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Autore: Amor31    29/11/2014    2 recensioni
Da quando ha aperto un'attività indipendente con Mirajane, Erza Scarlet non trova pace.
Stremata dalla fatica, decide di prendersi qualche giorno di riposo per riconquistare le forze.
Non ha messo in conto che nei sogni si vive un'altra vita.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erza Scarlet, Gerard, Lucy Heartphilia, Luxus Dreher, Mirajane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nei nostri sogni






Capitolo I

L’orologio digitale appeso alla parete alle sue spalle indicava che la mezzanotte era passata da venti minuti.
In piedi dietro al bancone del pub, Erza Scarlet stava aiutando la collega Mirajane Strauss a riassettare le pinte che i clienti avevano svuotato con pochi sorsi durante quella lunga ed estenuante giornata di inizio dicembre. C’era ancora qualcuno a parlottare ai tavolini del locale, ma presto anche i ritardatari se ne sarebbero dovuti andare: mancava poco all’ora della chiusura.
-Sai cosa ti dico?-, stava chiedendo Mirajane, chiudendo dietro le apposite vetrine gli alcolici utilizzati per preparare i cocktail. -Sono felice di essere riuscita ad aprire un pub tutto mio. È una soddisfazione essere autonomi-.
Erza annuì con un cenno della testa. In realtà non stava seguendo affatto il discorso dell’amica.
-Ho solo paura della concorrenza di Laxus… E se ce la facesse pagare per aver iniziato un’attività indipendente?-.
-Se ne dovrà fare una ragione-, replicò Erza, facendo il giro del bancone e capovolgendo sui tavoli liberi le sedie, così da pulire il pavimento. -Abbiamo lavorato come sue subordinate per tre anni, giusto il tempo di fare un po’ d’esperienza. E mi sembra che il nostro apprendistato stia dando i suoi frutti, no?-.
Mirajane fu costretta a darle ragione: sì, avevano aperto quel pub da poco più di un mese, ma i clienti non erano mai mancati, anzi. Perfino qualche abitudinario dell’Extreme, il locale di Laxus Dreyar, aveva deciso di passare dalle loro parti per una visita.
-Pensi che se la sia presa?-, domandò titubante Mirajane.
-Lo conosco abbastanza da crederlo, già-.
Erza sentì la collega sospirare.
-Ehi, ma perché tutta questa preoccupazione? Mi sei sembrata felice quando ti ho proposto di abbandonare l’Extreme-.
-Lo sono ancora-, disse con calore la ragazza, -ma c’è qualcosa che mi turba…-.
Le lancette dell’orologio ricordarono loro che tra mezz’ora sarebbe terminata la giornata. Erza sbuffò.
-Mira, puoi chiudere tu, stasera? Sono un po' stanca-.
-Lo vedo bene, hai delle occhiaie spaventose!-, esclamò la collega, riferendosi ai due segni scuri che le marcavano gli occhi.
-E con questo cosa vorresti dire?-.
-Oh, Erza, non prendertela per così poco! Piuttosto, torna a casa e riposa. Dio solo sa quanto poco dormi-.
-Dormo abbastanza, te lo garantisco-, replicò la ragazza, voltandosi e nascondendo uno sbadiglio. Come al solito, Mirajane aveva ragione.
-Fatti un favore: non appena sarai rientrata, chiuditi nella doccia, preferibilmente sotto l'acqua bollente. Vedrai, favorirà il sonno. Non farai in tempo ad asciugarti che cadrai addormentata sul letto-, le sorrise l'amica, rassettando gli ultimi bicchieri dietro al bancone.
-Mi ricordi tanto mia madre-, sbuffò Erza, avvicinandosi all'uscita. -Non c'è alcun bisogno di parlarmi come ad una bambina-.
-Ora vai. Che aspetti?-.
-Ti prometto che domani sera recupererò il lavoro di oggi-.
-Non crucciarti e lascia fare a me. D'altronde non sei abituata a turni così lunghi e ti stanchi facilmente...-, la prese in giro Mirajane, continuando a sorriderle. 
-Sì, come no... Te lo ripeto: se non ti avessi convinta a rilevare questo bar, staresti ancora lavorando per Laxus. O forse non ti dispiaceva poi così tanto?-, replicò Erza, facendo avvampare le guance dell'amica.
-Ci vediamo domani-, la congedò l’altra, spintonandola letteralmente fuori e chiudendo con una doppia mandata la porta di vetro. Dal canto suo, Erza non ebbe il tempo di aggiungere nulla: la collega aveva già esposto il cartello CHIUSO ed era tornata alle proprie incombenze, provando inutilmente a scacciare dai propri pensieri l'immagine di Laxus, magicamente evocato poco prima.
"Avranno preso a frequentarsi fuori dal lavoro", pensò Erza, dissimulando una risata. "Lo dicevo che non me la contavano giusta...".
S'incamminò lungo il desolato marciapiede, stringendosi nell'impermeabile che Mirajane le aveva regalato per Natale l’anno prima. Un soffio di vento gelido la fece rabbrividire e la convinse definitivamente a farsi una bella doccia non appena fosse rientrata nel proprio appartamento.
Il condominio in cui risiedeva non distava molto dal bar. Normalmente impiegava un quarto d'ora per raggiungere casa, ma quella sera, complici la stanchezza ed il freddo, non aveva alcuna intenzione di proseguire quella scarpinata.
-Taxi!-, chiamò a voce alta, avvistando una vettura gialla sbucare dall'angolo opposto della strada. L'automobile si fermò ed Erza salì, accomodandosi sul sedile posteriore.
-Buonasera, signorina-, la salutò l'uomo alla guida, guardandola dallo specchietto retrovisore.
-Buonasera. Potrebbe portarmi al 14G di Green Lane, per favore?-.
Senza proferir parola, l'autista fece retromarcia e la condusse a casa in meno di cinque minuti. L'ora tarda favoriva il deflusso del traffico, tanto che nella sua corsa il taxi non incrociò altre vetture.
-Sono quindici Jewels-, la informò l'uomo, arrestando l'automobile al margine del marciapiede, esattamente di fronte all'ingresso del condominio.
-A lei-, disse Erza, estraendo dal portafoglio la cifra richiesta e facendo scivolare le monete sul palmo aperto del tassista.
-Buona serata-, le augurò l'uomo, ripartendo a gran velocità e scomparendo nella notte una manciata di secondi dopo.
La ragazza lo vide allontanarsi e risistemò in un taschino della tracolla il proprio borsellino, rabbrividendo di nuovo prima di recuperare le chiavi di casa ed entrare nella palazzina. Una volta dentro, si affrettò verso l’ascensore che l’avrebbe portata al quarto piano, ma dovette constatare di dover prendere obbligatoriamente le scale: un grosso cartello era stato affisso accanto all’ascensore ed una scritta sbilenca informava i condomini che fosse GUASTO.
Sospirando e passandosi una mano tra i capelli, Erza si fece forza e salì le rampe, ripetendosi a mo’ di mantra che il premio per quell’ultima fatica di fine giornata sarebbe stato un gran bel sonno ristoratore, esattamente ciò che ci voleva dopo aver fatto le ore piccole per sette giorni consecutivi.
Certo, una parte della colpa era stata anche sua: in tre occasioni aveva aiutato Mira fino a tardi proprio come era successo quella sera, ma le restanti quattro nottate le aveva passate chattando con Millianna, una delle sue più care amiche che per lavoro era stata costretta a lasciare Magnolia e a trasferirsi in una città a ottocento chilometri di distanza. Insomma, conciliare i loro impegni non era semplice e l’unico modo per mantenersi in contatto era darsi appuntamento la sera, in chat.
Salì a fatica l’ultima ventina di gradini e si fermò sul pianerottolo per qualche secondo, giusto il tempo di riprendere fiato; inserì di nuovo le chiavi nella toppa ed entrò nell’appartamento.
Era un bilocale modesto a cui si accedeva tramite un piccolo corridoio; sulla destra Erza aveva allestito un salottino formato da un divanetto a due posti e un tavolino basso di fronte a cui aveva sistemato il televisore. La stanza era separata dalla successiva tramite un arco in muratura che portava alla cucina, completa di tavolo e due sedie che raramente venivano occupate da altro che non fosse un cumulo di abiti da stirare – Erza aveva preso l’abitudine di stirare lì, visto che quella era la stanza più spaziosa dell’appartamento. Accanto alla cucina era situato il bagno, comunicante direttamente con la camera da letto, vero regno della ragazza. Era lì che si rifugiava per leggere – spesso si era anche chiesta che senso avesse, allora, mantenere il salotto a disposizione – e chattare con Millianna.
Si richiuse la porta alle spalle e poggiò la borsa sul divano, recuperando il telecomando del televisore che si era incastrato tra seduta e schienale; fece rapidamente zapping tra i canali e sbadigliando si rese conto di quanto fosse stato effettivamente inutile comprare uno schermo, visto che i programmi televisivi lasciavano alquanto a desiderare.
Spense la TV e andò dritta in camera. La prima cosa che notò fu il monitor oscurato del computer: si avvicinò alla piccola scrivania su cui l’aveva collocato e mosse il mouse per verificare che desse ancora segni di vita. Mentre il PC si riavviava pigramente e le ventole riprendevano a girare, Erza entrò in bagno e regolò l’acqua della doccia, aspettando impazientemente che diventasse calda; tornò di nuovo in camera da letto e controllò la chat.
C’erano cinque messaggi non letti e provenienti rispettivamente da Millianna – “Dove sei finita? Non dovevamo sentirci per le nove?” – dal suo amico Simon – “Ciao, Erza. Stavo pensando… Hai impegni per sabato pomeriggio? Io sono libero dal lavoro e ho visto che al cinema è uscito quel film di cui parli da mesi. Potremmo andarci insieme, che ne dici? Sempre se ti va… Non so, dimmi tu” – da Lluvia Lockser, una ragazza con cui aveva lavorato prima di lasciare l’Extreme – “Ho seguito il tuo consiglio, ma Gray non ne vuole proprio sapere di me” – da Gray Fullbuster, suo ex compagno di scuola – “Hai detto a Lluvia di provarci con me? ANCORA?!” – e da Lucy Heartphilia, che aveva conosciuto frequentando la palestra locale – “Tu non ci crederai. È troppo bello per essere vero. Natsu mi ha chiesto di stare insieme a lui. Capisci? INSIEME!”.
Avrebbe dovuto rispondere a un bel po’ di domande – quella che la preoccupava di più riguardava Simon: negli ultimi tempi aveva cominciato a comportarsi diversamente nei suoi confronti. Ogni volta che si vedevano si mostrava impacciato e lievemente a disagio, cosa che prima non era mai accaduta – ma si disse che la priorità, per il momento, era la doccia.
Rientrò in bagno, raccolse i capelli sulla testa per evitare di bagnarli – se avesse acceso il phon a quell’ora della notte, i condomini del piano di sotto le avrebbero inveito contro come minimo fino al mattino seguente – e una volta fatti cadere a terra i vestiti tirò la tendina della doccia, lasciando che l’acqua lavasse via le fatiche della giornata. Il vapore la avvolse e la fece avvampare, costringendola a tossire; venti minuti più tardi uscì dal bagno tenendo addosso solo l’asciugamano che la circondava come una sottospecie di tubino.
Sedette sul letto e si asciugò pian piano, mentre sentiva il sonno premerle sulle palpebre. Mira aveva ragione: niente favoriva il riposo quanto una doccia calda. Erza si ripromise che avrebbe ascoltato più spesso i saggi consigli dell’amica.
Non appena si fu rivestita – aveva recuperato una camicia da notte di lana dall’armadio e l’aveva indossata alla svelta – provò a rispondere ai messaggi ricevuti, ma alla fine si disse che avrebbero potuto aspettare. Probabilmente Millianna si sarebbe legata al dito la mancata replica, ma Erza era sicura che avrebbe capito la situazione, una volta che gliel’avesse spiegata.
Non le rimase che trascinarsi per la seconda volta a letto e rifugiarsi sotto i numerosi strati di coperte, cercando di riscaldarsi. Impostò la sveglia sul cellulare e poi chiuse gli occhi con la speranza di addormentarsi subito.
Non si rese conto di quanto tempo le fu necessario per cadere nel mondo dei sogni.

 

***

 

Era al Magnolia Park. Poteva essere una giornata invernale o l’inizio della primavera; non avrebbe saputo dirlo. I rami degli alberi erano spogli e per terra c’erano scie di foglie secche che scricchiolavano al suo passaggio.
Erza si accorse di tenere tra le mani un guinzaglio. A quanto pare stava portando un labrador – che dedusse fosse il suo – a passeggio. E pensare che a lei i cani neanche piacevano troppo!
-Buono-, disse all’animale, tirando il guinzaglio per evitare che scappasse. -Andiamo a fare un giro, su-.
Si incamminò lungo il sentiero tracciato dalle foglie, calciandole via di tanto in tanto. Non era mai stata un’amante dell’autunno e dell’inverno, anzi; vedere gli alberi secchi e nudi la rattristava molto. Quando le chiome verdi cominciavano ad imbrunirsi e accartocciarsi, pensava inevitabilmente alla solitudine, alla vecchiaia, alla morte. Salvo poi riscuotersi da quelle riflessioni tetre e tornare a concentrarsi su qualcosa di positivo.
Il labrador aveva iniziato a strattonare il guinzaglio, costringendola a sveltire il passo. Stavano attraversando tutto il parco, stranamente deserto. E sì che si ghiacciava, lì fuori, ma anche nei periodi più freddi dell’anno c’era sempre gente ad affollare i prati. Quel giorno, poi, tirava un forte vento e si stupì nel non vedere gruppi di bambini far volare gli aquiloni; era un passatempo che aveva amato anche lei, da piccola.
-Si può sapere dove mi stai portando?-, chiese all’animale con non poca stizza. -Siamo qui per una camminata, non per una maratona!-.
Ma a quanto pare il cane non voleva saperne di starsene tranquillo: tirò con più forza il guinzaglio e riuscì a divincolarsi dalla presa di Erza, a cui non rimase altro che guardare il labrador schizzare via attratto da chissà che cosa.
-Torna qui!-, gridò lei, seguendolo con il fiatone. -Devo riportarti a casa!-.
Ma perché si preoccupava tanto? Quel cane era solo un’illusione, no? Non era suo. Non era di nessuno, per quanto ne sapeva. Eppure si sentiva in dovere di riprenderlo. Sì, doveva recuperarlo.
-Buck!-, lo chiamò ancora, stavolta usando il primo nome che le venne in mente. Chissà dove lo aveva sentito, tra l’altro. -Buck! Buck, dove ti sei cacciato?-.
Si guardò intorno, aguzzando la vista per penetrare la lieve foschia che si era improvvisamente levata: dell’animale non c’era traccia. Vagò per qualche altro minuto senza avere la più pallida idea di dove stesse andando e di colpo lo sentì abbaiare.
-Buck!-, chiamò per l’ennesima volta, correndo nella direzione da cui sembrava provenire l’ululato.
E finalmente lo vide.
-Stupido-, disse tra sé e sé, avvicinandosi all’animale, immobile a qualche metro di distanza. Si inginocchiò accanto al cane e recuperò il guinzaglio, concedendogli una carezza sulla testa. -Non scappare più, d’accordo? Ti avrei potuto perdere, sai? E poi cosa avrei fatto? E se qualcuno ti avesse portato via?-.
Buck continuava a rimanere fermo. Fissava un punto di fronte a sé con grande interesse e Erza si chiese di nuovo cosa fosse stato ad attirarlo da quella parte.
-Hai visto un altro cane con cui giocare? Oppure hai provato a seguire uno scoiattolo, ma te lo sei lasciato scappare?-.
Il labrador abbaiò e si allontanò di nuovo nella foschia, ma stavolta Erza non si lasciò cogliere impreparata: tenne ben saldo il guinzaglio ed evitò che scappasse.
-Ma qual è il problema?-.
-Buck! Su, bello, vieni qui!-.
Una voce maschile ruppe la quiete del parco. Erza si rimise in piedi e si guardò intorno per vedere chi avesse parlato.
-Buck, te ne sei andato? È quasi ora di cena e se ci sbrighiamo a tornare a casa, ti prometto che avrai una razione extra di crocchette. Quelle al pollo che ti piacciono tanto, magari-.
La voce adesso era più vicina. Il cane abbaiò ancora e Erza pregò con tutte le sue forze che facesse silenzio.
-Eccoti, allora!-.
Dalla nebbia sbucò un giovane stretto in un trench nero che gli arrivava a metà coscia ed esaltava la sua magrezza. Aveva folti capelli blu che gli ricadevano compostamente sulla fronte, nascondendo appena un curioso tatuaggio rosso che spiccava sulla guancia destra, ed uno sguardo decisamente amichevole.
Il nuovo venuto si avvicinò e si abbassò all’altezza del labrador, grattandogli con fare amorevole il muso e le orecchie; poi rivolse la propria attenzione a Erza.
-Grazie per averlo preso-, le disse con un sorriso, guardandola dal basso. -Buck è molto espansivo e quando è al parco non vede l’ora di correre e giocare qui intorno. Pensavo che lo avrei perso per colpa di questa foschia, ma grazie al Cielo è intervenuta lei. Non so cosa avrei fatto, se non lo avessi ritrovato-.
Il ragazzo si rialzò e la fissò, aspettando che dicesse qualcosa. Peccato che Erza fosse a corto di parole.
-Mi scusi, ma temo che ci sia un errore-, provò a spiegare lei. -Questo cane è mio. Sono arrivata al parco quindici minuti fa e lo portavo con me-.
-È impossibile-, replicò lui. -Si sta sbagliando-.
-Crede che non saprei riconoscere il mio cane?-. Allo stesso tempo Erza si chiese perché avesse cominciato a pensare che Buck fosse davvero suo.
-Mi sta dando del bugiardo?-.
-Penso solo che si stia confondendo. I labrador sono cani molto comuni, se non sbaglio-.
-Allora mi dica: come si chiama il suo cane?-.
-Buck-.
-Ma guarda un po’ quanto è piccolo il mondo!-, sbottò il ragazzo, rivolgendo gli occhi al cielo e allargando alle braccia. -Stessa razza di cane e stesso nome. Non crede che le coincidenze siano un po’ troppe?-.
-Senta, è un caso. So solo che questo cane era con me quando sono entrata-.
-Anch’io sono certo della stessa cosa-, ribatté lui. -Come risolviamo la faccenda?-.
Quel sogno era paradossale. Erza avrebbe voluto svegliarsi il prima possibile, pur di non continuare quell’assurda conversazione.
-Il mio cane è scappato. All’improvviso è corso via ed io l’ho seguito-.
-Certo che sì! Stava tornando dal legittimo padrone!-.
-Ma anche il suo cane ha fatto la stessa cosa, no?-.
Quell’obiezione era innegabile.
-Quindi?-, domandò il ragazzo.
-Significa che il suo labrador è ancora in circolazione. Se Buck fosse veramente suo, non avrebbe avuto motivo di abbaiare quando l’ha vista arrivare, no?-.
Anche quello era un punto a sostegno di Erza.
-Oppure la soluzione è un’altra-.
-Sarebbe?-, chiese lei, curiosa e nervosa allo stesso tempo.
-Quello che sto per dirle potrebbe sembrarle impossibile, ma visto che questa è tutta un’illusione… Ha pensato che potrebbe esserci un solo cane?-.
“Bene”, si disse Erza, “siamo alla frutta. Talmente alla frutta che anche le persone che immagino sanno di trovarsi in un sogno”.
-Vuole dire che Buck sarebbe sia mio sia suo?-.
-Esattamente-, asserì il ragazzo, facendo un breve cenno con la testa.
-È assurdo-.
-Lo so-.
-Perché dovrebbe accadere una cosa del genere?-.
-Non lo chieda a me. I sogni spesso non hanno alcun senso-.
I due si fissarono ancora, mentre Buck guardava ora l’uno ora l’altra.
-Va bene, siamo ad un punto morto. Tanto vale fare le presentazioni, no?-, fece notare Erza.
-Oh, giusto-, concordò il ragazzo. -Mi chiamo Jellal Fernandes-.
-Piacere di conoscerla-, replicò lei, afferrando la mano che le veniva tesa. -Io sono Erza Scarlet-.
-È un nome adatto-, disse lui, indicando i capelli che le contornavano l’ovale del viso.
-E il suo invece è… particolare-.
-In che senso?-.
-Si offende se le dico che mi fa pensare alla parola gelatina?-.
Il ragazzo sospirò: -Ci sono abituato, ormai. È così che mi chiamavano alle Elementari-.
-Oddio, mi scusi, allora!-, tentò di rimediare Erza.
-Si figuri. C’è di peggio-.
Per qualche minuto cadde un silenzio insopportabile. Entrambi pensarono che Buck avrebbe anche potuto abbaiare, giusto per allentare la tensione.
-E viene spesso qui al parco?-, domandò Jellal dopo alcuni secondi di riflessione.
-Non molto, a dire la verità-.
-È un peccato. È un luogo meraviglioso, tanto d’estate quanto d’inverno. Io e Buck siamo frequentatori abituali-.
-Capisco-.
-Ecco perché sono ancora convinto che il cane sia mio e non suo-.
-Non ricominciamo con questa storia!-, sbottò Erza, lisciandosi l’impermeabile color sabbia che indossava. -Anzi, sa cosa le dico? Che, se vuole, può anche tenerlo lei-.
-Perché mai? Si è battuta duramente per avere Buck-.
-Non so perché l’ho fatto. In realtà non vado pazza per i cani-, ammise.
-E si lamenta dell’assurdità dei sogni quando lei per prima non ha le idee molto chiare?-, la prese in giro Jellal.
-Senta, cosa devo dirle? Io volevo solo riprendermi dopo un’intensa giornata di lavoro. Non è colpa mia se sono finita in questo parco e ci siamo incontrati-.
-Se è per questo, vale lo stesso per me-.
-Bene-.
-Bene-.
I due si esaminarono per qualche secondo. C’era qualcosa di davvero strano, in quel sogno.
-Se non viene al parco, cosa fa nel tempo libero?-, domandò Jellal.
-Vado in palestra-.
-Quale?-.
-La Makarov Gym, sulla High Street-.
-Passo spesso da quelle parti, ma non mi è mai capitato di incontrarla-.
-E anche se mi avesse incrociata?-.
-Forse avremmo potuto conoscerci in circostanze diverse e più piacevoli rispetto a questa, non crede?-.
Ora Jellal le sorrideva. Non solo era alle prese con un sogno assurdo, ma aveva anche a che fare con uno sconosciuto dall’aria alquanto insolita.
-Può darsi-, rispose Erza, sollevando un sopracciglio con fare sospettoso.
-Senta, dovremmo ricominciare da capo-, propose lui, passandosi una mano tra i capelli e spostandoli dalla fronte. -Mi sembrava che avessimo iniziato bene, prima che partisse la discussione. Anche se non abbiamo più idea di chi sia il vero padrone di Buck, lei è stata molto gentile nel recuperarlo. Che ne dice di fare una passeggiata? Sempre che non abbia fretta, ovviamente-.
Erza soppesò l’offerta: sotto un certo punto di vista diffidava ancora di quel tipo, ma d’altra parte c’era qualcosa in lui che le ispirava fiducia. Forse erano i suoi occhi a rassicurarla: sembravano dolci, quasi accoglienti.
-Dove vuole andare?-, gli chiese.
-Magari in riva al laghetto? È un posto che a Buck piace molto e io mi diverto a vederlo correre da una parte all’altra-.
-Vada per il laghetto, allora-, si arrese Erza. -Ma sbrighiamoci. Tra poco sarà buio-, fece notare, puntando gli occhi verso l’alto e osservando il cielo incupirsi.
-Le prometto che non la tratterrò per molto-, la rassicurò Jellal. -Non è mia abitudine infastidire una ragazza affascinante come lei-.
-Siamo passati dalle accuse alla cortesia?-, obiettò lei.
-Dimentichi ciò che è successo prima-, la pregò lo sconosciuto per tutta risposta. -E perdoni il tono che ho usato. Non volevo che ci fossero equivoci tra di noi-.
-D’accordo-, annuì Erza. -Farò finta che non sia accaduto nulla-.
Che sogno bizzarro! Alla fine era stato lui a porgere le scuse, quando invece era stata lei a dare inizio alla polemica.
-Vogliamo andare?-, le domandò.
-Sì. E tenga questo-.
Gli tese il guinzaglio e Jellal lo fissò: -È sicura di volermi affidare Buck?-.
-Perché no? Non ha la faccia di un ladro di cani, in fondo-.
L’uomo sorrise e prese il guinzaglio: -Va bene, va bene. Mi prenderò cura io di questo bestione-.
Si abbassò una seconda volta e accarezzò la testa dell’animale, che uggiolò in segno d’approvazione.
-OK, direi che possiamo andare. Erza, rimanga al mio fianco: se questa foschia dovesse intensificarsi, rischieremmo di perderci di vista-.
La ragazza non proferì parola. Si limitò a seguire Jellal nella nebbia, mentre il cane li conduceva attraverso il parco. Pensò che nella vita aveva fatto pochi sogni strani come quello.
-Lei piace molto a Buck-, aggiunse qualche minuto più tardi l’uomo.
-Come, scusi?-.
-Deve avergli fatto una buona impressione, altrimenti non si sarebbe lasciato avvicinare. Di solito tiene lontano chiunque provi ad accostarsi-.
-Oh-.
-A pensarci bene, è anche uno dei motivi per cui non incrocio mai nessuno, qui al parco. Non trova che sia curioso?-.
Erza si disse che quella era solo l’ultima delle cose che trovava insolite, ma non espresse la propria opinione in merito.
-Però oggi sono stato fortunato-.
-Sul serio?-, domandò la donna con poco interesse.
-Ho incontrato lei-.
Erza si fermò. Jellal mosse qualche altro passo, prima di voltarsi per vedere cosa le fosse preso.
-Va tutto bene?-, le chiese, stavolta con tono preoccupato.
-S-sì-, balbettò di rimando. Sentiva una morsa stringerle lo stomaco ed un peso opprimerle il torace. Per alcuni secondi ebbe l’impressione di non riuscire a respirare.
-Erza? Erza?-.
Di colpo non sentì più nulla. Le parole che Jellal stava pronunciando divennero mute e l’unica cosa che vide furono le sue labbra continuare a muoversi.

Driiin!

Il fastidioso trillo della sveglia la riportò prepotentemente alla realtà. Jellal, Buck e il parco divennero un’unica, sfocata macchia di colore e Erza aprì gli occhi, accorgendosi di essere ancora al caldo del proprio letto. Sbirciò l’orario sul cellulare e sbuffando si coprì il viso con le coperte: stava per iniziare una nuova giornata, ma avrebbe fatto di tutto per sapere quale fosse l’epilogo di quello strano sogno. 

   
 
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