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Autore: Leoithne    20/12/2014    1 recensioni
Ci sono storie antiche come il mondo, storie che vengono narrate di generazione in generazione, modificate nel corso dei secoli per adattarsi a questa o a quella cultura, a questa o a quella tradizione. Ma ci sono storie che nessuno osa raccontare perché esse parlano di quello che è reale ed irreale e di come, spesso, l'irreale c'inganna e il reale ci tradisce.
Gli occhi di Mycroft si spalancarono per lo stupore.
“Come?”, chiese titubante “Forma? Ma è-”
“Pericoloso. Stupido. Impossibile.”, sibilò e ripeté: “Impossibile.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Atto Primo: Unswefn

 
Scena Prima

 

 

So two nights passed: the night's dismay
Saddened and stunned the coming day
Sleep, the wide blessing, seemed to me
Distemper's worst calamity.

 

Correre. Correre a perdifiato attraverso un bosco di cui non riusciva a intravedere la fine. Correre finché i polmoni sembravano non avere più neanche la forza di continuare a respirare. Correre fino al punto di sentire il cuore in gola e le tempie che pulsavano così intensamente che la testa pareva scoppiargli. Correre.

E John, a dire tutta la verità, detestava correre.

Eppure doveva farlo, perché non era solo e il suo inseguitore era molto più forte di qualsiasi nemico che avesse mai affrontato. Si girò per un attimo per guardare indietro, rischiando quasi d'inciampare nei suoi stessi passi. Il drago nero torreggiava sulla foresta, le ali spiegate al vento e gli occhi gialli fissi sulla preda sottostante. Inutile dire che John era la preda designata: piccolo nel suo metro e sessantanove, alto ad occhio e croce quanto l'unghia di quell'enorme mostro che lo stava cacciando da un tempo indeterminato. Finché fosse rimasto in mezzo agli alberi, avrebbe avuto una qualche protezione. Ma gli alberi sarebbero finiti. A pochi centinaia di metri da dove si trovava – schivò la quarta buca e, di seguito, il quinto cespuglio di rovi – sapeva benissimo che il bosco sarebbe terminato e che i larici, gli abeti e i pini avrebbero lasciato il posto ad una radura con erba secca e nessun nascondiglio.

Non poteva neanche tornare indietro John. Qualsiasi strada avesse deciso di percorrere, l'avrebbe portato a quella spianata e, di conseguenza, dritto nelle fauci del drago.

Se solo riuscissi a razionalizzare...

Non che John non ci avesse provato a razionalizzare, a trovare una via d'uscita da quella situazione, ma più tentava di farlo più il suo subconscio lo spingeva nella direzione opposta. E il drago si faceva più grande e sul sentiero tracciato nel bosco apparivano paludi e sabbie mobili nelle quali si affondava fino alla vita, rallentando irrimediabilmente la sua corsa. E il drago si avvicinava.

Peccato che non esistessero draghi, né boschi, né paludi, né radure e che quello fosse solo un fottutissimo incubo da cui non riusciva a svegliarsi. John lo comprendeva benissimo, eppure non era in grado di uscirne.

Evitando il millesimo masso ricoperto di muschio con un salto che lo fece atterrare violentemente sulle ginocchia, John fu costretto a fermarsi per un secondo.

Devo razionalizzare. Svegliarmi.

Come il tutto fosse cominciato non se lo ricordava con esattezza. Non riusciva a rammentarsi di quando, un giorno – o, più precisamente, una notte, l'Apache che volteggiava nel cielo terso dell'Afghanistan si era trasformato in un drago nero. Un essere scaturito dalla sua fantasia, che non aveva ragione di esistere e che, invece, pareva così terribilmente reale. Allo stesso modo non si capacitava di come le distese desertiche fossero diventate querce, faggi, pini. Tutto ciò non aveva senso.

Poteva capire gli incubi. La sua psicoterapeuta lo aveva avvertito che la sua sindrome da stress post-traumatico generata dalla sua esperienza sul campo in Afghanistan lo portava a fare sogni quanto mai veritieri – e terrorizzanti – su ciò che gli era accaduto. Questo aveva imparato ad accettarlo. Quello che lo sconvolgeva era che il drago non era reale, il bosco non era reale. Ma gli sembrava che lo fossero, come se la sua esperienza, i suoi ricordi fossero stati sostituiti pur rimanendo gli stessi. Doveva razionalizzare, ma non ci riusciva.

Fece un respiro profondo, il drago che volteggiava sopra la sua testa per cercare il suo nascondiglio. Quando un grido acuto attraversò l'aria, John capì di essere stato individuato. Era peggio delle sirene del coprifuoco, peggio delle esplosioni distanti nella notte. Contro quelle John sapeva come difendersi. Contro un fottutissimo drago, no.

Riprese a correre, mentre le ginocchia facevano male, mentre i muscoli gli chiedevano, lo supplicavano di fermarsi, di trovare una via d'uscita.

Svegliati, John! Dannazione, svegliati!

Il grido nella sua testa rimase inascoltato e lui si vide costretto a schivare l'ennesimo cespuglio spinoso, evitando al contempo di schiantarsi contro il tronco di un faggio che si stagliò improvvisamente di fronte a lui.

A pochi metri dai suoi occhi apparve la radura a cui non voleva arrivare, ma che era costretto a raggiungere. Secondo i suoi calcoli, lo spiazzo erboso doveva corrispondere a quello che un tempo – quando i suoi incubi erano ancora incubi realistici e non un'accozzaglia di fantasie senza senso – era stato l'avamposto nel bel mezzo del deserto afghano dove era stato ferito. Era lì che tutte le sue visioni belliche si concludevano: una scarica di proiettili nella spalla e si sarebbe svegliato, grondante di sudore, nel suo miserevole letto, nella sua miserevole vita.

Peccato che la raffica tanto familiare di Zastava si fosse mutata in una fiammata rosso-oro che usciva dalle fauci dell'enorme mostro alle sue spalle e che il dolore, invece di essere arginato ad una sola parte del corpo, lo bruciava completamente, come se il fuoco lo avvolgesse davvero.

E sono sciocchezze, perché i draghi non esistono.

Il risveglio era identico, se non per un particolare. Quando ancora sognava di mitragliatrici e bombe e esplosioni, apriva gli occhi sollevato perché il tutto si era finalmente concluso; ora l'aprire gli occhi non gli dava più alcun sollievo.

Appena la radura lo accolse, il drago cominciò la sua immancabile picchiata. John tentò di schivare l'affondo, riuscendoci per pochi millimetri. La bestia si rialzò nel cielo plumbeo e riprese forza per un nuovo attacco.

“Aiuto!”, urlò con quanto fiato gli era rimasto in gola.

In quel momento dagli alberi dall'altro lato della radura apparve un uomo. Non era la prima volta che faceva la sua comparsa nei sogni di John, ma, generalmente, era apparso come un'ombra indefinita, sfumata. Stavolta, invece, la figura maschile era perfettamente chiara, circondata da un'aura luminescente. Una lunga tunica biancastra, sostenuta da una cintura di corda, cingeva un corpo snello ma agile, lasciando intravedere soltanto mani e piedi; ricci neri circondavano un volto pallido e stanco, al centro del quale si stagliavano penetranti occhi di ghiaccio.

John non sapeva chi fosse, né perché apparisse casualmente nei suoi sogni, né perché quella notte fosse così dettagliato.

L'uomo si fermò alle soglie del bosco, gettò una rapida occhiata a John e poi rivolse il suo sguardo verso il drago. Con maestria e delicatezza tracciò alcuni segni nell'aria e cominciò a recitare una litania che John non riusciva a comprendere.

In pochi istanti il drago scomparve, la radura scomparve, l'uomo scomparve. Rimase soltanto John, avvolto da una luce calda e protettiva.

Secondi dopo aprì gli occhi, l'incubo un vago ricordo di un passato remoto.  

 

 

 

Atto Primo: Unswefn

 
Scena Seconda

 

 

Deep into that darkness peering,
Long I stood there, wondering, fearing, doubting,
Dreaming dreams no mortal ever dared to dream before.

 

Sherlock riaprì gli occhi, mentre gli ultimi fumi del fuoco sacro s'intersecavano all'interno dell'abitazione fino a trovare la loro naturale uscita attraverso il buco nel tetto e la luce pallida del primo quarto di luna sbiadì per qualche secondo dietro quel velo perlato.

L'uomo tentò di comprendere quello che era appena accaduto. Portate le mani giunte a contatto con le labbra, espirò, si spostò dal braciere e chiuse il mondo al di fuori della sua mente. Per prima cosa elencò le varie sostanze che aveva bruciato: resina di nocciolo, legno d'ontano e foglie d'alloro essiccate.

Nessun errore.

Poi considerò ciò che aveva bevuto: birra con un infusione di foglie d'edera triturate.

Perfetto.

Eppure la visione onirica non era stata quella corretta e la cosa lo faceva infuriare. Per di più quello strano fenomeno era già successo in precedenza. E questo – se possibile – lo rendeva ancor più  nervoso.

Ripensò alla prima volta in cui la sua arte aveva – senza nessuna ragione apparente – fallito. Tutto era cominciato esattamente due lune prima, quando suo fratello, il Walda Mycroft, lo aveva convocato d'urgenza, dicendogli che il Walda Moriarty, signore del villaggio confinante con il loro, stava portando una serie di attacchi onirici non solo nei suoi confronti, ma anche nei confronti dei guerrieri più valorosi del villaggio per fiaccarne la resistenza in battaglia.

Era, infatti, venuto a galla che Moriarty avesse assunto al suo servizio uno dei migliori Swefnesdræfend – un cacciatore di sogni – che si potesse trovare in circolazione: Moran. Sherlock se n'era convinto alla prima occasione di scontro. Considerando il fatto che lui era, a detta di tutti, il miglior Swefnesweriend che il suo clan avesse mai avuto, si era stupito quando, nel sogno di suo fratello, si era imbattuto nelle creature create da Moran: subdole, oscure, letali. Aveva dovuto metterci tutta la sua conoscenza nelle arti magiche, negli incantesimi e nello sciamanesimo che praticava fin dall'infanzia per sconfiggerli e regalare, così, a Mycroft la prima vittoria.

Col tempo gli attacchi si erano fatti sempre più potenti e il suo continuo valicare il confine labile tra i sogni e la realtà lo aveva portato ad uno stato perenne di agitazione e nervosismo: mangiava a malapena e il sonno era diventato sconosciuto al suo stile di vita. Nonostante ciò, grazie al suo costante lavoro, il villaggio continuava ad essere protetto dagli attacchi di Moriarty, sia di giorno, grazie ai valorosi guerrieri al servizio di Mycroft, sia di notte, grazie alle sapienti – e sempre più precise – arti magiche di Sherlock.

Una luna prima, tuttavia, dopo aver preparato i materiali per il fuoco sacro e aver bevuto l'intruglio consacrato, si era trovato non nel sogno di suo fratello o in quello di qualche guerriero, ma in un posto sconosciuto. Nei suoi primi anni di pratica da Swefnesweriend gli era capitato di comparire in qualche sogno che non riusciva a classificare o riconoscere, ma l'esperienza aveva del tutto cancellato quella possibilità. Eppure quella volta era apparso – non fisicamente, ma solo mentalmente – in un luogo che non gli era in alcun modo familiare.

Le distese boschive della Britannia erano scomparse per lasciare posto ad un paesaggio desolato, fatto di sabbia e di piante riarse. In questo ambiente inospitale aveva visto qualcosa che lo aveva lasciato sconvolto per alcuni secondi. Nel cielo volteggiava quello che gli era parso un uccello senza ali, ma che aveva sulla schiena delle pale nere, simili a quelle che aveva visto solo una volta attaccate ad un mulino a vento; ma, se quelle del mulino erano disposte verticalmente, quelle dell'animale – perché non poteva essere nient'altro – erano disposte orizzontalmente e sembravano mantenerlo in posizione, permettendogli di volare. Anche il colore – un verde palude – era inusuale per un uccello e le dimensioni erano quanto mai spaventose: ad occhio e croce era lungo come dieci uomini ed alto circa tre. Nulla gli era mai sembrato così terribile.

Inizialmente aveva pensato ad un inganno di Moran, ad un modo che lo Swefnesdræfend aveva trovato per incutergli timore. Per questo motivo, facendo ricorso a tutto ciò che aveva imparato nel corso degli anni, aveva cominciato a modificare il sogno in modo da farlo combaciare con le conoscenze che possedeva. L'uccello enorme, a fatica, era stato trasformato in un drago nero – l'unica creatura tanto temibile che poteva combaciare con quell'essere – e un altro paio di formule magiche gli avevano permesso di cambiare la distesa di sabbia a lui ignota nella verde foresta che circondava il suo villaggio.

Poi, però, era comparso un uomo che scappava dal drago che lo inseguiva. Capelli biondi e abiti mai visti prima, correva facendosi strada tra gli alberi con aria confusa. Sherlock aveva tentato di associarlo ad uno dei guerrieri del villaggio, ma senza successo. L'uomo gli era sconosciuto. Nelle prime occasioni in cui lo aveva visto fuggire, era riuscito ad interrompere il sogno senza difficoltà, lasciando l'uomo al suo destino. Ultimamente, però, aveva cominciato a liberarlo dal suo incubo. Anche perché – e questo lo lasciava stupito più di qualsiasi altra cosa – aveva sentito la necessità di salvarlo.

Nel corso dell'ultimo mese il sogno si era fatto ricorrente: l'uomo, lo strano uccello, la distesa sabbiosa comparivano ad intervalli regolari di due o tre giorni e lui, spinto da un bisogno incomprensibile, continuava a salvare lo sconosciuto dal drago che lui aveva creato.

Quella notte non aveva fatto eccezione, se non per un particolare apparentemente insignificante e che, invece, lo stava preoccupando seriamente: per la prima volta aveva assunto forma completa all'interno del sogno. E sapeva bene quanto fosse pericoloso.

Immerso nei suoi ragionamenti, si accorse in ritardo che nel salone non era più solo. Suo fratello Mycroft era apparso sulla soglia e lo stava osservando con occhi di fuoco.      

“Fratello mio!”, esordì il Walda “Cosa è successo? Le creature oniriche-”

“Lo so.”, tagliò corto Sherlock, il pensiero fisso sugli occhi dell'uomo biondo all'interno dei suoi sogni.

“E, dunque, cosa è successo?”, inquisì Mycroft.

“Il solito.”, sbuffò Sherlock “Quel sogno.”

“Sai che non possiamo permetterci di perdere. Ne va delle nostre vite. Non c'è un modo per evitare che quel sogno s'insinui nella tua testa?”

“Non si possono controllare i sogni fino a quel punto, Mycroft.”, disse spazientito Sherlock “Posso solo entrarvi e, come ben sai, non posso neanche scegliere il sogno. Posso solo accettarlo.”

Fece una pausa e si mise ad osservare le braci che lentamente annerivano.

“Mi fa infuriare!”, sbraitò, rompendo il silenzio che era appena calato “Questo sogno, quell'uomo, l'idea di non sapere cosa sia, il tarlo che possa essere un contorto piano di Moriarty! E adesso!”, aggiunse con voce sempre più irata “Ho persino preso forma completa!”

Gli occhi di Mycroft si spalancarono per lo stupore.

“Come?”, chiese titubante “Forma? Ma è-”

“Pericoloso. Stupido. Impossibile.”, sibilò e ripeté: “Impossibile.”

Sherlock passò la mano tra i riccioli neri, come per cercare di dipanare la massa dei suoi tumultuosi timori. Il fratello sembrò comprendere il suo disagio e lo guardò con occhi pieni di comprensione, nonostante le sue stesse paure.

Nei sogni entriamo in un mondo che è interamente nostro.”, tentò di confortarlo “E tu ne sei il più esposto. Che ci sia una qualche connessione con l'uomo dei sogni?”

“Nessuna, che io sappia. Non so chi sia, non fa richieste, chiede solo aiuto. Ed io sento il bisogno di salvarlo, un bisogno impellente e a cui non posso sottrarmi.”

Mycroft gli diede un'ultima occhiata prima di voltarsi.

“Devi scoprire chi sia e cosa voglia, Sherlock.”, lo redarguì “Non ne vale solo della tua sanità mentale, ma della salvezza del nostro intero villaggio.”

Detto ciò, uscì dal salone, lasciando Sherlock da solo.

Come se non fosse già quello il mio obiettivo. Come se non stessi già pensando come fare.

Era giunto ormai il momento di tentare qualcosa mai tentato da atri Swefnesfaran: prendere forma – e voce – completa e parlare con l'uomo. Era estremamente pericoloso, ma aveva bisogno di risposte. Risposte che solo il biondo era in grado di dargli.

 

 

N.d.A.

 

Unswefn: parola in inglese antico che significa, alla larga, “incubo”.

“So two nights passed: the night's dismay…Distemper's worst calamity.”: i primi quattro versi della terza e ultima strofa del componimento “The Pains Of Sleep” (“I Dolori Del Sonno”) di Samuel Taylor Coleridge. Barbaramente tradotti come: “E così due notti passarono: lo sgomento della notte/intristì e sconvolse il giorno successivo./Il sonno, quella grande benedizione, mi sembrò/la peggior calamità del cimurro.”

“Deep into that darkness peering…dared to dream before.”: i primi due versi della quinta strofa della poesia “The Raven” (“Il Corvo”) di Edgar Allan Poe. Barbaramente tradotti con: “Scrutando nel profondo di quell’oscurità, stetti fermo a lungo, domandandomi, temendo,/dubitando, sognando sogni che nessun mortale aveva osato sognare prima.”

Resina di nocciolo, legno d'ontano e foglie d'alloro essiccate.: le prime due piante citate (il nocciolo e l’ontano) sono piante considerate sacre nella tradizione celtica e significative anche nelle culture pagane anglo-sassoni che conquistarono l’isola a partire dal V secolo d.C. L’ontano, infatti, è un albero associato all’acqua e, insieme ad essa, aiuta il corpo e lo spirito ad eliminare le energie negative; inoltre questo rapporto ontano-acqua è considerato fondamentale per mettere in comunicazione questo mondo con l’aldilà e i guerrieri costruivano spesso scudi con questo legno. Il nocciolo, invece, è considerato l’albero della conoscenza, delle scienze e delle arti: i druidi, infatti, per invocare i loro incantesimi utilizzavano bastoni di nocciolo e gli dei avevano una grande considerazione per questa pianta. Per queste ragioni ho deciso di utilizzare specificamente queste due piante da bruciare nel braciere. Invece, per l’alloro la storia è un po’ diversa. L’alloro essiccato, infatti, veniva utilizzato dalla Pizia (la sacerdotessa/profetessa dell’Oracolo di Apollo a Delfi) che ne inspirava i fumi per ottenere le visioni sul futuro. L’alloro è, tuttavia, una pianta tipicamente mediterranea e difficilmente rintracciabile in Gran Bretagna in quel periodo. Nonostante ciò, mi sono concessa una licenza “poetica” e ho finto che Sherlock, dall’alto della sua intelligenza, abbia studiato anche le tradizioni di altre civiltà come, del resto, probabilmente aveva fatto anche Moran.

Birra con un infusione di foglie d'edera triturate: a quanto pare, dalle mie ricerche, i druidi celtici (e anche altre popolazioni germaniche) si servivano di questo intruglio per creare allucinazioni che permettessero loro di fare previsioni sul futuro. L’edera, essendo una pianta velenosa, veniva usata in combinazione con la birra ottenendo quasi una specie di droga.

Walda: in inglese antico significa “Signore”. Era uno dei titoli con cui poteva essere designato il capo di un villaggio anglosassone.

Swefnesdræfend: parola composta da due termini in inglese antico “Swefn” (al caso genitivo “Swefnes”), sogno, e “Dræfend”, cacciatore. Il termine significa tendenzialmente “Cacciatore di Sogni”.

Swefnesweriend: sempre dall’inglese antico. “Weriend” significa “Difensore”. Da cui ne deriva che Sherlock è un “Difensore di Sogni”.

“Nei sogni entriamo in un mondo che è interamente nostro.”: citazione casuale (dico “casuale” perché mi è assolutamente venuta in mente per caso) da “Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban”.

Swefnesfaran: ancora inglese antico. “Faran” è il nominativo plurale della parola “Fara” che significa “Viaggiatore”.

  
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