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Autore: Leoithne    20/12/2014    1 recensioni
Ci sono storie antiche come il mondo, storie che vengono narrate di generazione in generazione, modificate nel corso dei secoli per adattarsi a questa o a quella cultura, a questa o a quella tradizione. Ma ci sono storie che nessuno osa raccontare perché esse parlano di quello che è reale ed irreale e di come, spesso, l'irreale c'inganna e il reale ci tradisce.
Gli occhi di Mycroft si spalancarono per lo stupore.
“Come?”, chiese titubante “Forma? Ma è-”
“Pericoloso. Stupido. Impossibile.”, sibilò e ripeté: “Impossibile.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Atto Secondo: Swefn

 

Scena Prima

 

 

The fact that everybody in the world dreams every night
Ties all mankind together.

 

John si alzò e si sedette sul bordo del letto. Per alcuni minuti fu incapace di distinguere efficacemente ciò che gli stava attorno. La luce della finestra, la familiare sagoma dell’armadio, la porta socchiusa: tutto gli appariva sfocato e tinto di una sensazione che non riusciva a spiegarsi.

Era come se tutto quell’ambiente che lo circondava non corrispondesse alla realtà, ma ad un sogno e che, invece, l’incubo da cui si era appena riscosso rappresentasse il reale. Non era, a dir la verità, una percezione nuova. Più volte, dopo il suo ritorno dall’Afghanistan, si era trovato a dover fare i conti con incubi che sembravano più veritieri della sua stessa vita.

Questo, però, era accaduto ancora quando il drago non esisteva e il deserto dell’Afghanistan non era una foresta mai vista prima. Lo spaventava, invece, che la sensazione perdurasse anche in un contesto totalmente immaginario composto da un drago nero – creatura inesistente – e da una foresta che poteva tranquillamente affermare di non aver mai visto prima.

La sua psicoterapeuta affermava che i sogni, gli incubi che faceva continuamente erano un affiorare del suo subconscio e, di conseguenza, delle sue paure più remote. Ma quella regola si poteva applicare benissimo alle scariche di Kalashnikov o a un’esplosione nella notte, ma a un drago? John non era certo un bambino che si lasciava spaventare dalle fiabe! Tuttavia…quell’essere mitologico sembrava tutt’altro che fantasia e di questo John non riusciva proprio a capacitarsi. Era come se  vivesse il sogno. Molto più che con i vecchi incubi – quelli con mitragliatrici e pattuglie in mezzo alle brulle colline afghane – John si trovava catapultato all’interno di un universo perfettamente tangibile, dove il drago era reale, la foresta era reale, il dolore alle ginocchia con cui si era svegliato era reale, l’uomo era reale.

Ecco. Ora c’era persino l’uomo.

Ne aveva quasi percepito la presenza già dalle prime volte in cui le distese desertiche avevano lasciato il posto a lussureggianti faggi e querce, come un deus ex machina che guardasse quello che stava succedendo. Ma anche quella sensazione era rimasta inspiegata ed inspiegabile tuttora.

Probabilmente una proiezione del suo timore nei confronti del mondo da quando è tornato invalido dalla sua missione, gli aveva spiegato la psicoterapeuta. Lei, dottor Watson, si sente osservato quando cammina in mezzo alla strada, quando si siede ad un tavolo, quando scende le scale a causa del suo claudicare. Questo la porta a provare un senso d’inferiorità che il suo subconscio rielabora come una figura invisibile che la osserva persino all’interno dei suoi incubi. Quel deus ex machina di cui lei parla non avrà mai volto, perché non è nient’altro che la materializzazione onirica dei suoi dubbi, della sua supposta inferiorità.

Eccetto che ora quella figura che non avrebbe mai dovuto avere forma, una forma l’aveva ottenuta: dapprima indefinita, infine netta. E se i contorni del sogno andavano man mano svanendo con i minuti che ticchettavano inesorabili, lo stesso non si poteva dire per quell’immagine che si faceva più nitida, a imprimersi nella sua memoria.

Era con lui quando, finalmente, si decise ad alzarsi dal letto. Era con lui quando si preparò un paio di uova per colazione. Era con lui quando, di fronte allo specchio, passò lo spazzolino da denti negli angoli più remoti della sua bocca. Era con lui quando, alle dieci meno dieci precise, prese la metropolitana per recarsi allo studio della dottoressa Thompson, come il post-it sul frigorifero gli aveva gentilmente ricordato.

Come anche le volte precedenti, John non era molto propenso a seguire quel percorso terapeutico a cui doveva per forza essere sottoposto. Si sentiva – in un certo qual senso – intrappolato dalla donna che gli poneva domande a cui lui stesso non riusciva a dare una chiara risposta.

È l’unico modo per guarire, per riguadagnare la mia vita normale, andava ripetendosi inutilmente.

Seduto sullo scomodo seggiolino di plastica della Circle Line, la sua mente tornò all’improvviso a concentrarsi sul suo sogno notturno. Prevedibilmente, ormai tutto gli appariva sfumato e quasi irriconoscibile. Il drago era diventato un vago ricordo fumoso, la foresta una macchia verdognola. Ma l’uomo, incomprensibilmente, era rimasto lo stesso. Poteva vederlo con chiarezza anche lì, sballottato dal rollio della carrozza sulle rotaie, schiacciato tra un tale addormentato ed una signora dal sottile odore di cavolo bollito.

Lui, nel suo splendore così onirico e così reale. I capelli neri ricci che contornavano un volto stanco, ma severo e risoluto; così come gli occhi azzurro ghiaccio che apparivano profondi e intensi. Si erano guardati dritti in volto, entrambi stupiti di trovarsi l’uno di fronte all’altro. Poi quelle parole pronunciate a un fil di voce e il drago era scomparso, il sogno era scomparso.

Come se mi avesse salvato, come se ci fosse sempre stato a salvarmi.

Un pensiero senza senso, ovviamente. Perché l’uomo dai capelli neri non esisteva. Perché lui non conosceva nessuno che avesse le stesse fattezze di quella figura ammantata di bianco.

Quando valicò la porta dello studio della dottoressa Thompson e si sedette sulla sua solita poltroncina, il suo volto probabilmente metteva in bella mostra tutti i suoi pensieri perché la donna, quasi ancor prima di salutarlo, gli chiese secca:

“Come vanno gli incubi?”

Due ore di psicoterapia dopo, John sentiva di non aver trovato neanche una risposta alle sue domande. La dottoressa lo aveva rassicurato per l’ennesima volta del fatto che draghi e foreste potevano essere emersi dal suo inconscio infantile e che certamente, questi ricordi annebbiati della sua infanzia, si erano mescolati con quelli della sua esperienza di vita. Inutilmente aveva tentato di spiegarle che nessuno si era mai interessato di leggergli fiabe quando era bambino, né lui era mai stato particolarmente attratto dalla lettura. Altrettanto inutilmente aveva insistito sul punto dell’uomo che aveva fatto la comparsa nel suo incubo.

“Sembra che quel deus ex machina abbia preso forma.”, le aveva spiegato.

“È qualcuno che conosce?”, aveva chiesto lei.

“No, nessuno. Eppure non è sfumato, è chiaro e netto, come se lo avessi di fronte a me tutti i giorni.”

“Probabilmente è qualcuno che ha conosciuto, dottor Watson, e la cui immagine le è rimasta impressa nella memoria.”

Erano stati inutili anche i tentativi di spiegarle che non era così, che la sensazione che provava ad ogni nuovo sogno – o incubo che fosse – era diversa da quella che aveva sempre provato sognando. Con il rifiuto di comprenderlo – e chi poteva, del resto, dar adito a un matto che sosteneva che i sogni erano in qualche modo reali? – della dottoressa Thompson se ne andava così anche la sua ultima speranza di trovare risposte a dubbi, impressioni che non si cancellavano dalla sua mente.

“Dovrebbe scrivere un blog.”, gli aveva suggerito la donna in uno dei loro primi incontri “Racconti tutto quello che le succede: la aiuterà a liberarsi dai suoi timori più reconditi, dai suoi incubi.”

“E cosa potrei raccontare?”, le aveva domandato “Non mi succede nulla.”

Questa conversazione era avvenuta prima dei draghi e dell’uomo dalla tunica bianca, quando tutto era banale e piatto. Ora, se proprio doveva dire il vero, qualcosa da scrivere su un blog lo aveva. Ma chi avrebbe letto le buffe avventure di John Watson catapultato in un mondo inesistente? Perché la parte razionale nel suo cervello glielo diceva chiaramente che quell’idea dell’esistenza di una specie di Mondo dei Sogni – e, con esso, di un Uomo dei Sogni – era una follia completa.

E ci manca anche questo per escludermi definitivamente dalla vita sociale. Zoppo e matto.

Ma una parte illogica costringeva al silenzio il suo cervello. E così accadeva che, per quanto tentasse di razionalizzare gli incubi, per quanto tentasse di svegliarsi da essi, finiva per esserci sempre più immerso, a caccia di un mistero che solo lui riusciva a vedere, a braccare un pericolo tanto immaginario quanto reale.

Quella notte, mentre appoggiava la testa sul cuscino, sentì come qualcosa di elettrico nell’aria, un cenno di una strana anticipazione. Si addormentò profondamente nel giro di pochi secondi. E il sogno cominciò.  

 

Atto Secondo: Swefn

 

Scena Seconda

 

 

You are not wrong, who deem
That my days have been a dream;
Yet if hope has flown away
In a night, or in a day,
In a vision, or in none,
Is it therefore the less gone?
All that we see or seem
Is but a dream within a dream.

 

Sherlock aveva lasciato la sua abitazione qualche secondo dopo l'alba. Un pallido sole si faceva largo tra le fronde degli alberi sulla collina dei noccioli, fino ad illuminarne la fitta boscaglia sottostante. Lo Swefnesweriend sapeva bene che era necessario che il legno di nocciolo adatto ad essere bruciato fosse raccolto “da un ramo rivolto ad oriente, un'ora dal primo sorgere del sole, con rugiada sul fogliame novello, tagliato con una lama ricurva bagnata nella sorgente sacra al plenilunio”.

Sherlock passò le dita sul coltello che portava appeso alla cintola. Per uno Swefnesfara di talento naturale – come lui o Moran – tutti quegli accorgimenti erano soltanto accessori. Paradossalmente gli sarebbe bastato chiudere gli occhi e recitare la formula corretta, senza aver bisogno di fumi o intrugli. Tuttavia aveva imparato a non sopravvalutare le sue capacità, né a sottovalutare l'imprevedibilità dei sogni stessi. Essi, del resto, possedevano vita propria all'interno della mente di ogni individuo e la minima disattenzione poteva essergli fatale. Soprattutto dopo l'arrivo di Moran come suo diretto avversario aveva deciso di attenersi scrupolosamente al rituale prestabilito. Ancora di più da quando i suoi viaggi onirici avevano preso una piega del tutto inaspettata.

Mentre osservava gli alberi di nocciolo che lo sovrastavano alla ricerca di quello corretto, la sua mente ripensava a quei continui sogni “sbagliati”. Da dove venissero, perché vi avesse accesso, che cosa significassero era un mistero che bisognava risolvere. Il viso dell'uomo biondo in mezzo alla radura gli apparve di fronte, nitido come se fosse di fronte a lui in quel preciso istante. Con quell'uomo del sogno – al quale, ovviamente, ne corrispondeva uno reale da qualche parte – sembrava avere un qualche legame particolare, tanto che quest'ultimo riusciva ad occupare con i suoi sogni tutta la mente di Sherlock. Costantemente e ripetutamente.

Ma chi è? Perché riesce ad eclissare tutti gli altri sogni in cui dovrei entrare? È un nemico? All'apparenza lo è, dato che la sua intrusione nei miei viaggi non mi permette di difendere il villaggio. Ma sento che non rappresenta alcun pericolo. E allora chi è? Perché proprio i suoi sogni?

Si fermò di fronte all'albero di nocciolo perfetto e vi tagliò via il ramo necessario, poi appoggiò la fronte sul tronco e si scusò per averlo privato di una sua parte.

Quella sera stessa tutto era pronto per svolgere il rituale ed entrare, di conseguenza, nel mondo dei sogni. La certezza di riuscire a tornare nel sogno dell’uomo biondo e, quindi, di trovare le risposte che cercava non l’aveva, ma sentiva dentro di sé come una specie di richiamo antico, un canto che lo portava a pensare che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Dopotutto ci doveva essere un motivo per cui attraversare i sogni di quell’uomo gli riuscisse così semplice.

L’unica cosa che lo preoccupava era di non essere sicuro di riuscire a mantenere il se stesso – e la visione onirica – stabile a lungo per poter parlare abbastanza. Sebbene suo fratello lo considerasse un compito da nulla, giacché non fisicamente faticoso, lui sapeva benissimo quanto la connessione mentale fosse estenuante, quanto il valicare le porte della percezione irreale fosse un fardello che solo quelli che lo provavano potevano comprendere.

Il fuoco sacro bruciava nella stanza da un po’ e stava finalmente cominciando a scemare, lasciando spazio al fumo che avrebbe dovuto inspirare. Bevve il solito miscuglio di birra tiepida e pestato d’edera, poi chiuse gli occhi. Dopo i primi istanti di buio, una sensazione familiare di calore lo avvolse.

È il sogno giusto. Prima c’era solo smarrimento, qui vi è appartenenza.

La sagoma familiare dell’essere alato apparve per pochi secondi prima che lui – in un paio di parole magiche – riuscisse a trasformarla in un drago. Ormai era talmente bravo a trasformare quel sogno che ci metteva pochi istanti. Il problema, ora, era riuscire a diventare corporeo. La notte precedente vi era riuscito senza volerlo, ora doveva farlo coscientemente. La seconda formula magica sgorgò dalle sue labbra ancor prima che potesse farvi attenzione. L’uomo biondo sotto di lui scappava, ansimante, verso la radura dove avrebbe incontrato il drago. Benché sentisse prepotente la spinta di correre immediatamente a salvarlo, Sherlock continuò la cantilena. Non poteva permettersi di distrarsi quando era così vicino a varcare un limite invalicabile.

Alla terza formula magica, sentì il suo corpo guadagnare una certa consistenza. Fare ciò incoscientemente – si chiedeva ancora come fosse stato possibile aver preso forma completa il giorno antecedente – era sembrato semplicissimo, ora sentiva tutto il peso del suo essere in quell’ambiente inesistente. O, meglio, esistente in una consistenza diversa da quella della realtà.

Comparve, infine, nello spiazzo erboso dov’era già apparso. Con l’ennesimo incantesimo fece sparire il drago e si concentrò per mantenere la stabilità della visione.

L’uomo biondo lo osservò stupito, come se si aspettasse che l’incubo finisse in quel momento. Era una deduzione logica, pensò Sherlock, dato che finora era accaduto esattamente così.

Ma non oggi.

L’uomo, ancora trafelato, si fermò, diede un’occhiata dietro di sé alla ricerca del drago scomparso, poi si voltò nuovamente verso Sherlock.

“Chi sei?”, urlò all’improvviso, poi si zittì, sul volto un’espressione di stupore.

“Chi sei tu?”, chiese, invece, Sherlock, percorrendo in un secondo i metri che lo separavano dall’altro.

“Sto parlando…”, balbettò l’uomo “Sto parlando in un sogno…”

Sherlock lo guardò con fare curioso.

“Ovviamente stai parlando in un sogno.”

“Sto impazzendo. Ormai è certo, sto diventando matto…”

“Di che fesserie vai cianciando?”, si stupì lo Swefnesweriend “Hai già parlato nei tuoi sogni. Ma ora veniamo a noi. Chi sei? Perché continuo a finire nel tuo sogno? Cosa vuoi da me? Lavori per Moriarty?”

Gli occhi dell’uomo si spalancarono nella più vivida espressione di perplessità che Sherlock avesse mai visto.

“Non ho mai parlato coscientemente. Non ho mai…risposto a delle domande.”, disse, la voce bassa “E poi cosa significa continuo a finire nel tuo sogno?”

“Tu non sai cosa sono io?”, lo sguardo di Sherlock tradì i suoi pensieri.

“Io non so nulla. Non so chi tu sia, perché appari nei miei sogni! E non voglio niente da te!”, poi mormorò “Ma perché continuo a parlare con un’allucinazione? Sto impazzendo…”

“Tu davvero non sai…”

Quindi non sa cosa sono, non interferisce nei miei sogni di sua volontà, non sa che esistono gli Swefnesfaran. Non-

“Non so niente!”, urlò l’uomo, disperazione nella sua voce.

Sherlock tentò di ragionare velocemente per capire se l’uomo stesse mentendo, se nei sogni le sue capacità deduttive fossero in qualche modo offuscate. Ma no, l’uomo diceva la verità. Lo sentiva.

“Sono Sherlock.”, disse lo Swefnesweriend ad un certo punto “E sono un Difensore di Sogni.”

“Un…cosa? Sto definitivamente impazzendo. Non solo parlo con i sogni, ma questi rispondono alle mie domande, dicendo cose assurde. Bene, John, bene. Altri cinque anni di psicoterapia non potranno che farti bene.”

“No, ascolta.”, spiegò Sherlock, desideroso di stabilire un qualche legame con l’uomo misterioso “John, giusto?”

L’uomo annuì debolmente.

“Ascolta, John.”, riprese “Non stai impazzendo, né altro. Puoi parlare nel sogno perché il sogno che stai vivendo è una realtà a sé stante. Tutti i sogni lo sono, ma generalmente si è solo passivi e non li si può controllare. Questo è quello che succede sempre nei tuoi incubi, ma io posso rendere quella sostanza  - anche se non è il termine corretto – effimera reale. O, meglio, posso modificare quella sostanza affinché essa faccia quello che dico io.”

John, dai suoi occhi azzurri, lo guardò perplesso.

“Tu sei un’allucinazione che dice cose assurde!”

“No, non lo sono. Credimi. È un’arte antica la mia, un’arte difficile e di cui pochissimi sono dotati a sufficienza per praticarla. Io esisto per difendere le persone dai propri incubi, dalle proprie paure. Sono una persona reale al di fuori del sogno proprio come lo sei tu.”

Lo sguardo dell’uomo sembrò distendersi, per poi accigliarsi di nuovo.

“Stai dicendo cose…cose! Cose senza senso!”, ma si ammutolì, il volto farsi pensieroso “Ma…ti credo. Cioè, penso di crederti. Oh, dannazione! Non lo so!”

“So che è complicato, se non conosci il concetto.”, si fermò e allungò il braccio verso John; pur sapendo che il contatto non era assolutamente consentito, sentì di doverlo fare “Se mi tocchi, riuscirai a comprendere.”

John allungò tremante la mano. Le due entità oniriche si toccarono, attraversandosi. In quel tocco quasi elettrico Sherlock capì cos’era John e comprese che anche John riuscì in un qualche modo a percepire che cosa fosse lui.

“Tu…vieni dal futuro. Il tuo sogno è un sogno di molti anni lontano dal mio presente.”, fu tutto ciò che Sherlock riuscì a dire.

“E tu…tu sei il passato.”, rispose John “Tu sei reale in un tempo passato.”

La rivelazione fu sconvolgente per Sherlock. Non solo era entrato – per un motivo ancora ignoto – nel sogno di una persona sconosciuta, ma aveva fatto tutto ciò attraversando ad occhio e croce circa un millennio. Non era mai successo. Ed era potenzialmente pericolosissimo. Eppure continuava a sentire che tutto quello fosse in un qualche modo giusto, destinato ad essere. Il tocco con l’uomo aveva solo confermato quella sensazione.

“Perché sei nei miei sogni?”, chiese John “Qual è la ragione?”

Sherlock abbassò lo sguardo a terra e scosse la testa.

“Potessi darti una risposta, lo farei volentieri. Metterebbe in pace il mio animo tormentato.”

Si sedette sull’erba, seguito da John.

“Il mio compito è quello di proteggere il mio villaggio dagli attacchi onirici perpetrati da un Cacciatore di Sogni di nome Moran. Questo è ciò che ho sempre fatto, almeno finché non sono apparsi i tuoi strani sogni. Da allora continuo ad imbattermi in te e non riesco più a svolgere il mio dovere.”

John lo osservò con curiosità, ma Sherlock capì che il tempo a loro disposizione era agli sgoccioli. Sentì, infatti, chiaramente che la sua figura si stava dissolvendo.

“Quindi sarebbe colpa mia?”, chiese l’uomo un po’ stizzito.

“Non ti sto dando la colpa. Ma non riesco a capire. Ed io odio non capire, ignorare cosa stia accadendo.”

“Un po’ presuntuoso, non trovi?”, l’uomo biondo sorrise “Tutti noi non sappiamo qualcosa, c’è sempre un po’ di mistero.”

“La cosa interessante di un mistero è risolverlo, non credi, John?”

“Ci sono misteri che sono meravigliosi perché rimangono tali. Questo incontro inaspettato forse è uno di essi.”, sorrise apertamente John, un sorriso sincero che, per un attimo, riscaldò il cuore di Sherlock.

Quella fu l’ultima immagine prima che il sogno si dissolvesse, quella che rimase indelebilmente impressa nella sua mente. Riuscì soltanto a dire un’ultima cosa prima che tutto sparisse nel nero.

“Alla prossima.”

Perché era certo che quella non fosse l’ultima volta anche si sarebbero incontrati, anche perché non voleva che fosse l’ultima. Dopo quella breve conversazione, dopo quel sorriso così chiaro, così intenso, John aveva assunto tutto un altro significato. Un significato che non comprendeva e che, forse, come aveva detto l’altro uomo, non voleva assolutamente comprendere. Che John esistesse in sogno, in un altro tempo, in un altro luogo e che fosse, al tempo stesso, lì con lui era tutto ciò che gl’interessava.   

 

 N.d.A.

 
Swefn: come già specificato in precedenza, dall’antico inglese e significa “Sogno”.

“The fact that…ties all mankind together.”: citazione dall’introduzione de “Il libro dei sogni” fatta da Jack Kerouac. Tradotta con “Il fatto che ciascuno (di noi) sogni lega l’umanità insieme.”

“You are not wrong, who deem…Is but a dream within a dream.”: citazione dalla  poesia “A Dream Within a Dream” (“Un sogno dentro al sogno”) di Edgar Allan Poe. Barbaramente tradotta come: “Non sbagli, tu che credi/che i miei giorni siano stati un sogno;/Ma se la speranza è volata via/In una notte, o in un giorno,/In una visione, o in nessuna,/È perciò meno scomparsa?/Tutto ciò che vediamo o crediamo (di vedere)/Non è nient’altro che un sogno dentro a un sogno.”

Da un ramo rivolto a oriente…plenilunio: pura e totale invenzione. Ho utilizzato alcuni elementi dello sciamanesimo/druidismo (tra cui il coltello ricurvo e l’idea di cogliere le piante ad una determinata ora del giorno), ma senza che la fonte della mia idea sia specifica. Scusate, ma non è un vero e proprio rituale.

  
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