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Autore: Elizabeth_Keats    06/11/2008    4 recensioni
"Perfetto. Davvero perfetto. Sarebbe anche arrivato tardi al lavoro. Gerard Way si lasciò sfuggire un sospiro rumoroso [...] Lo sapeva: sarebbe stato un lunedì nero". Come sarebbe il mondo senza i My Chemical Romance? Come sarebbe la vita dei nostri 5 eroi se non fosse mai accaduto niente, se la band che ha fatto sognare migliaia di fan non fosse mai nata? Dove sarebbero loro ora? Se non si fossero mai conosciuti? Se fossero delle persone comunissime alle prese con i mille crucci della vita? "E così Gerard Way a 31 anni stava ancora aspettando che qualcosa sconvolgesse il suo quotidiano... invano (o quasi)" Leggete, RECENSITE... e scoprire che fine hanno fatto i 5 MyChem!
Genere: Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gerard Way, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1.          Convergenza

 

Il tempo passa. Anche quando sembra impossibile. Anche quando il rintocco di ogni secondo fa male come il sangue che pulsa nelle ferite. Passa in una maniera diseguale, tra strani scarti e bonacce prolungate, ma passa… Ok. STOOOOP! Qui c’è un errore: non siamo nel solito romanzo romantico, così sdolcinato da far venire il diabete, dove la solita ragazzina sfortunata (Gerard? Mmm) piange e sospira sulla foto del più figo della scuola che (è un classico9 non la caga (per poi scoprire che è un essere non umano, dotato di straordinari poteri, in grqado di uccidere con niente, che ha come missione… ma questa è un’altra storia). Vabbè, facciamo prima a dire che da quel fatidico lunedì nero passarono tre settimane e l’autunno era ormai alle porte. Foglie giallastre che danzavano nel vento, alberi spogli che sembravano vecchi decrepiti, un cielo plumbeo che pesava sulle teste della gente che passava per strada, pozzanghere sempre più frequenti e profonde  in cui si rifletteva un sole pallido e dall’aspetto malaticcio: così si presentava New York in quei giorni di fine ottobre.

Ma il tempo atmosferico non importava granché al signor Gerard Way, la cui vita continuava a scorrere “regolare” e “tranquilla”, anche se con i soliti inciampi di percorso. Era sabato pomeriggio, la fine di una lunga settimana di lavoro, in cui il capo non gli aveva lasciato un attimo di respiro. E ora Gerard, cercando di accantonare in un angolo della sua mente la stanchezza, guardava fuori dalla finestra di casa sua, indeciso se prendere con sé o meno l’ombrello per uscire. Alla fine giunse a una conclusione: meglio non correre rischi.

«Ciao, tesoro, allora ci vediamo stasera, ok?».

Norah gli passò vicino con noncuranza, soffermandosi un attimo davanti allo specchio dell’ingresso per sistemarsi il rossetto. Già, infatti quel pomeriggio sua moglie sarebbe andata a fare shopping con Alicia (la carta di credito di Gerard rabbrividì al solo pensiero), lasciando così i bambini a lui. Che in quel momento era la persona più rilassata al mondo… come al solito. Non poteva nemmeno affidare Adam e Rachel a Mikey, perché quel giorno il fratello si trovava nel Jersey, a casa di mamma, per aiutarla  a “dare giusto una sistematica al giardino”, come diceva lei. Quindi si vedeva costretto a portare i cuoi figli con sé. Per andare dove, vi chiederete. Be’, come previsto, la storia con Frank Iero, l’uomo hamburger, non era certo finita. Infatti il nanetto malefico gli aveva promesso, una volta uscito dall’ospedale, che non l’avrebbe citato per danni… ma a un prezzo: avrebbe dovuto aiutarlo in alcuni lavoretti, sia a casa che al noto fat-food in cui lavorava, essendo ovviamente impedito in alcuni gesti dalla gamba ingessata. Tutto questo per un due mesi circa. E naturalmente il tipo aveva ben sottolineato le parole “anche sul posto di lavoro”, probabilmente perché pregustava un certo piacere nel vedere Gerard affaticarsi al suo posto; ovviamente non aveva pensato di prendersi neanche un giorno di malattia: aveva “tanto bisogno di lavorare” lui! Gerard non lo conosceva ancora bene, ma già da quella richiesta aveva capito che quella volta aveva a che fare con qualcuno di tosto e veramente crudele e vendicativo. Maledetto folletto fastidioso! Quale modo migliore poteva esserci per fargliela pagare di averlo accidentalmente investito?

«Dai, ragazzi, è ora di andare!» chiamò dirigendosi in salotto.

Intanto dall’ingresso provenne lo sbattere della porta, segno che Norah aveva appena dato ufficialmente inizio al suo shopping sfrenato (e magari consolatorio). Senza neanche un bacio o un ciao. Mah. Vabbè, meglio non pensarci troppo, dopotutto c’era da aspettarselo. Anche se non ne avevano più parlato, Gerard era più che sicuro che la moglie non avesse ancora cambiato idea da quel fatidico giorno: continuava a considerarlo un buono a nulla. E Gerard non poteva farci niente…

«Adam, prendi la sciarpa mi raccomando! Fuori fa freddo!» strillò dall’altra stanza mentre allacciava le scarpe a Rachel.

«Papà, ma dobbiamo proprio andarci?» sbuffò suo figlio entrando in salotto trascinandosi dietro la sciarpa che strisciava sul pavimento.

Adam era un bambino dall’aria sveglia, capelli neri ribelli e occhi verdi come quelli di un gatto come Norah. Sul suo viso angelico, su cui di solito risplendeva sempre un sorrisino beffardo, pronto a combinare qualche altro disastro, regnava ora un’espressione scocciata.

«Sì» rispose Gerard, ora sistemando la giacchetta di Rachel che si lasciava manipolare come una bambolina. «Papà deve sbrigare un paio di cose».

«Uffa, ma io… anzi noi… ci annoiamo! Non possiamo andare da zio Mikey? Aveva detto che mi faceva vendere un'altra magia! Uffiiiiii!».

«Sì, papà» rincarò Rachel. «Io ho scionno e fuori fa feddo. Vojo rimanere a casa e giocale con Sally e Adam al dottole!!!!».

Sally era la bambola di pezza preferita di Rachel e anche lei a giudicare dall’increspatura delle sue labbra sotto le guance piene e rosse che mele, contornate da boccoli di un caldo color cioccolato che la facevano assomigliare tanto ad una di quelle bamboline di porcellana, sembrava non gradisse quell’uscita.

«No, Rachel, non oggi. Papà deve fare una cosa molto molto importante e voi due dovete aiutarlo, ok? Un po’ come Babbo Natale con i suoi aiutanti, intesi?».

Il paragone sembrò per un attimo aver convinto Rachel, i cui occhi naturalmente iniziavano a brillare ogni volta che si nominava il buon vecchio barbuto. Aveva iniziato ad esprimere il suo entusiasmo con brevi strilletti e saltelli: se fosse stato un cane si sarebbe messa a scodinzolare. Ma il suo entusiasmo fu subito interrotto da Adam.

«Ma tu fai sempre cose noiose! Uffa! No, io non ci vengo!».

Ecco: il germoglio. Possibile che a soli sei anni suo figlio si accorgesse già quanto fosse sfigato suo padre??? Di sicuro era tutto merito di Norah e delle sue solite frasi lasciate a metà durante la cena: Dio, certe volte credeva che qualcuno per sbagli avesse esportato una parte del cervello di sua moglie e l’avesse trapiantato nel cranio di Adam quanto si somigliavano! Cazzo, chissà come sarebbe stato a sedici anni… Ma per fortuna Rachel, ancora innocente al 100%, continuava a sostenerlo… anche se forse mancava poco perché anche lei si accorgesse del vero…

«Poche storie e cammina!» s’impuntò Gerard con tono autoritario, prendendo la sciarpa rossa di Adam, annodandogliela ben bene al colo e spingendolo verso la porta mentre teneva sua figlia per mano.

«Su, cammina, non abbiamo tempo da perdere».

«Uffiiiii però…».

«Che bello… Papà, c’è anche Babbo Natale?».

«No, non credo, tesoro. Dovrai aspettare ancora un po’».

È sottointeso dire che quello del padre è il mestiere più difficile al mondo.

 

Ed ecco il colpevole che ritorna sulla scena del delitto: un classico. Peccato che quella stessa scena si sarebbe dovuta ripetere per altri due mesi almeno… Appena sceso dalla macchina, Gerard schizzò dentro il locale tenendo per mano i suoi due figli alla massima velocità che gli permettevano le sue gambe: meno tempo passava in quel maledetto parcheggio meglio era: la vergogna per quella sua famosa distrazione era ancora fresca.

A quell’ora (ero quasi le tre del pomeriggio) il piccolo fast-food era quasi deserto, se non si contava una coppia di fidanzatini adolescenti e un signore di mezza età tutto intento a leggere la pagina sportiva del Time. Al povero Way bastò una breve occhiata d’intorno a quel posto (doveva lui e suo fratello avrebbero dovuto passare una pausa pranzo relativamente rilassante) per trovare chi cercava. Frank Iero era seduto dietro il bancone, con la testa appoggiata sui gomiti mentre sfogliava una rivista; un paio di stampelle facevano capolino di fianco a lui. Non pareva nemmeno che lavorasse lì tanto la sua aria era satura di noncuranza, a differenza delle due ragazze che poco più in là si affaccendavano a pulire a destra e a manca chiacchierando non senza qualche risatina.

«Papà, adesso possiamo andare a giocare almeno?» domandò Adam dando un forte strattone. Testardo.

Gerard non lo degnò neanche della minima attenzione, ma si avvicinò al bancone trascinandosi dietro i due bambini come due bambole di pezza. Solo allora Frank, cogliendo il rumore dei loro passi, alzò lo sguardo dalla sua lettura e subito sul suo visetto furbo comparì un’espressione sorpresa accompagnata da un sorriso divertito. Indubbiamente Gerard in versione papà doveva risultare alquanto insolito e buffo. E, in effetti, anche li si vergognava un po’…

«Guarda chi si vede…» rise il nanerottolo e dopo un’occhiata all’orologio a muro: «Giusto in orario. Spacchi proprio il secondo, Gerard!».

Gerard avrebbe decisamente preferito rimanere più formale, in fondo essere chiamato signor Way era la sua ultima fonte da cui attingere un modesto rispetto e considerazione. Ma in quel momento, si disse, era meglio non chiedere troppo.

«E questi due nanetti chi sono?» domandò Frank e il suo sorrise si fece se possibile ancora più largo.

«I miei figli… Spero non sia un fastidio per te se stanno…» rispose Gerard con un flebile sussurro che fu subito coperto dal tono impertinente di Adam.

«Nanetto sarai tu!».

Fank scoppiò in una breve risata: non era ben chiaro se era innocente divertimento o crudele sarcasmo. Senza ribattere si allungò oltre il bancone per scompigliare i capelli del bambino che emise un suono irritato simile a un ringhio. Gerard era sicuro che, se al posto di suo figlio avesse avuto un pitbull, Frank avrebbe dovuto dire addio alla sua mano già da un pezzo: infatti il modo migliore per fare arrabbiare Adam non era togliergli i giocattoli i spegnergli la tv… ma ricordargli che lui era solo un bambino di 6 anni. In questo aveva preso tutto da Norah…

«Potremmo iniziare?» sbottò Gerard con un sospiro. Prima finiva meglio era.

«Oh, oh, il signor Way è ansioso di mettersi al lavoro al posto mio? Ma che generoso…» rise l’altro.

Ma la sua espressione gaia non arrivò alla faccia scocciata di Gerard, anzi non riscaldò nemmeno un po’ l’aria attorno a Mr Way, perennemente ombreggiata dalla nuvoletta di Fantozzi.

«Ok, come preferisci».

A quel punto Gerard lasciò liberi Adam e Rachel di andare a giocare a quello che pareva loro, non senza aver prima riservato loro un’occhiata ammonitrice; ne avevano già parlato in macchina: avrebbero potuto scorrazzare e giocare per il locale a patto che non facessero troppa confusione e soprattutto che non rompessero niente. In caso contrario entrambi conoscevano bene il genere si reazione che avrebbe avuto il padre.

Per il resto, era ora di rimboccarsi le maniche… ed esaudire ogni richiesta dell’uomo-hamburger.

 

Due ore dopo.

Cazzo, non si era mai sentito più cretino in vita sua. Aveva proprio toccato il fondo una volta per tutte. Si sentiva umiliato, ma così tanto che neanche ai tempi della scuola quando tutti lo prendevano in giro per via del suo stile un po’ stravagante. Aveva lavorato incessantemente per due ora come uno di quegli operai cinesi stra-sfurttati. Non si sentiva più la schiena e le gambe e aveva la netta sensazione che Frank avesse approfittato della sua condizione per fargli sbrigare un sacco di lavori extra. Ma Gerard non aveva fiatato, non un’imprecazione, non una lamentela era trapelata dalle sue labbra, troppo concentrato sul suo lavoro per pensare ad altro. Non avrebbe più dato nessuna occasione a nessuno di dirgli quanto fosse poco professionale, poco affidabile… o inutile.

Aveva lavato e spazzato il pavimento di tutto il locale, che non era certo piccolo, aveva aiutato le due ragazze (che aveva scoperto chiamarsi Lizzie e Sarah) a mettere in ordine in cucina, aveva servito qualche cliente ed era andato fuori a distribuire volantini ai passanti (per fortuna il nanetto gli aveva risparmiato la tortura di indossare quel ridicolo costume da hamburger).

E ora, dopo aver controllato che Adam e Rachel, che si era comportati meglio del previsto, fossero ancora nel loro angolo a giocare con le carte che aveva dato loro Frank, si lasciò scivolare con noncuranza sulla prima sedia a disposizione. Non invidiava affatto il lavoro dell’altro: gli ci sarebbe voluta una settimana di riposo per ricomporsi.

«Stanco?».

Una voce familiare lo colse alle spalle facendolo sobbalzare: Frank. Si stava dirigendo verso di lui saltellando sulle stampelle e facendo ondeggiare avanti e indietro la gamba ingessata ad ogni passo. Per tutto il giorno non aveva fatto altro che starsene comodamente seduto dietro il bancone con il suo giornaletto e la sua tazza di caffè fumante, guidando Gerard nelle sue faccende con pochi gesti decisi. Ed ora eccolo tornare all’attacco: uffa.

«Che devo fare ancora?» gli chiese senza muovere un muscolo. Ogni minimo movimento sembrava produrre un piccolo strappo in ogni angolo del suo corpo.

«Niente. Per oggi abbiamo finito, credo».

Grazie a Dio!

«Ehm, posso offrirti un caffè?». Lo disse con un tono che suonava imbarazzato e quasi arrossendo.

Gerard dovette contare fino a dieci prima di essere sicuro di aver sentito bene. Come? Un caffè?

«Eddai, non voglio mica avvelenarti!». E si sedette davanti a lui: li divideva un piccolo tavolino rotondo che una volta doveva essere stato bianco, mentre Gerard non poté fare altro che rimanere immobile dov’era. Dopo una frazione di secondo comparve Lizzie (o era Sarah?) con un vassoio con su due tazze di caffè, che subito i due si misero a sorseggiare in silenzio.

Passò non si sa quanto tempo prima che uno dei due spiccicasse parola.

«Hai una bella famiglia…» sussurrò Frank con lo sguardo perso dall’altra parte della stanza, dove stavano ancora giocando Adam e Rachel. «I tuoi figli sono deliziosi, davvero».

Gerard rizzò le orecchie e restò in campana: quelle smancerie erano tutta una messinscena per ottenere qualcos’altro? Eppure sembrava così sincero…

«Grazie» sussurrò Gerard con gli occhi fissi sul liquido nero nella sua tazza. Non sapeva perché, ma si sentiva a disagio a parlare con Frank. Era come se… Boh, non riusciva a capirlo neanche lui.

Altro silenzio.

«Sai, ti invidio…» sbottò poi l’altro all’improvviso. «Vorrei avere anch’io una vita come la tua…».

Per poco a Gerard non andò di traverso il caffè: cosa? Esisteva qualcuno in tutto il mondo che osava invidiare la sua sfigatissima, merdossissima insignificantissima vita? O mio Dio!

«Tranquillo, non sono così malato di mente da invidiare tutta la tua sfiga» precisò. «Ma… bè… anche a me piacerebbe avere una bella famiglia che mi accolga a braccia aperte tutte le sere quando torno a casa dal lavoro…».

A Gerard venne immediatamente in mente la vistosa fidanzata di Frank, Katy Russel o come diavolo si chiamava.

«Qualcuno che mi sostenga incondizionatamente… che creda sempre in me… che mi dimostri sempre il suo affetto… come… come a te».

Quelle ultime parole tracciarono una profonda ferita sul cuore di Gerard: anche lui aveva sempre creduto che, nonostante tutta la merda con cui aveva a che fare, ci fosse sempre qualcuno al suo fianco pronto a sostenerlo. Ci aveva creduto sempre fino a quando Norah non aveva espresso la sua delusione… e ora anche quell’ultima speranza era sfumata.

«Anche a me piacerebbe» mormorò.

«Come? Tu non…».

«Sembra che non ci sia più l’intesa di un tempo…».

«Ah, mi dispiace».

«Non fa niente, tranquillo».

Calò un altro lungo silenzio. Evidentemente Frank si era reso conto di aver toccato un altro dei tanti tasti dolenti nella vita di Gerard, lo capiva dalla sua espressione afflitta; la stessa di Mikey quando parlavano di cose serie.

Gerard posò la sua tazza sul tavolino e passò distrattamente un dito sul suo bordo liscio: forse era ora di andare. Fece per alzarsi ma Frank lo fermò con un repentino: «No, aspetta, non te ne andare subito».

E lui rimase. Non seppe perché ma rimase. All’improvviso aveva sentito di essere molto più vicino e simili a Frank di quanto avesse creduto fin dal principio. Quel ragazzo aveva scritte in faccia le sue stesse delusioni, le sue stesse aspettative infrante.

«Scusami se sono stato così invasivo. Non credevo che tu e tua moglie… Be’, passerà suppongo… Dopotutto è un periodaccio per molti questo».

«Cosa vuoi da me?» chiese Gerard schietto. Stava mandando all’aria ogni suo tentativo di apertura, sbarrava con pesanti massi la strada verso la probabile nascita di un’amicizia. Ma sentiva che quello non era né il luogo né il momento adatto per aprire la sua mente al mondo.

Frank lo fissò perplesso: di sicuro non si aspettava una domanda del genere.

«Niente… Volevo solo… Non importa».

Invece a Gerard importava. Finalmente aveva trovato qualcuno che sembrava provare i suoi stessi tormenti.

«Vai avanti, ti prego».

Frank sospirò, rigirandosi la tazza tra le mani per riscaldarsi.

«Niente. È solo che… guardo la tua famiglia… e vedo quello che ho sempre desiderato… o almeno una parte. Sai, quando ero piccolo credevo che le cose brutte esistessero solo nelle favole, che nella vita reale non si potesse soffrire, che niente potesse cambiare davvero: il dolore era solo qualcosa di fittizio che usavano gli adulti per fare un po’ di scena. Sembrava tutto bello e… cazzo, ci credevo davvero! E poi…».

«Sei rimasto fregato» sospirò Gerard.

«Già. Iniziò tutto quando i miei divorziarono… Fu terribile. E fu proprio in quell’occasione che capii che tutto quello in cui avevo sempre creduto non era che un teatrino ben allestito. Era ormai il periodo in cui dopo aver letto una storia di fantasmi potevo riemergere nella realtà e notare con sollievo che era tutto a posto, tutto felice. Avevo scoperto che il dolore era vero, che non era solo una favola che raccontavano per spaventare i bambini. Quella è stata la mia disillusione, diciamo. Avevo dei progetti: suonavo (e suono tutt’ora) la chitarra e come ogni ragazzino che si rispetti sognavo un grande futuro, pieno di luci e persone che tendevano le braccia a me con esclamazioni di ammirazione. Avevo creduto talmente fervidamente che tutto sarebbe andato così che… be’, era come se dovesse accadere davvero. Come qualcosa di programmato che non può cambiare, non so se mi spiego. E, be’, come la mia famosa disillusione anche quei piani, all’inizio indistruttibili, iniziarono a traballare. Le cose brutte che avevo ritrovato così spesso nelle favole sembravano essersi riversate nella mia vita: mi mancava un punto di riferimento, non sapevo nemmeno quale fosse davvero la vera realtà».

Le sue labbra contennero per un attimo quel fiume di parole per lasciare spazio ad una breve pausa accompagnata da un sospiro.

«E poi fui catapultato nella vita. Fino ad allora avevo vissuto come in un sogno. Però al quel punto mi trovavo ad affrontare ostacoli che mi parevano insormontabili e soprattutto con nessuno di preciso al mio fianco pronto ad indicarmi la soluzione. Non sapevo cosa voleva dire essere adulti, me per forza di cose fui costretto a diventarlo. Fui letteralmente gettato senza tante smancerie in questo postaccio che chiamano età adulta e mi ritrovai a cercare qualsiasi espediente pur di affrontarla. Non sapevo come si viveva: ero stato tenuto troppo a lungo sotto una campana di vetro che si era rotta senza che nessuno fosse lì pronto a raccogliermi tra i cocci e insegnarmi un nuovo tipo d’esistenza. Me la cavai certo, imparai tutto molto velocemente… troppo velocemente. Ma a un prezzo: tutto quello che avevo sognato… be’, al momento avevo altre priorità. E così tutto quel futuro fantastico che avevo sperato avevo dovuto gettarlo fuori dalla finestra. Mi trovai parecchi lavoretti precari, che ovviamente non mi davano la minima soddisfazione. Sono andato avanti traballando per molti anni sotto questo verso… e tutt’ora sono instabile, ancora bloccato in questo posto di merda…».

Fece un ampio gesto che abbracciò tutto l’ambiente circostante e nei suoi occhi Gerard poté veder riflessa la delusione di molti anni. Adam e Rachel stavano ancora giocando nel loro angolo di favola; chissà per quanto tempo ancora sarebbero potuti essere così.

«Be’… se mi andava (e mi va) male su questo fronte, sull’altro la situazione non era certo migliore. I miei genitori… la mia famiglia… appartenevano al passato, si erano infranti insieme alla bolla che mi aveva protetto fino ad allora. Avevo cercato di ricreare quel calore che ti fa sentire così… bene. Invano. Avevo cercato altrove: amici, possibili fidanzate. Non sono stato capace neanche di questo. Ok, voglio bene a Katy, lei è carina e tutto il resto ma… sento tanto freddo. Sono anni che sento freddo. Mi manca quella persona che sappia quello che penso, che sappia confortarmi, che sappia mostrarmi la bellezza in ogni cosa. Per questo invidio la tua famiglia: tu almeno hai loro. Può andarti tutto male, a quanto ho capito, ma hai loro… e anche se questo è un periodo un po’ così… be’, non importa: loro ci sono lo stesso. Io sono continuamente appeso a un filo. Cerco, cerco e cerca ma non trovo. Avevo dovuto imparare a vivere, a combattere per strappare con i denti e con le unghie quel poco che mi serviva al mondo, avevo dovuto abbandonare ciò che desideravo, che poteva dare un senso al tutto… e non sono riuscito a trovare o a ritrovare qualcuno che… be’, fosse la mia stampella…».

Sorrise ancora, ora giocherellando con la stampella che aveva tra le mani. Ma quello che sfoggiava in quel momento non era il sorriso di prima, quello ironico e divertito. Aveva una punta d’amarezza… E Gerard non poteva immaginare quanto il suo cuore con ogni suo battito stesse approvando quello che stava dicendo Frank.

«E non so… non riesco… non ho, sì, non ho nemmeno la voglia di provare a crearmi una vita migliore. Anzi, no… Non ho il tempo… Tutto è troppo frenetico. Arrivo a sera così stanco che non ho più la forza di pensare a cosa cambiare in tutta questa barzelletta di vita. Mi sento…».

«…soffocare».

La voce di Gerard, flebile ma allo stesso tempo forte in quell’atmosfera, risuonò nell’aria, con una sfumatura quasi profetica. Frank rimase allibito: era proprio quello che stava per dire. E l’altro proseguì il discorso per lui.

«Senti come se tutto il mondo fosse compresso in un singolo secondo… e tu fossi al centro di tutto quel caos. Non hai il tempo per pensare, per sognare, per fantasticare quello che avevi sempre sperato. Per capire ciò che ti sta attorno o anche solo osservarlo con più attenzione. Ammirare le cose, le persone… e magari accorgersi del piccolo ma inesorabile cambiamento che avviene in loro ogni giorno. Decifrare i loro pensieri. Capire i loro sentimenti e stati d’animo. Capire te stesso. Cosa vuoi veramente e cosa potresti fare per metterlo in atto. Accorgerti dove stai sbagliando e rimediare. Approfondire certe conoscenze per sentirti migliore. Ma non hai il tempo e concentri l’indispensabile in quei pochi minuti, cercando ogni giorno di guadagnare un secondo in più per dedicarti a quello a cui tieni di più. Sì, lo so bene. Anch’io mi sento così».

E per la prima volta da quando Gerard era approdato in quel piccolo locale quel pomeriggio, i suoi occhi incontrarono quelli di Frank e entrambi all’unisono sentirono che qualcosa li accomunava. Come si suol dire, erano sulla stessa barca. E da quel momento avrebbero dovuto navigare insieme.

Ok, capitolo luuuuuuuungo. Il che spiega anche il mio ritardo. No, bè, la ragione non è proprio quella: sapete com'è l'ispirazione andava e veniva insieme alla scarsa voglia di mettermi qui a fare qualcosa di produttivo, il tempo scarsissimo (un vero schifo davvero... il discorso di Gerard mi è sgorgato dritto dal cuore!) e poi... sì, devo ammettere che sono stata un po' impeganta anche con la mia droga preferita. Come forse qualcuno di voi saprà la settimana scorsa è uscito l'ultimo (ahimè T_T) libro della saga di Twilight *me sbava smodatamente*... e ovviamente la tentazione ha avuto il sopravvento (e ha contagiato anche questo cap di merda come avete potuto notare dall'incipit). Ok, lo ammetto sono una drogata persa di Twilight e affini (fischiate pure) e questa settimana è stato difficile mettere da parte il libro (Breaking Dawn... *altra bava*) per scrivere anche solo due righe. Quindi non vi garantisco la rapidità dei miei aggiornamenti. Bene, ho già blablato fin troppo (insieme ai miei personaggi). Ringrazio:

Dominil: Innanzitutto, sai come si dice: tra moglie e marito non mettere il dito! Per la fidanzata di Frank... ehm, sì è un tantino pu.... ma, bè, mi serviva.

princes_oh_the_univers: come già detto la "morosa" di Frank non può sparire... almeno per il momento. Mi dispiace. E adesso Gerard ha una valvola di sfogo contenta?

friem: grazie per l'entusiasmo! Risparmiami la violenza però eh? Devi capire che il carattere di Norah è un po'... complesso, ecco. E orgoglioso. Non la vedo affatto come una di quelle mogli arpie! E poi se tuo marito ti combinasse un casino dietro l'altro non ci rimarresti u po' male? Ok, ha dei modi bruschi e questo non è giusto... però. Ps: Mikey è troppo superiore x la tarantella

laramao: grazie 10000 anche a te! ma no che Gerard non si suicida! Lui è fatto di gomma: resiste a tutto

OOgloOO: sì, diciamo che Gerard è il Fantozzi della situazione!

rou: ma anch'io ti adorooooooo! Tutte queste belle recensioni mi danno una felicità che guarda :):):):):) grazie per apprezzare, davvero!

  
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