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Autore: Flora    31/01/2005    7 recensioni
Cerca di gridare – e sente l’eco riflessa della sua voce, ma non la sua voce. È questa, la notte che cala sugli occhi?
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India, regione malliana. Il Re è ferito, forse morente. Mentre Alessandro lotta per sopravvivere, Efestione deve affrontare l'attesa più lunga della sua vita.
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Ho nostalgia di te. L’ho sempre avuta, anche prima di incontrarti. Come si può volere così tanto qualcosa che ancora non si conosce? Tu lo sai, Alekos? Lo senti questo richiamo?
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Questa storia fa parte del mio ciclo di racconti su Alessandro il Grande.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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[I primi tre capitoli di questo racconto sono stati scritti a quattro mani con Ronin]

Nota dell’autrice: Questo racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di Efestione ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione appare nelle fonti solo successivamente.

Il presente racconto si situa piuttosto in avanti nella cronologia alessandrina. Sulla via del ritorno dall’India, Alessandro si trova ad attaccare la cittadella di una tribù ribelle: i malli. Lì, a seguito di un gesto incosciente, riceverà la ferita più grave di tutta la sua vita: una freccia gli trapassa il polmone. Efestione non è con lui, avendolo preceduto con parte dell’esercito, ed essendosi accampato più a sud rispetto al luogo dell’incidente. Questo racconto esplora le lunghe ore in cui Alessandro lottò per la sua vita, e la silenziosa attesa di Efestione, quando tutto pareva perduto.
Per l’occasione sono stati ripristinati i nomi greci:

Alessandro: Aleksandros
Efestione: Hephaistion
Tolomeo: Ptolemaios
Cratero: Krateros
Liside: Lysios
Nearco: Nearkhos
Peucesta: Peukestes
Perdicca: Perdikkas
Leonnato: Leonnatos
Filippo: Philippos
Clito: Kleitos




Il viaggio





Arkhè.




Dolore – aria che gli scivola via dai polmoni.
Quando distingue una figura sbiadita avvicinarglisi, la rabbia gli ferma il respiro in gola ancora per qualche momento, gli solleva il braccio e glielo fa riabbassare con forza – la luce scintilla per l’ultima volta sulla lama che cala, mentre quella figura di uomo si rapprende in se stessa e scompare.
D’improvviso sente la terra polverosa e calda sotto le ginocchia – poi l’impressione di cadere indietro, e non potrebbe dire per quanto tempo. Gli sembra di vedere spacchi di cielo attraverso le fronde dell’albero – poi rovescia la testa di lato – e lì, ombre grigie sono immobili attorno a lui, cominciano a muoversi impazzite mentre sfumano e scompaiono. Solo le loro voci restano.
Grida e clangore nel buio – ondate di urla che fluttuano e si infrangono contro la sua testa e di nuovo si allontanano – di tanto in tanto resta solo il ribollire di un ansito faticoso, tagliato a metà dalle lame di un pauroso silenzio.
Al di sopra delle onde del mare buio una voce urla il suo nome – e per un istante lui confonde suoni e voci e si volta a cercare un volto che non trova. In un alone improvviso di luce vede solo Peukestes chino su di lui, sente delle mani sollevarlo, finché attraverso i rami una freccia improvvisa di sole lo trapassa di nuovo e lo affonda in una penombra confusa di ombre rosse e calde che gli si confondono davanti.
Sente la propria voce, ma non sa cosa sta dicendo.
Poi le ombre scompaiono ancora, spazzate via da una nuova luce bruciante – in un lampo rivede lo scintillio feroce del sole sulle distese di gelo bianco e bruciante del Paropamiso, rivede le onde di oro rovente delle sabbie intorno al punto verde di Siwa – e per un istante i templi dell’oracolo non gli sembrano altro che granelli fra granelli, che rotolano nel vento e si disperdono nell’aria e affondano nella terra mentre qualche dio ride. Prova a sollevare un braccio per coprirsi il viso, ma non riesce a muoversi; stringe forte gli occhi, alza la testa e li riapre, per un attimo vede la mano di Peukestes stretta intorno al suo polso, e le sue dita striate di rosso. Così non può prendere fiato.
La testa gli ricade di nuovo indietro. Sente ancora il suono incerto del suo respiro, mescolato ai mormorii confusi di Peukestes che urla su di lui e a quei fili rossi di sangue che si intrecciano sullo sfondo delle palpebre chiuse e si allargano in una macchia liquida e calda – per un momento è convinto si tratti di onde arrivate dall’oceano estremo per annegarlo e soffocargli il fiato in petto, finché da quella superficie scura riaffiora il viso di suo padre – la cicatrice pallida attraverso la palpebra destra serrata sull’orbita vuota, e l’altro occhio, incredulo e triste, spalancato su di lui, e la pupilla muta che gli rimanda la sua immagine – si rivede chino sul corpo tiepido, rivede le larghe macchie rosse che intridono la terra bianca della strada verso il teatro, riascolta il suo urlo, riascolta il silenzio rombante di sua madre, e d’improvviso gli occhi di lei si spalancano brillando, e tutto il resto (le onde e il volto pallido di Philippos e la terra che ha bevuto il sangue) affonda come un sasso nell’abisso di pece delle sue pupille e scompare nel balenio improvviso di una lacrima sottile e sola che rotola via veloce. Lui può solo guardare i suoi occhi, grandi e muti mentre cercano di bisbigliare parole segrete che solo una parte lontana di lui riesce a capire, verdi e freddi come le scaglie luccicanti di due serpenti che strisciano senza rumore e si arrotolano e spalancano bocche sibilanti e divorano le proprie code.
Poi, un guizzo invisibile – e urla quando sente un dente affilato affondargli d’improvviso nel petto e mordere ancora. Spalanca di nuovo gli occhi e vede il viso allucinato di Peukestes che cerca di sorridere – e un altro morso, e un altro viso. Ora Aristoteles gli spalma qualcosa sul braccio ferito, e un ragazzo posa la mano sulla sua spalla e lo guarda, e sente la sua voce dolce e fresca che gli parla – “alogistos eis, sei un incosciente, perché ti butti sempre senza pensare?” – gli sta dicendo – “devo sempre starti dietro” – e lui vorrebbe rispondergli – “io penso, Hephaistion” – ma il tempo è già cambiato con il respiro che ribolle di nuovo nel sangue e brucia come il vino rosso nelle fiamme che hanno consumato Persepolis. Si ferma a guardare – si ferma a guardare il fuoco che sale e sfida il cielo freddo di una notte urlante, ed Hephaistion gli è di nuovo vicino, lo prende per un braccio e lo scuote appena – “apoleipe, vieni via, lascia perdere, Alekos, lascia stare, vieni via” – ma lui non si muove, continua a fissare il fuoco come se finalmente lo riconoscesse. E le fiamme sono sempre più alte, e ora sono diventate silenziose, perché non hanno più bisogno di parole né di crepitii; si aggrappa ad Hephaistion e stringe e non sa decidersi a fare un passo indietro. E qualcuno lo chiama, da oltre il muro silenzioso delle fiamme – è una voce tremante, che striscia incerta fino a lui – Kyrie.
Kyrie.
Vede Philotas, con gli spuntoni scheggiati e anneriti di sangue delle frecce macedoni piantati in petto, che lo saluta con un cenno del capo prima di ricominciare a far rotolare nella mano i dadi e gettarli, lentamente, sul terriccio melmoso di una cella, dove Kallisthenes è seduto con un foglio di papiro spiegato sulle ginocchia, impegnato a guardarlo con gli occhi concentrati e introvabili, affondati nelle orbite nere di un viso scheletrico.
Kyrie.
Parmenion lo chiama sorridendo sdentato e gli tende le braccia, e scopre il taglio profondo nel petto. E mentre lui resta fermo, raggelato, a guardare i lembi slabbrati di pelle, arriva alle sue spalle la voce stentata di Kleitos che biascica qualcosa su Philippos. Si preme le mani sulle orecchie per non ascoltare e si volta attorno per cercare Hephaistion, ma quando sente il suo braccio chiuderglisi sulle spalle, lo chiamano ancora.
Kyrie.
Qualcuno gli solleva la testa, e quando socchiude gli occhi vede su di sé le maschere contorte e violacee di persone che non crede di riconoscere. Qualcuno si china appena e ricomincia a parlare: “Kyrie, akoue kyrie, tamein dei kai, Signore, ascolta Signore, bisogna tagliare.” Sente la sua stessa voce graffiargli la gola mentre sputa fuori le parole – “fa’ quello che devi, sbrigati” – e in bocca il sapore del sangue che scivola via dalle sue labbra con un respiro e gli percorre la guancia.
Poi, il morso più profondo e velenoso di tutti.
Sente il proprio urlo in un lampo di luce scura – rovescia la testa indietro a torna a vedere il buio di un cielo notturno, mentre le fiamme gli covano in petto e stridono e lo attraversano per allungarsi a divorare le stelle, finché non rimane altro che un infinito velo nero e gelido.




Ovunque guardi, si estende pianura deserta e spaccata dal sole nell’aria polverosa.
Sotto i suoi piedi la terra scricchiola e granelli di polvere rossa si sollevano e ondeggiano pigri, urlano ammutoliti mentre fluttuano senza un senso e danzano folli (follli, folli, dove vorrebbero andare?) e ricadono lenti e sconfitti – sconfitta lenta, senza sangue – sconfitta silenziosa, senza bagliori d’armatura.
Pochi di quei granelli non ricadono. Si arrampicano nell’aria, verso l’alto e, quando scompaiono, dei punti luminosi brillano nel cielo lontano oltre il velo d’aria bollente.
E la terra scricchiola ancora mentre le mura di una città crollano alle sue spalle. Ma lui non si volta, e guarda i bagliori appuntiti oltre la polvere – lui li vuole, vuole bagliori d’armatura mentre la terra ondeggia e gli chiede – “da dove vieni?” Appoggia lo scudo ai suoi piedi, si toglie l’elmo e ascolta le parole antiche che arrivano correndo sul vento da ogni parte – “chi sei?”
E lui si volta attorno e urla – “quello che ti ha calpestato oltre il confine.”
Pianta la spada a terra – e la terra ruggisce e ondeggia, si spacca (taglio, ferita, ferita profonda, ferita veloce) – fragore di roccia che si infrange, schiocchi di lastre che si staccano – vento che sibila e ripete le sue parole in ogni dove, voragine che si spalanca.
Quando l’eco del grido si spegne, sente il sangue risalirgli la gola e uscirgli di bocca – gli manca il respiro d’improvviso mentre la terra ride appena. Cade in ginocchio, cerca di nuovo l’aria mentre la polvere gli si attacca al palato, le mani si tagliano sulle rocce lucide del bordo aspro della voragine e gli occhi si fissano su quel fondo lontano, oscurato da un’ombra scintillante di bagliori del colore del fuoco. E mentre guarda fisso, quasi dimentica di respirare. Sente una goccia di sangue scivolargli dalle labbra, la vede cadere sempre più veloce finché non riesce più a distinguerla; e dopo qualche tempo, sul letto d’ombra si alza un groviglio di fiamme che crepitano e cominciano ad alzarsi.
Tende un braccio sul vuoto – sente il calore del fuoco arrivare fino al palmo pallido della sua mano, sente che potrebbe cadere – ma qualcuno gli afferra una spalla, e lo tira indietro. “Vieni via, vieni con me. Sono qui.” La voce di Hephaistion è ancora fresca attraverso la polvere dell’aria, disperde il crepitio rabbioso del fuoco e lo scricchiolio della terra.
Si sente d’improvviso stanco – sente la testa pesante sul collo, non riesce a sollevare il petto per prendere fiato, combatte per non chiudere gli occhi. Si volta a fatica per guardare Hephaistion – ma non lo trova.
Stringe gli occhi e li riapre – ma non c’è nessuno. Affonda le mani nella polvere e si tira in piedi.
Dietro di lui, la pianura è oscurata d’improvviso da un ordinato esercito di ombre schierate.
Guarda con gli occhi che bruciano i loro contorni confusi e i loro visi informi, e domanda a bassa voce: “Dove sei?” Le ombre ondeggiano appena e sibilano qualcosa di incomprensibile. “Dove sei?” – si passa una mano sul viso e la allontana macchiata di sangue – “dove sei?” – polvere bollente, macerie di una città crollata – “dove sei?” – ombre gelide, il suono irritante di un cavallo che si avvicina da qualche parte – “dove sei?” – il vuoto dietro di lui, ombra e fuoco. “Dove sei?” – grida di nuovo, e grida, e grida, finché non lo sente rispondere.
“Qui. Sono qui.”
Allora crolla a terra senza sapere come.
Poi, più niente.





  
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