Atto Secondo: Swefn
Scena Prima
The fact
that
everybody in the world dreams every night
Ties all mankind together.
John si alzò e si sedette
sul bordo del letto. Per alcuni minuti fu incapace di distinguere
efficacemente
ciò che gli stava attorno. La luce della finestra, la familiare sagoma
dell’armadio, la porta socchiusa: tutto gli appariva sfocato e tinto di
una
sensazione che non riusciva a spiegarsi.
Era come se tutto
quell’ambiente che lo circondava non corrispondesse alla realtà, ma ad
un sogno
e che, invece, l’incubo da cui si era appena riscosso rappresentasse il
reale.
Non era, a dir la verità, una percezione nuova. Più volte, dopo il suo
ritorno
dall’Afghanistan, si era trovato a dover fare i conti con incubi che
sembravano
più veritieri della sua stessa vita.
Questo, però, era
accaduto ancora quando il drago non esisteva e il deserto
dell’Afghanistan non
era una foresta mai vista prima. Lo spaventava, invece, che la
sensazione
perdurasse anche in un contesto totalmente immaginario composto da un
drago
nero – creatura inesistente – e da una foresta che poteva
tranquillamente
affermare di non aver mai visto prima.
La sua psicoterapeuta
affermava che i sogni, gli incubi che faceva continuamente erano un
affiorare
del suo subconscio e, di conseguenza, delle sue paure più remote. Ma
quella
regola si poteva applicare benissimo alle scariche di Kalashnikov o a
un’esplosione nella notte, ma a un drago? John non era certo un bambino
che si
lasciava spaventare dalle fiabe! Tuttavia…quell’essere mitologico
sembrava
tutt’altro che fantasia e di questo John non riusciva proprio a
capacitarsi.
Era come se vivesse il sogno. Molto più che con i
vecchi incubi – quelli con
mitragliatrici e pattuglie in mezzo alle brulle colline afghane – John
si
trovava catapultato all’interno di un universo perfettamente tangibile,
dove il
drago era reale, la foresta era reale, il dolore alle ginocchia con cui
si era
svegliato era reale, l’uomo era reale.
Ecco. Ora c’era persino
l’uomo.
Ne aveva quasi percepito
la presenza già dalle prime volte in cui le distese desertiche avevano
lasciato
il posto a lussureggianti faggi e querce, come un deus ex machina che
guardasse
quello che stava succedendo. Ma anche quella sensazione era rimasta
inspiegata
ed inspiegabile tuttora.
Probabilmente
una proiezione del suo timore
nei confronti del mondo da quando è tornato invalido dalla sua missione, gli aveva spiegato la
psicoterapeuta. Lei, dottor Watson, si sente
osservato quando cammina in mezzo alla
strada, quando si siede ad un tavolo, quando scende le scale a causa
del suo
claudicare. Questo la porta a provare un senso d’inferiorità che il suo
subconscio rielabora come una figura invisibile che la osserva persino
all’interno dei suoi incubi. Quel deus ex machina di cui lei parla non
avrà mai
volto, perché non è nient’altro che la materializzazione onirica dei
suoi
dubbi, della sua supposta inferiorità.
Eccetto che ora quella
figura
che non avrebbe mai dovuto avere forma, una forma l’aveva ottenuta:
dapprima
indefinita, infine netta. E se i contorni del sogno andavano man mano
svanendo
con i minuti che ticchettavano inesorabili, lo stesso non si poteva
dire per
quell’immagine che si faceva più nitida, a imprimersi nella sua memoria.
Era con lui quando,
finalmente, si decise ad alzarsi dal letto. Era con lui quando si
preparò un
paio di uova per colazione. Era con lui quando, di fronte allo
specchio, passò
lo spazzolino da denti negli angoli più remoti della sua bocca. Era con
lui
quando, alle dieci meno dieci precise, prese la metropolitana per
recarsi allo
studio della dottoressa Thompson, come il post-it sul frigorifero gli
aveva
gentilmente ricordato.
Come anche le volte
precedenti, John non era molto propenso a seguire quel percorso
terapeutico a
cui doveva per forza essere sottoposto. Si sentiva – in un certo qual
senso –
intrappolato dalla donna che gli poneva domande a cui lui stesso non
riusciva a
dare una chiara risposta.
È
l’unico modo per guarire, per riguadagnare la mia vita normale, andava
ripetendosi inutilmente.
Seduto sullo scomodo
seggiolino di plastica della Circle Line,
la sua mente tornò all’improvviso a concentrarsi sul suo sogno
notturno.
Prevedibilmente, ormai tutto gli appariva sfumato e quasi
irriconoscibile. Il
drago era diventato un vago ricordo fumoso, la foresta una macchia
verdognola.
Ma l’uomo, incomprensibilmente, era rimasto lo stesso. Poteva vederlo
con
chiarezza anche lì, sballottato dal rollio della carrozza sulle rotaie,
schiacciato tra un tale addormentato ed una signora dal sottile odore
di cavolo
bollito.
Lui, nel suo splendore così
onirico e così reale. I capelli neri
ricci che contornavano un volto stanco, ma severo e risoluto; così come
gli occhi
azzurro ghiaccio che apparivano profondi e intensi. Si erano guardati
dritti in
volto, entrambi stupiti di trovarsi l’uno di fronte all’altro. Poi
quelle
parole pronunciate a un fil di voce e il drago era scomparso, il sogno
era
scomparso.
Come
se mi avesse salvato, come se ci fosse sempre stato a salvarmi.
Un pensiero senza senso,
ovviamente. Perché l’uomo dai capelli
neri non esisteva. Perché lui non conosceva nessuno che avesse le
stesse
fattezze di quella figura ammantata di bianco.
Quando valicò la porta dello
studio della dottoressa Thompson e
si sedette sulla sua solita poltroncina, il suo volto probabilmente
metteva in
bella mostra tutti i suoi pensieri perché la donna, quasi ancor prima
di
salutarlo, gli chiese secca:
“Come vanno gli incubi?”
Due ore di psicoterapia
dopo, John sentiva di non aver trovato
neanche una risposta alle sue domande. La dottoressa lo aveva
rassicurato per
l’ennesima volta del fatto che draghi e foreste potevano essere emersi
dal suo
inconscio infantile e che certamente, questi ricordi annebbiati della
sua
infanzia, si erano mescolati con quelli della sua esperienza di vita.
Inutilmente aveva tentato di spiegarle che nessuno si era mai
interessato di
leggergli fiabe quando era bambino, né lui era mai stato
particolarmente
attratto dalla lettura. Altrettanto inutilmente aveva insistito sul
punto
dell’uomo che aveva fatto la comparsa nel suo incubo.
“Sembra che quel deus ex
machina abbia preso forma.”, le aveva
spiegato.
“È qualcuno che conosce?”,
aveva chiesto lei.
“No, nessuno. Eppure non è
sfumato, è chiaro e netto, come se lo
avessi di fronte a me tutti i giorni.”
“Probabilmente è qualcuno
che ha conosciuto, dottor Watson, e la
cui immagine le è rimasta impressa nella memoria.”
Erano stati inutili anche i
tentativi di spiegarle che non era
così, che la sensazione che provava ad ogni nuovo sogno – o incubo che
fosse –
era diversa da quella che aveva sempre provato sognando. Con il rifiuto
di
comprenderlo – e chi poteva, del resto, dar adito a un matto che
sosteneva che
i sogni erano in qualche modo reali?
– della dottoressa Thompson se ne andava così anche la sua ultima
speranza di
trovare risposte a dubbi, impressioni che non si cancellavano dalla sua
mente.
“Dovrebbe scrivere un
blog.”, gli aveva suggerito la donna in
uno dei loro primi incontri “Racconti tutto quello che le succede: la
aiuterà a
liberarsi dai suoi timori più reconditi, dai suoi incubi.”
“E cosa potrei raccontare?”,
le aveva domandato “Non mi succede
nulla.”
Questa conversazione era
avvenuta prima dei draghi e dell’uomo
dalla tunica bianca, quando tutto era banale e piatto. Ora, se proprio
doveva
dire il vero, qualcosa da scrivere su un blog lo aveva. Ma chi avrebbe
letto le
buffe avventure di John Watson catapultato in un mondo inesistente?
Perché la
parte razionale nel suo cervello glielo diceva chiaramente che
quell’idea
dell’esistenza di una specie di Mondo dei Sogni – e, con esso, di un
Uomo dei
Sogni – era una follia completa.
E
ci
manca anche questo per escludermi definitivamente dalla vita sociale.
Zoppo e
matto.
Ma una parte illogica
costringeva al silenzio il suo cervello. E
così accadeva che, per quanto tentasse di razionalizzare gli incubi,
per quanto
tentasse di svegliarsi da essi, finiva per esserci sempre più immerso,
a caccia
di un mistero che solo lui riusciva a vedere, a braccare un pericolo
tanto
immaginario quanto reale.
Quella
notte, mentre appoggiava la testa sul cuscino, sentì come
qualcosa di elettrico nell’aria, un cenno di una strana anticipazione.
Si
addormentò profondamente nel giro di pochi secondi. E il sogno cominciò.
Atto Secondo: Swefn
Scena Seconda
You
are not wrong,
who deem
That my days have
been a dream;
Yet if hope has flown
away
In a night, or in a
day,
In a vision, or in
none,
Is it therefore the
less gone?
All that we see or
seem
Is but a dream within
a dream.
Sherlock aveva lasciato
la sua abitazione qualche secondo dopo l'alba. Un pallido sole si
faceva largo
tra le fronde degli alberi sulla collina dei noccioli, fino ad
illuminarne la
fitta boscaglia sottostante. Lo Swefnesweriend sapeva bene che era
necessario
che il legno di nocciolo adatto ad essere bruciato fosse raccolto “da
un
ramo rivolto ad oriente, un'ora dal primo sorgere
del sole, con rugiada
sul fogliame novello, tagliato con una lama ricurva bagnata nella
sorgente
sacra al plenilunio”.
Sherlock passò le dita
sul coltello che portava appeso alla cintola. Per uno Swefnesfara di
talento
naturale – come lui o Moran – tutti quegli accorgimenti erano soltanto
accessori. Paradossalmente gli sarebbe bastato chiudere gli occhi e
recitare la
formula corretta, senza aver bisogno di fumi o intrugli. Tuttavia aveva
imparato a non sopravvalutare le sue capacità, né a sottovalutare
l'imprevedibilità dei sogni stessi. Essi, del resto, possedevano vita
propria
all'interno della mente di ogni individuo e la minima disattenzione
poteva
essergli fatale. Soprattutto dopo l'arrivo di Moran come suo diretto
avversario
aveva deciso di attenersi scrupolosamente al rituale prestabilito.
Ancora di
più da quando i suoi viaggi onirici avevano preso una piega del tutto
inaspettata.
Mentre osservava gli
alberi di nocciolo che lo sovrastavano alla ricerca di quello corretto,
la sua
mente ripensava a quei continui sogni “sbagliati”. Da dove venissero,
perché vi
avesse accesso, che cosa significassero era un mistero che bisognava
risolvere.
Il viso dell'uomo biondo in mezzo alla radura gli apparve di fronte,
nitido
come se fosse di fronte a lui in quel preciso istante. Con quell'uomo
del sogno
– al quale, ovviamente, ne corrispondeva uno reale da qualche parte –
sembrava
avere un qualche legame particolare, tanto che quest'ultimo riusciva ad
occupare con i suoi sogni tutta la mente di Sherlock. Costantemente e
ripetutamente.
Ma chi è? Perché riesce
ad eclissare tutti gli altri sogni in cui dovrei entrare? È un nemico?
All'apparenza lo è, dato che la sua intrusione nei miei viaggi non mi
permette
di difendere il villaggio. Ma sento che non rappresenta alcun pericolo.
E
allora chi è? Perché proprio i suoi sogni?
Si fermò di fronte
all'albero di nocciolo perfetto e vi tagliò via il ramo necessario, poi
appoggiò la fronte sul tronco e si scusò per averlo privato di una sua
parte.
Quella sera stessa tutto
era pronto per svolgere il rituale ed entrare, di conseguenza, nel
mondo dei
sogni. La certezza di riuscire a tornare nel sogno dell’uomo biondo e,
quindi,
di trovare le risposte che cercava non l’aveva, ma sentiva dentro di sé
come
una specie di richiamo antico, un canto che lo portava a pensare che
tutto
sarebbe andato per il verso giusto. Dopotutto ci doveva essere un
motivo per
cui attraversare i sogni di quell’uomo gli riuscisse così semplice.
L’unica cosa che lo
preoccupava era di non essere sicuro di riuscire a mantenere il se
stesso – e
la visione onirica – stabile a lungo per poter parlare abbastanza.
Sebbene suo
fratello lo considerasse un compito da nulla, giacché non fisicamente
faticoso,
lui sapeva benissimo quanto la connessione mentale fosse estenuante,
quanto il
valicare le porte della percezione irreale fosse un fardello che solo
quelli
che lo provavano potevano comprendere.
Il fuoco sacro bruciava
nella stanza da un po’ e stava finalmente cominciando a scemare,
lasciando
spazio al fumo che avrebbe dovuto inspirare. Bevve il solito miscuglio
di birra
tiepida e pestato d’edera, poi chiuse gli occhi. Dopo i primi istanti
di buio,
una sensazione familiare di calore lo avvolse.
È
il
sogno giusto. Prima c’era solo smarrimento, qui vi è appartenenza.
La sagoma familiare
dell’essere alato apparve per pochi secondi
prima che lui – in un paio di parole magiche – riuscisse a trasformarla
in un
drago. Ormai era talmente bravo a trasformare quel sogno che ci metteva
pochi
istanti. Il problema, ora, era riuscire a diventare corporeo. La notte
precedente vi era riuscito senza volerlo, ora doveva farlo
coscientemente. La
seconda formula magica sgorgò dalle sue labbra ancor prima che potesse
farvi
attenzione. L’uomo biondo sotto di lui scappava, ansimante, verso la
radura
dove avrebbe incontrato il drago. Benché sentisse prepotente la spinta
di
correre immediatamente a salvarlo, Sherlock continuò la cantilena. Non
poteva
permettersi di distrarsi quando era così vicino a varcare un limite
invalicabile.
Alla terza formula magica,
sentì il suo corpo guadagnare una
certa consistenza. Fare ciò incoscientemente – si chiedeva ancora come
fosse
stato possibile aver preso forma completa il giorno antecedente – era
sembrato
semplicissimo, ora sentiva tutto il peso del suo essere in
quell’ambiente
inesistente. O, meglio, esistente in una consistenza diversa da quella
della
realtà.
Comparve, infine, nello
spiazzo erboso dov’era già apparso. Con
l’ennesimo incantesimo fece sparire il drago e si concentrò per
mantenere la
stabilità della visione.
L’uomo biondo lo osservò
stupito, come se si aspettasse che
l’incubo finisse in quel momento. Era una deduzione logica, pensò
Sherlock,
dato che finora era accaduto esattamente così.
Ma
non oggi.
L’uomo, ancora trafelato, si
fermò, diede un’occhiata dietro di
sé alla ricerca del drago scomparso, poi si voltò nuovamente verso
Sherlock.
“Chi sei?”, urlò
all’improvviso, poi si zittì, sul volto
un’espressione di stupore.
“Chi sei tu?”, chiese,
invece, Sherlock, percorrendo in un
secondo i metri che lo separavano dall’altro.
“Sto parlando…”, balbettò
l’uomo “Sto parlando in un sogno…”
Sherlock lo guardò con fare
curioso.
“Ovviamente stai parlando in
un sogno.”
“Sto impazzendo. Ormai è
certo, sto diventando matto…”
“Di che fesserie vai
cianciando?”, si stupì lo Swefnesweriend
“Hai già parlato nei tuoi sogni. Ma ora veniamo a noi. Chi sei? Perché
continuo
a finire nel tuo sogno? Cosa vuoi da me? Lavori per Moriarty?”
Gli occhi dell’uomo si
spalancarono nella più vivida espressione
di perplessità che Sherlock avesse mai visto.
“Non ho mai parlato
coscientemente. Non ho mai…risposto a delle
domande.”, disse, la voce bassa “E poi cosa significa continuo
a finire nel tuo sogno?”
“Tu non sai cosa sono io?”,
lo sguardo di Sherlock tradì i suoi
pensieri.
“Io non so nulla. Non so chi
tu sia, perché appari nei miei
sogni! E non voglio niente da te!”, poi mormorò “Ma perché continuo a
parlare
con un’allucinazione? Sto impazzendo…”
“Tu davvero
non sai…”
Quindi
non sa cosa sono, non interferisce nei miei sogni di sua volontà, non
sa che
esistono gli Swefnesfaran. Non-
“Non so niente!”, urlò
l’uomo, disperazione nella sua voce.
Sherlock tentò di ragionare
velocemente per capire se l’uomo
stesse mentendo, se nei sogni le sue capacità deduttive fossero in
qualche modo
offuscate. Ma no, l’uomo diceva la verità. Lo sentiva.
“Sono Sherlock.”, disse lo
Swefnesweriend ad un certo punto “E
sono un Difensore di Sogni.”
“Un…cosa? Sto
definitivamente impazzendo. Non solo parlo con i
sogni, ma questi rispondono alle mie domande, dicendo cose assurde.
Bene, John,
bene. Altri cinque anni di psicoterapia non potranno che farti bene.”
“No, ascolta.”, spiegò
Sherlock, desideroso di stabilire un
qualche legame con l’uomo misterioso “John, giusto?”
L’uomo annuì debolmente.
“Ascolta, John.”, riprese
“Non stai impazzendo, né altro. Puoi
parlare nel sogno perché il sogno che stai vivendo è una realtà a sé
stante.
Tutti i sogni lo sono, ma generalmente si è solo passivi e non li si
può
controllare. Questo è quello che succede sempre nei tuoi incubi, ma io
posso
rendere quella sostanza - anche se non è il termine
corretto –
effimera reale. O, meglio, posso modificare quella sostanza affinché
essa
faccia quello che dico io.”
John, dai suoi occhi
azzurri, lo guardò perplesso.
“Tu sei un’allucinazione che
dice cose assurde!”
“No, non lo sono. Credimi. È
un’arte antica la mia, un’arte
difficile e di cui pochissimi sono dotati a sufficienza per praticarla.
Io esisto per difendere le persone
dai
propri incubi, dalle proprie paure. Sono una persona reale al di fuori
del
sogno proprio come lo sei tu.”
Lo sguardo dell’uomo sembrò
distendersi, per poi accigliarsi di nuovo.
“Stai dicendo cose…cose!
Cose senza senso!”, ma si ammutolì, il
volto farsi pensieroso “Ma…ti credo. Cioè, penso di crederti. Oh,
dannazione!
Non lo so!”
“So che è complicato, se non
conosci il concetto.”, si fermò e
allungò il braccio verso John; pur sapendo che il contatto non era
assolutamente consentito, sentì di doverlo fare “Se mi tocchi,
riuscirai a
comprendere.”
John allungò tremante la
mano. Le due entità oniriche si
toccarono, attraversandosi. In quel tocco quasi elettrico Sherlock capì
cos’era
John e comprese che anche John riuscì in un qualche modo a percepire
che cosa
fosse lui.
“Tu…vieni dal futuro. Il tuo
sogno è un sogno di molti anni
lontano dal mio presente.”, fu tutto ciò che Sherlock riuscì a dire.
“E tu…tu sei il passato.”,
rispose John “Tu sei reale in un
tempo passato.”
La rivelazione fu
sconvolgente per Sherlock. Non solo era
entrato – per un motivo ancora ignoto – nel sogno di una persona
sconosciuta,
ma aveva fatto tutto ciò attraversando ad occhio e croce circa un
millennio. Non
era mai successo. Ed era potenzialmente pericolosissimo. Eppure
continuava a
sentire che tutto quello fosse in un qualche modo giusto,
destinato ad essere. Il tocco con l’uomo aveva solo
confermato quella sensazione.
“Perché sei nei miei
sogni?”, chiese John “Qual è la ragione?”
Sherlock abbassò lo sguardo
a terra e scosse la testa.
“Potessi darti una risposta,
lo farei volentieri. Metterebbe in
pace il mio animo tormentato.”
Si sedette sull’erba,
seguito da John.
“Il mio compito è quello di
proteggere il mio villaggio dagli
attacchi onirici perpetrati da un Cacciatore di Sogni di nome Moran.
Questo è
ciò che ho sempre fatto, almeno finché non sono apparsi i tuoi strani
sogni. Da
allora continuo ad imbattermi in te e non riesco più a svolgere il mio
dovere.”
John lo osservò con
curiosità, ma Sherlock capì che il tempo a
loro disposizione era agli sgoccioli. Sentì, infatti, chiaramente che
la sua
figura si stava dissolvendo.
“Quindi sarebbe colpa mia?”,
chiese l’uomo un po’ stizzito.
“Non ti sto dando la colpa.
Ma non riesco a capire. Ed io odio
non capire, ignorare cosa stia accadendo.”
“Un po’ presuntuoso, non
trovi?”, l’uomo biondo sorrise “Tutti
noi non sappiamo qualcosa, c’è sempre un po’ di mistero.”
“La cosa interessante di un
mistero è risolverlo, non credi,
John?”
“Ci sono misteri che sono
meravigliosi perché rimangono tali.
Questo incontro inaspettato forse è uno di essi.”, sorrise apertamente
John, un
sorriso sincero che, per un attimo, riscaldò il cuore di Sherlock.
Quella fu l’ultima immagine
prima che il sogno si dissolvesse,
quella che rimase indelebilmente impressa nella sua mente. Riuscì
soltanto a
dire un’ultima cosa prima che tutto sparisse nel nero.
“Alla prossima.”
Perché era certo che quella
non fosse l’ultima volta anche si
sarebbero incontrati, anche perché non voleva che fosse l’ultima. Dopo
quella
breve conversazione, dopo quel sorriso così chiaro, così intenso, John
aveva
assunto tutto un altro significato. Un significato che non comprendeva
e che,
forse, come aveva detto l’altro uomo, non voleva assolutamente
comprendere. Che
John esistesse in sogno, in un altro tempo, in un altro luogo e che
fosse, al
tempo stesso, lì con lui era tutto ciò che gl’interessava.
N.d.A.
Swefn:
come
già specificato in precedenza, dall’antico inglese e significa “Sogno”.