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Autore: Nidham    19/11/2014    1 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi volto di centottanta gradi, aiutando la testa con le spalle, sempre tenendo in mano quella ridicola frusta da sexy shop; Gabriel segue la direzione del mio sguardo, col volto tirato e il corpo pronto a scattare, all'erta come l'ho sempre visto essere, guardingo e preparato all'azione anche quando non ne capivo il motivo.

Mi aspetto di trovarmi faccia a faccia con qualcuno intrufolatosi dopo di noi per le scale, magari gli stessi pervertiti che non abbiamo ancora scovato, mi aspetto di sentire un urletto di paura per il nostro scatto repentino e l'aria minacciosa, ma di sicuro non mi aspetto la fila di cinque minuscole celle, chiuse da sbarre rugginose, che la torcia ci mostra sull'altro lato della stanza, con la sagoma indistinta di una donna accasciata proprio in quella centrale.

Vorrei gridare, o magari imprecare, perché la mia mente si rifiuta di credere a ciò che vede, ma adesso l'unica cosa importante è tirare fuori da lì quella poveretta e chiamare la polizia. Non vorrei che Emile, in un raptus di follia, avesse chiuso una modella qua sotto, anche se mi chiedo come avrebbe fatto a sollevare quel macigno e a rimettere a posto le assi, in modo che sembrassero inutilizzate da almeno un secolo, e mi chiedo anche con quali mezzi avrebbe potuto convincere una donna meno pazza di me a seguirlo in questo luogo dimenticato da Dio.

Prego che le mie obiezioni risultino veritiere, ma soprattutto che quella poveretta non tiri le cuoia proprio davanti a noi.

Sembra totalmente inerme, non si volta verso di noi e non sembra notare l'improvvisa luce che la sfiora; riesco a distinguere un braccio ben tornito, abbandonato lungo il fianco, con la pelle pallida dall'aria malsana, come quella di chi, essendo naturalmente olivastro, sia stato costretto al buio per troppo tempo, i capelli, lungi e ondulati, sfiorano il pavimento, intrecciandosi alle sbarre e nascondendole il volto, e la sua posa, per quanto sintomo di una profonda debolezza, rivela anche una profonda sensualità, quasi si fosse preparata ad essere vista prima di svenire.

“Alex, aspetta” Gabriel cerca di afferrarmi mentre mi lancio verso la cella, senza riflettere. “Non ti avvicinare.”

“Che assurdità” è la mia prima protesta, prima di comprendere il suo punto di vista. “Non la sposterò se è ferita, ma ha bisogno di aiuto.”

O forse sono io che ne ho, perché nel minuscolo sprazzo di tempo in cui ho voltato lo sguardo verso il mio compagno, la donna è letteralmente scomparsa, lasciandomi a fissare perplessa un cubicolo scuro, sporco, maleodorante e del tutto vuoto.

Dire che sono perplessa è riduttivo.

“L'hai vista anche tu, vero?” ho davvero bisogno di rassicurazione.

Gabriel non risponde subito e questo mi fa infuriare. Non sono pazza: anche lui ha sentito quel lamento e deve aver visto quella cosa, qui dentro, ne sono sicura. Era reale, concreta e sembra essersi liquefatta nella chiosa di umidità che impregna il terreno.

“Forse è stato uno scherzo della luce” dice senza crederlo e, mi sembra, maledicendosi per essersi costretto a farlo. “Forse quel gemito proveniva dal giardino o dalla strada, come i latrati dei cani.”

Il trucco sta proprio in quella breve parola: forse, la dice sempre quando deve propormi ipotesi a cui non crede al posto di altre a cui potrei non credere io.

Dal pozzo sale un viscido odore di urina e decomposizione che mi blocca le parole sulle labbra, in un moto istintivo di ritrarmi da quell'effluvio disgustoso serrandole con forza.

“E' disgustoso” Gabriel ne sembra anche più infastidito di me. “Andiamocene una buona volta.”

“Prima voglio aprire le celle” voglio vedere cosa possa aver creato quell'allucinazione. “E poi non ho ancora capito nulla di questo posto.”

“Metteremo insieme le nostre scoperte fuori di qui” ma intanto illumina più attentamente con la torcia quei cubicoli, probabilmente rassegnato alla mia testardaggine e certo di potersi spicciare prima assecondandomi che cercando di farmi cambiare idea.

Sono vuote, indiscutibilmente e terribilmente vuote, senza neanche un mucchio di sporcizia o qualche suppellettile malconcia che potesse ingannare la nostra vista.

D'accordo, è inutile combattere contro l'ovvio: sommerò questa alle altre allucinazioni avute nelle ultime ventiquattro ore e vedrò di rassegnarmici.

“Andiamo” dico sconfitta. “Tra l'altro ho una gran fame.”

Un brontolio sommesso, che sembra sgorgare direttamente dalle profondità dell'inferno, fa da eco alle mie parole, ma non ho più né la forza di fingere che sia lo stomaco di Gabriel a protestare, né di mettermi a scrutare in quel pozzo a caccia di inverosimili spiegazioni per insensati fenomeni acustici. È di certo una forma bislacca di eco dall'esterno. Me lo ripeto mentre salgo ogni sdrucciolevole gradino, mentre osservo la botola tornare al suo posto, con un pensiero fugace alla forza prodigiosa del mio compagno e alla gradevole visione che sono i suoi muscoli possenti tesi nello sforzo, mentre vengo trascinata via prima di riuscire a perdermi nell'ennesimo libro di occultismo che Gabriel non vuole farmi visionare; continuo a ripetermelo anche quando lancio l'ultima, fugace occhiata al ballatoio deserto, dove ero certa di incontrare una coppia dedita a perverse, piccanti effusioni, e sono quasi convinta di essere accolta, all'esterno, da un abbaio feroce, riminiscenza di tutta la cagnara avvertita dabbasso, invece, non appena il portone si chiude alle nostre spalle, non avverto alcun rumore, il giardino, immerso in una fredda nebbia che ormai non ci abbandonerà per tutto il giorno, è silenzioso e calmo come un cimitero subito dopo il giorno di Ognissanti quasi; non si sente neanche il costante e ritmico brusio del flusso ininterrotto delle auto sulla statale.

Sono stanca, ho freddo e sono anche stufa: probabilmente in questo momento i cani che abbiamo sentito sono silenziosi perché satolli e anche io voglio andare in un luogo caldo, normale e riempirmi lo stomaco con un qualsiasi cibo mi sembri invitante, sperando di azzeccare i miei stessi gusti. Sono più che certa che Gabriel sarà pienamente d'accordo con me.

Comunque c'è qualcosa di strano, in questa villa, è innegabile: una sensazione di oppressione e truce malinconia che guasta l'aspetto altrimenti invitante di una casa che, nonostante qualche lavoro di rimodernamento da fare, potrebbe valere svariate centinaia di euro e, invece, si limita a vegetare in solitudine, turbando qualsiasi possibile acquirente con strani scherzi di luce e rumore, proteggendo i suoi ricordi sanguinosi con maligna fedeltà, quasi aspettasse di vedere di nuovo il suo creatore risorgere dalle ceneri e riprenderne possesso. Non è incomprensibile che Emile ne sia rimasto oscuramente affascinato, perdendovi gli ultimi sprazzi di una razionalità già traballante, mi chiedo solo quanto si sia lasciato influenzare dalle presunte tendenze criminose di Morel.

“Vorrei vedere l'accetta” Gabriel appare quasi infastidito dal dover proporre di persona un motivo per attardarsi qui. “Era nella rimessa, giusto?”

Gli faccio strada, sforzandomi di non voltarmi alla fastidiosa sensazione di avere un paio di occhi puntati sulla schiena: in casa non c'era nessuno, quindi nessuno può starmi spiando dalle finestre. D'altra parte l'accetta non è più dove l'avevo buttata e non credo che possano essere stati dei topi a spostarla, quindi o sono completamente andata e non ricordo più neanche ciò che faccio o qualcuno, senza lasciare traccia e senza farsi vedere, era con noi qui dentro e si è messo a trafugare oggetti improbabili.

“Sono quasi sicura di averla lasciata qui” dico senza che Gabriel formuli domande. Sembra intento ad annusare l'aria, ma forse sta arricciando il naso solo per reazione al nugolo di polvere che impera in quello stanzino. “Come abbiamo fatto a non vedere nessuno? É evidente che non fossimo soli.”

“Sì, è evidente” ma il suo assenso non sembra del tutto concorde al mio pensiero. Scruta le ombre come se dovessero vomitare stuole di nemici, mentre io osservo nuovamente il giardino, ancora coperto di rugiada scricchiolante, e noto con la coda dell'occhio un movimento scuro vicino al cancello, adesso leggermente aperto, nonostante prima i cardini l'avessero portato a richiudersi. Corro a indagare, ma faccio solo a tempo a intravedere la sagoma ossuta di quella signora impaludata di nero che avevo incontrato al mio arrivo mentre si allontana quasi fluttuando tra la gente ora piuttosto numerosa che invade il marciapiedi. Cammina con passo lento, ma fluido, senza sfiorare nessuno e senza che nessuno la degni di uno sguardo, nonostante sia la cosa più stramba che si veda in giro, probabilmente perché è una figura tipica del quartiere e ormai tutti sono abituati a lei. Sotto quel mantello spesso e ampio potrebbe nascondere ben più di un'accetta, ma perché diavolo l'avrà presa? É cleptomane? Una macabra collezionista di reperti polizieschi? O deve solo sminuzzare la legna per il camino?

“L'hai vista?” sento la presenza di Gabriel al mio fianco prima che parli o faccia qualsiasi tipo di rumore. È una vibrazione calda nell'aria, un alito energico, inebriante che mi riempie la gola e mi tranquillizza e mi eccita allo stesso tempo.

“Sì.”

“Sembra impossibile si regga in piedi, quindi non so come potrebbe trascinare quell'ascia, che era abbastanza pesante, ma potrebbe essere meno gracile di quanto non sembri.”

“Niente è mai del tutto ciò che sembra.”

“Non ci sono più le mezze stagioni e si stava meglio quando si stava peggio.”

“Eh?”

“Pensavo stessimo tornando ai luoghi comuni.”

“Volevo solo dire che...” alza le braccia al cielo. “Lascia stare. Hai sempre avuto problemi ad accettare ciò che non era concreto e comprovato. Forse per questo sei così attaccata ai soldi.”

“A tal proposito dovrei cercare il numero di quel riccone che voleva conoscermi e contattarlo, magari non è troppo tardi.”

“Tu quel tizio non dovresti chiamarlo per nessun motivo al mondo.”

“Ecco ora sono anche più curiosa, credo proprio che lo farò.”

“Sono geloso, va bene?”

“Figurati, non stiamo insieme. Non ci siamo mai nemmeno baciati.”

Lo sento bofonchiare tra sé qualcosa che sembra molto simile a: “devo avere quel posto in banca” e non nego che il suo interesse sia pericolosamente piacevole, anche se mi distrae dal pensiero di un appetibile affarista pieno di grana.

“Magari questo Xavier è anche bello” provo a cancellare l'idea di Gabriel che rientra nel mio monolocale, a sera, con la giacca buttata su una spalla, la cravatta allentata e un sorriso appena accennato sul volto, mentre si china per salutarmi con un bacio.

Dannazione, lo conosco appena, è senza arte né parte e io già mi vedo ad accoglierlo in casa. Devo veramente conoscere al più presto il riccone, prima di commettere qualcosa di irreparabile.

“Non lo so, non mi intendo di gusti femminili.”

“Quindi dovrò verificare di persona.”

“So che riscuote molto successo tra le donne.”

“Che altro potrei desiderare?”

“Sempre più divertente” richiude il cancello dietro di noi, stando attento a non farsi notare da estranei. “Passami la chiave.”

Non appena il lucchetto fa l'ultimo scatto mi sento più leggera, l'aria sembra più frizzante e pulita e ogni sensazione di disagio si affievolisce anche se non riesco a togliermi la sgradevole impressione che mi sia rimasto qualcosa addosso, come una patina appiccicosa che, probabilmente, è soltanto l'inevitabile strato di polvere raccolto in quel mausoleo.

“Devo farmi una doccia.”

“Sì, anch'io.”

“Stai lontano?”

Mi guarda per un secondo e io ricambio il suo sguardo sempre più perplessa, non è una domanda difficile.

“In che sens... Ah, sì, dall'altra parte della città.”

“Che avevi capito?”

“Pensavo intendessi di starti lontano nella doccia.”

“Credevi ti proponessi di farla assieme?”

“No” è imbarazzato e sembra quasi abbassare le orecchie e gonfiare il pelo in un ammasso di lanugine arruffata, prima di confessare. “Forse per un attimo.”

“Svergognato!” lo dico più per posa che per reale indignazione, anche perché, al di là dell'insano desiderio di concretizzare questa assurda fantasia, sarebbe impossibile arrabbiarsi con chi se ne esca con una proposta del genere con un'aria così ingenua e pulita da purgarla di ogni malizia.

“Ho una casa nel distretto 12, o almeno spero di averla ancora.”

“Come sarebbe?”

“Sono indietro con l'affitto di un mese e è un po' che non passo a controllare.”

“E dove hai dormito ultimamente? Anzi, prima di tutto, perché non paghi l'affitto?”

“Volevo farlo, ma poi ho usato i soldi per altre cose.”

“Così, semplicemente?”

“Già.”

“Sei un irresponsabile, uno scapestrato!”

“Che intendi dire?”

“Mi pareva abbastanza chiaro.”

“Ho quanto mi occorre per sopravvivere.”

Il termine che sceglie è significativo e smorza un po' la mia irritazione. Tutto in lui sembra teso a quel semplice atto, sopravvivere, senza aspettarsi nulla per se stesso, senza desiderare nulla, come se l'idea stessa di vivere fosse impensabile, irraggiungibile, non per codardia o indolenza, ma per la consapevolezza oggettiva di non potersela permettere, di avere un diverso destino, troppo crudele, troppo pesante.

Ma forse sto solo tingendo di romanticismo una banale pigrizia e l'ispettore non poteva scegliere momento più opportuno per telefonarmi, anche se il solo riconoscere il suo numero sul display del cellulare mi manda nel panico. Vorrà interrogarmi di nuovo? Avrà scoperto qualche altra prova contro di me?

Nascondo i dubbi dietro un tono impersonale e distaccato.

“Pronto.”

“Signorina De Raven, lieto di sentirla” la sua voce è calma e confortante, ma potrebbe essere il famoso trucco del poliziotto buono, anche se non saprei chi e come potrebbe interpretare il cattivo in una conversazione telefonica. “Si sente meglio?”

“Abbastanza, anche se non ho ancora smaltito l'effetto fastidioso degli antidolorifici, sempre che mi abbiano somministrato solo quelli” per un attimo sono quasi tentata di raccontargli del mio braccio e del farmaco sperimentale, ma uno sguardo al cipiglio cupo di Gabriel mi convince a desistere. “Che posso fare per lei?”

“Volevo solo ricordarle il nostro appuntamento di oggi pomeriggio. Alle 16.00, se per lei va bene. Vuole che passi a prenderla?”

“No, sarebbe più complicato che venire a piedi, ci metterò al massimo cinque minuti.”
“D'accordo allora, l'aspetterò lì” attacca senza salutare, ma quasi non ci faccio caso, perché Gabriel si intromette prepotentemente nei miei tortuosi processi mentali.

“Ci sarò anch'io.”

“Pensavo volessi stare alla larga dai gendarmi.”
“Infatti vi seguirò di nascosto, non mi farò vedere.”
“Mi sembra piuttosto ridicolo, nonché infattibile.”

“Tu non preoccuparti di questo, basta che non ti metta a guardarti intorno, cercandomi. Ti terrò d'occhio, non preoccuparti.”

“Prima di saperlo non ero preoccupata.”

Sospira, esasperato.

“Ora vado a farmi una doccia, ci vediamo dopo.”

“Puoi venire da me” l'offerta mi esce spontanea, come quasi tutte quelle che lo riguardano. Parlo prima di pensare e mi ritrovo a sputar fuori frasi che non mi posso rimangiare. “Se devi fare avanti ed indietro dal distretto dodici, tanto vale che mangiamo qualcosa assieme, usi la mia doccia, ma solo quella, ben inteso, e poi andiamo insieme all'appuntamento con l'ispettore. Anche se sarà un po' ridicolo passeggiare con te travestito da bidone della spazzatura.”

“Primo: non farò niente di così stupido. Secondo: sei sicura?”

“Sì, ma sia chiaro che ti offro solo l'uso del bagno. Non stai bene e sarebbe assurdo perdere tempo ed energie in metropolitana.”

“D'accordo.”

“Ah, che fatica!”

“Già” poi, ripensandoci. “Grazie.”

“Che vuoi da mangiare? Non ho niente in casa, devo fare la spesa.”
“Non lo so. Quello che vuoi tu andrà bene.”

“Mi piacerebbe sapere cosa volere.”
“Allora, lascia fare a me, stavolta. Abbiamo mangiato insieme, qualche giorno, credo di aver capito i tuoi gusti.”

Scendiamo alla fermata di Pigalle, proprio davanti ad un piccolo supermercato, dove Gabriel si carica di pane, prosciutto cotto, formaggio e io afferro al volo una busta di patatine fritte surgelate.

“Ho preso quelle fresche” mi indica il cestino. “Saranno più saporite.”

“Sai cucinare?”

“Sì, so cucinare” stavolta non so davvero cosa possa averlo irritato nella mia innocente domanda.

“Intendevi dire che avresti cucinato tu?”

“Posso farlo.”
“Allora, mentre io mi farò una doccia, tu cucinerai.”

“Ok.”

E' particolarmente arrendevole, il che può significare solo che o non ha interesse per queste minuzie, o si sente troppo male per litigare. Lo osservo attentamente: il suo volto non sembra più tirato o affaticato di stamani, ma gli occhi sono lucidi e cerchiati di scuro, le labbra appaiono screpolate e si contraggono spesso in impercettibili smorfie, come se cercasse di trattenere un qualche tipo di dolore. Vorrei facesse meno lo stoico, ma, stando così le cose, non posso fare niente, a parte offrirgli un tetto e un pasto... o ha pagato lui, al supermarket? Temo di non averci neanche fatto caso. Mentre scendiamo a riprendere la metropolitana per arrivare a Montmartre mi rendo conto che c'è una frase che sta premendo da un po' per uscirmi di bocca e che non riesco più a convincermi che non sia giusto pronunciare, così lo richiamo.

“Gabriel?”

“Sì” si volta subito, con aria preoccupata e sexy, nonostante la lunga baguette che tiene sotto braccio. “Va tutto bene?”

“Grazie per essere venuto alla villa.”

 

Rieccomi qua. Sto cercando di rendere meno frammentaria la narrazione, ma anche se i capitoli sono più lunghi, mi sembra che non siano ancora abbastanza “pregnanti”... non saprei. Spero di aggiustare il tiro piano piano, intanto grazie a tutti quelli che seguono questa storia!

  
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