Gli rispose con malcelato disappunto, “organizzavo i gruppi in partenza, poco prima che la situazione degenerasse.”

La situazione… degenerasse.

“Un eufemismo carino per dire: prima che vi rendeste conto che sareste stati tutti fottuti.” Ringraziò l’età che gli permetteva anche di dire un po’ quello che gli pareva. L’espressione vagamente infastidita di Rogers, gli provocò, invece che pacata soggezione, una punta di orgoglio.

“Non eravamo in grado di valutare la gravità della situazione da Washington” Si giustificò, “quando i contatti si sono interrotti era ormai troppo tardi.”

“Magari mi puoi chiarire giusto un paio di punti, ragazzo.”

Rogers ora lo osservava con attenzione.

“Uno: perché in tv erano così convinti che ad Atlanta ci fosse la risoluzione di tutti i loro problemi, quando ho visto, con i miei stessi” si interruppe, per correggersi, sentendo l’occhio ormai inservibile prudere ancora, sotto quella bandana, “con il mio stesso occhio e sentito con le mie stesse orecchie che laggiù non ci deve essere proprio niente di miracoloso o paradisiaco. Due: sapere che cazzo è stato a provocare tutto questo macello. E non venirmi a dire che l’esercito non ne sa niente, perché sento puzza di stronzate da quando ho scoperto che Santa Claus altri non era che zio Gerald con la barba finta.”

Rogers parve valutare molto seriamente le sue domande, senza manifestare turbamento di sorta.

“Ciò che è stato a provocare questo disastro batteriologico… non è una delle cose di cui sono stato informato, sceriffo”, alzò però una mano quando Fury sembrò in procinto di avanzare una protesta, “tuttavia posso supporre si trattasse di un esperimento del governo… sfuggito al controllo degli scenziati. O manipolato… in modo del tutto arbitrario dagli scienziati stessi.”

“Ah. Il governo. Ma guarda, dopotutto un sano cliché. Sappiamo chi incolpare ancora una volta.”

“Le responsabilità, si sa, derivano da innumerevoli fattori che-”

Ma Fury si rimise in piedi, la necessità quasi fisica di interromperlo, una volta per tutte.

“Perché non la finiamo con queste stronzate diplomatiche, vuoi?”

“Sceriffo, non mi sembra che-”

“E anche con questi titoli del cazzo. Non ho più autorità in questo mondo di quanta ne abbia tu con la tua impeccabile alta uniforme. La razza umana è arrivata al capolinea, mettendoci di fronte alla cruda realtà che tutti i nostri candidi stereotipi sociali sono andati a farsi fottere. Per cui prima arriviamo a parlare da pari, prima riusciremo ad arrivare a un tipo di comunicazione chiara e sincera.”

Rogers parve disorientato e Fury non faticò a credere che stesse elaborando una risposta, ancora una volta, diplomatica e dopotutto razionale. Un uomo ligio alle regole, che non poteva certo far altro che seguirle. In mancanza di quelle, il caos. La sua parvenza di equilibrio minata da un’apocalisse senza spiegazione.

Ne aveva conosciuti, di uomini come lui, nella sua vita. E ne aveva sempre provato ribrezzo. Ora… solo una gran compassione.

“Il mio nome è Nick. Nick Fury, per onor di completezza. E non sono altri che un ospite qui, come tutti gli altri. Questa villa apparteneva ai coniugi Griffith. Un paio di arricchiti spocchiosi che non hanno fatto una bella fine. Ma è pur sempre casa loro. L’unica regola che accetto è quella della buona educazione. Perché me l’hanno insegnata da bambino e ci tengo a essere corretto da questo punto di vista. Ma in quanto a franchezza, vorrei che non avessimo niente da nasconderci, tu ed io… o tu e tutti gli altri.”

Rogers annuì una sola volta, con quell’espressione che raccontava ben altro, come se si fosse aspettato di poter dirigere il discorso in un altro modo e fosse, invece, stato smentito.

“Non mi ha fatto rispondere alla sua prima domanda però…” disse allora, sorprendendolo, in positivo, questa volta, “i media hanno captato una fuga di notizie. L’esercito è stato mandato ad Atlanta non per organizzare un campo di soccorso…”

Adesso Fury lo stava ascoltando, molto attentamente.

“… ma perché, a quanto pare, lì si trova ancora il Paziente Zero.”

Il Paziente Zero. L’uomo da cui era partita quella ignobile epidemia? Una roba da fantascienza. Da quei telefilm che tanto lo facevano sorridere il sabato sera, sul secondo canale.

Nick, a quella rivelazione, aveva dovuto sedersi, lo sguardo incredulo fisso su quell’omone di altri tempi, mentre – a scandire quell’assurdo momento – nella stanza accanto esplodevano sonore risate.

 

*

Atlanta

 

La stanza era improvvisamente diventata fredda, gelida. Un alito di vento a scuotere le tende color malva che, ricordava bene, le aveva regalato zia Josephine quando aveva appreso la lieta notizia.

Un brivido l’aveva svegliata. La pelle ancora accapponata sotto la vestaglia leggera.

Sdraiata su quel letto troppo piccolo, in quella stanza ancora spoglia, ma già ricca di giocattoli di ogni tipo, regali o piccole follie che si era concessa di acquistare ancora prima di conoscere il sesso del nascituro.

Quella bambola era così carina. Quel peluche a forma di rinoceronte sembrava chiamarla dalla vetrina. E poi il carillon con la luce incorporata per le oscure, spaventose notti di Atlanta.

La mano andò a cercare il ventre. Straordinariamente gonfio. A ricordare che era il terzo giorno che il piccolo esserino che le stava crescendo dentro non dava segni di vita.

Ricordò di essersi addormentata in lacrime.

A terra, il piatto ancora colmo di un pasto non consumato. Una scatoletta di carne e dei fagioli in scatola.

Cercò di rimettersi in piedi, di raggiungere la finestra. Faceva freddo. Freddo e la strada di sotto era deserta. Il silenzio regnava sovrano, quel silenzio che avvolgeva come una coperta, che stordiva nella sua indifferenza.

Si sporse quel tanto che bastò per sentire quel vento fresco baciarle le guance. Un'allusione sottile, un invito silenzioso.

Un salto. Sarebbe bastato un salto.

Un salto e tutto sarebbe finito. La sofferenza, il rimpianto, la paura.

Un solo salto. Un po’ di coraggio, nulla più.

A cancellare per sempre quell’appiglio di inutile speranza, quello slancio di disperato affetto.

Il bambino non si muoveva più. Il bambino era morto. Una conclusione brutale, ma realistica. L’unica ancora che le aveva permesso di superare l’orrore di quegli ultimi mesi. Ma adesso che era svanito, che senso aveva insistere? Persistere?

Per chi?

Un ginocchio era già sul davanzale. L’altro sarebbe seguito.

Sarebbe stato rapido. Dolce. Liberatorio.

Socchiuse gli occhi lasciando che fosse il vento a scompigliarle i capelli, carezzevole, suadente.

Ma poi fu il ruggito. Il ruggito a risvegliarla da quel torpore di tragedia.

La porta si spalancò alle sue spalle, facendo vibrare i cardini, le pareti.

Si volse con quell’espressione attonita, da senso di colpa, da bambino che è stato scoperto a rubare dalla scatola dei biscotti.

“No…” esalò solo, andando a ritirarsi nell’angolo più oscuro dello stanzino.

La figura grottesca, gigantesca, che si avvicinava, e annusava l’aria, ferina, predatoria.

Che raggiungeva la finestra e scrutava l’orizzonte, a cercare qualcosa, a cercare qualcuno.

Come tutte le volte, come un mostruoso vigilante.

Andò a cercare la cena che non aveva toccato e nel suo viso deforme, si formò, fra le tante, una ruga di rammarico e forse rimprovero.

“Mangia.” Disse solo, con quella voce baritonale, che sembrava arrivare da oscure profondità, dalle stesse profondità in cui, forse, si nascondeva l’unica persona il cui pensiero le permetteva di reggere il confronto con quell’essere raccapricciante.

“Più tardi…” riuscì ad articolare, la voce che le tremava più per lo sconcerto del disastroso gesto che stava per compiere, che per il terrore che scrutare quel viso ancora, inconsciamente, le suscitava.

Lo vide sospingere con le enormi mani il piatto verso di lei, mani ancora sporche di sangue, le mani di un assassino, ma capaci di gesti che tanto le ricordavano l’altro.

“Non ora, Bruce.” E nel pronunciare quel nome stavolta non c’era incertezza o tremore; focalizzò sui suoi occhi che ancora brillavano di quella scintilla umana e compassionevole. Che ancora, forse, l’amavano.

Lo sentì emettere un suono gutturale, d’approvazione, le grosse gambe che si piegavano e i sensi che tornavano improvvisamente vigili, come a percepire qualcosa di silenzioso a tutti i suoi sensi.

Lo vide spalancare la finestra e spiccare un salto, fuori, ad inseguir altri mostri, a proteggerla in quella gabbia dorata in cui era rinchiusa da settimane.

Raccolse le gambe e si cullò per qualche istante, il ruggito lontano a ricordarle che non era sola.

Fu allora che lo percepì. Quel pizzicore, quel fremito che si concretizzò in un calcio, secco, feroce di protesta, dritto contro il suo stomaco.

Si osservò il pancione come se lo vedesse per la prima volta.

Il bambino era vivo. Era vivo…

E nel realizzarlo cominciò a piangere.

 

___

 

Note:

E quando ormai si era persa la speranza, ecco chi salta fuori di nuovo. Niente da aggiungere se non che, dal prossimo capitolo, le squadre cominceranno ad assemblarsi lentamente. Chi e perché, lo scoprirete.

Piccola nota a parte: ho raggiunto il fatidico periodo di crisi da ispirazione. Tanto che ho quasi esaurito i capitoli da pubblicare in questa storia e non so esattamente come barcamenarmi. Mi piace sempre portarmi un bel po' avanti con la stesura, prima di pubblicare, ma stavolta il tempo mi è scivolato dalle mani. Quindi bè, se gli aggiornamenti diverranno bisettimanali improvvisamente, ecco, saprete perché. Sto anche cercando di scrivere un'altra cosa, molto più breve, che spero si esaurirà in tre capitoli (o qualcosa così), magari riesco a infilarcela per compensazione nelle settimane di buco, ma non garantisco niente... che periodo tristO. Chiedo perdono in anticipo.

Nota aggiuntiva: la citazione iniziale arriva direttamente da un libro: “La strada”, di McCarthy. Che non tratta di zombie, ma che è molto toccante e racconta, in uno scenario desolante, del capolinea dell'umanità. Ci hanno tratto persino un film che a me è piaciuto molto, soprattutto per l'interpretazione di Viggo Mortensen (sì, nutro una profonda stima per Viggo Mortensen).
Come sempre ringrazio la socia et beta Sere che ha recentemente pubblicato una bella fantiction tutta dal sapore Clintasha, proprio QUI. Leggetela. E poi tutti gli altri, perchè i vostri commenti mi fanno sempre tanto ma tanto piacere. Abbracci collettivi e ci sentiamo la prossima settimana!

  
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