Atto
Terzo: Ende
Scena Prima
There
are more things
in Heaven and Earth, Horatio,
Than are dreamt of in
your philosophy.
John si svegliò di
soprassalto, la mente ancora completamente concentrata sul sogno che
aveva
fatto. Per la precisione: sull'uomo del sogno. Che ora aveva un nome,
Sherlock,
e che aveva persino un'occupazione, difendere i sogni. Il tutto gli
pareva
talmente reale e assurdo che, seduto sul letto per alcuni secondi, fece
fatica
a distinguere i contorni di ciò che gli stava attorno. Il sogno, la
radura, la
conversazione erano sembrati più reali della realtà e, come mai prima
d'ora,
aveva sentito di appartenere a quella dimensione
onirica.
Il che, se ci ragionava
bene, era una follia completa. Ma quel breve contatto con l'uomo,
quella scossa
che aveva sentito, quella conversazione lasciavano a John ben poco
spazio per
credere che fosse pazzia. Sembrava tutto così naturale e atteso, tutto
così
assolutamente perfetto e cercato, da essere logico.
Se non che la mia
psicoterapeuta mi farebbe ricoverare immediatamente, se sapesse una
cosa
simile.
John capì che sarebbe
stato inutile tentare di spiegare quello che aveva appena provato alla
donna.
Non era una sensazione che si poteva spiegare a parole, né,
probabilmente,
sarebbe mai riuscito a trovare i termini giusti per definire tutto ciò
che era
successo. Ricordava tutto nitidamente, come se fosse avvenuto nel mondo
reale e
non nel mondo dei sogni. Ed era certo che fosse reale. Era certo che
esistesse
uno Sherlock che vivesse in un tempo passato e che – per una ragione
misteriosa
– si trovasse anche all'interno dei suoi sogni. E credeva anche alla
storia
dello Swefnesweriend, per quanto fantasiosa potesse sembrare. Non
sapeva
spiegarsi il perché, ma nutriva nei confronti di quell'uomo una fiducia
che
veniva direttamente dall'interno della sua anima e che, sentiva, non
poteva
essere intaccata da nulla.
Perché è giusto così. E
nessuno potrà mai convincermi del contrario.
Forte di questa
convinzione e dell'idea che un filo legasse lui e Sherlock, John sentì,
per la
prima volta dopo il suo ferimento, di avere qualcosa per la quale la
vita non
gli pareva più così grigia e inutile. Ben presto quei sogni divennero
il
cardine della sua esistenza e i continui incontri con l'uomo divennero
ciò che
di più importante avesse mai avuto.
Nel corso delle tre
settimane successive a quel primo vero incontro, i
sogni continuarono
con costanza.
Sherlock gli spiegò
diverse cose che non riusciva a comprendere. Nell'incontro successivo
gli
spiegò, per esempio, il perché riuscissero a capirsi nonostante la loro
lingua
fosse diversa.
“Nei sogni è
possibile perché sono una realtà alternativa e possiamo fare esperienze
differenti rispetto alla nostra quotidianità”, gli aveva
spiegato “e
siamo noi che, grazie ad una parte della nostra volontà, rendiamo
possibile
l'impossibile.”
“Dunque una parte
della mia volontà vuole conversare con te?”, aveva chiesto
John, curioso.
Sherlock aveva disteso
il volto e aveva sorriso compiaciuto.
“Sei piuttosto
sveglio.”, gli aveva detto con una certa soddisfazione “È
proprio così.”
Un'altra volta gli aveva
domandato come fosse la vita ai loro tempi.
“Noiosa.”,
gli
aveva risposto “Guerre, battaglie e poco altro.”
Poi gli aveva spiegato
di suo fratello Mycroft, il Walda del villaggio, della battaglia che
stavano
conducendo contro Moriarty, il Walda del villaggio confinante,
dell'arrivo di
alcuni stranieri che non parlavano la loro lingua, della loro religione
e del
loro modo di vedere il mondo. John ne era rimasto affascinato, ma nulla
al
confronto della curiosità che Sherlock nutriva verso il futuro.
“Il tuo mondo,
invece, com'è?”, gli aveva chiesto un paio di notti dopo.
“Diverso dal tuo,
ma
egualmente noioso. O, almeno, per me lo è.”
E gli aveva raccontato
che le guerre c'erano ancora, che lui stesso era stato un soldato, che
era
stato ferito. Era anche riuscito, con qualche difficoltà, a spiegargli
che
l'oggetto da cui continuava a salvarlo non era un uccello, ma un
elicottero.
Sherlock ci aveva rimuginato sopra per un bel po' di tempo e poi aveva
sentenziato, tra il divertito e il perplesso.
“Credo di aver
intuito.”, e aveva sorriso.
Un'altra volta ancora
John lo aveva pregato di spiegargli cosa prevedesse esattamente il
fatto di
essere uno Swefnesweriend. Lo aveva chiesto perché Sherlock sembrava
quasi
sempre sorvolare l'argomento o minimizzarlo.
“È una benedizione
ed
una dannazione. È un dono, direbbero alcuni. Ma la verità è che è un
fardello
che lascerei volentieri a qualcun altro. Tuttavia so che è mio preciso
dovere
svolgere questo compito, mi piacerebbe solo metterci più passione.”
“Vorresti fare
altro?”
“Avessi una
possibilità di scelta sì. Ma ammetto che le alternative non sono molto
allettanti. Il cacciatore o l'agricoltore non mi si addicono proprio,
per non
parlare del guerriero. Essere uno Swefnesweriend almeno mi libera da
queste
stupide incombenze.”
John aveva ammesso che,
effettivamente, non c'era molta varietà lavorativa nell'epoca di
Sherlock.
“Ma se potessi
scegliere, cosa ti piacerebbe fare?”, aveva insistito.
“Riderai di me, se
te
lo dico?”, aveva sorriso debolmente “Mi piacciono i
misteri. Mi piace
vedere oltre la realtà apparente delle cose. Mi piace scavare là dove
la gente
rifiuta di farlo, perché considerato immorale o empio. Se potessi, mi
piacerebbe scoprire chi sia il colpevole, per esempio, dei delitti...”
“Perché dovrei
ridere? È un lavoro affascinante!”
“Ma non esiste!”,
aveva sentenziato, ridendo, Sherlock.
“Nella mia epoca sì.”,
aveva risposto John “Si chiama 'investigatore'.”
“Investigatore?”,
aveva ripetuto Sherlock, affascinato dalla parola “Allora
farei
l'investigatore. Mi piace la tua epoca.”
E aveva sorriso.
I sorrisi di Sherlock,
John ormai lo sapeva bene, erano rari. Erano sorrisi che si
dischiudevano
quando meno ce li si aspettava: apparivano per un'argomentazione
brillante da
parte di John, per un termine particolarmente arguto, per un
ragionamento
corretto. Erano sorrisi che toccavano il profondo dell'anima,
lasciandoci
un'impronta indelebile, e che conservava come un tesoro prezioso nelle
grigie e
fredde giornate londinesi. Quando tutto andava storto, gli bastava
ricordare
quel leggero scintillio negli occhi azzurro-grigi di Sherlock nel
momento in
cui sorrideva e tutto pareva prendere la direzione giusta. Era come se
Sherlock
fosse diventato la risposta a tutto, l'unico ad essere riuscito ad
allontanare
l'incubo della guerra dalla sua mente.
Anche la sua gamba aveva
risentito positivamente del cambiamento operato da Sherlock. Man mano
che i
sogni proseguivano, il dolore si era attenuato, fatto sempre più lieve,
quasi
cessato. Era una sensazione di rinascita incomparabile. E doveva dir
grazie di
tutto ciò ad un uomo inesistente nel mondo a lui contemporaneo.
Da quando c'era
Sherlock, inoltre, tutto ciò che lo circondava era diventato quasi
sbiadito,
mentre il tempo che passava con lo Swefnesweriend si era trasformato in
tutto
ciò di cui aveva bisogno. Le loro passeggiate nella foresta dove
Sherlock
gl'insegnava la differenza tra questa e quella pianta, le conversazioni
su ogni
tipo di argomento possibile – anche quelli del mondo attuale, a cui
Sherlock si
dimostrava estremamente interessato, i racconti che Sherlock faceva di
tutti i
sogni che aveva difeso.
Nel corso di tre sole
settimane John aveva raggiunto – e se ne rendeva conto chiaramente –
un'intimità con Sherlock che non aveva mai avuto con nessun altro. Quel
senso
di appartenenza che prima aveva riguardato soltanto il sogno in
generale, si
era ristretto alla sola figura di Sherlock. Tanto che John cominciò a
maturare
l'idea che la sua vita avesse un senso solo grazie a Sherlock e che,
senza di
lui, non sarebbe più riuscito a vivere. Era, in certi momenti,
terrorizzato al
pensiero che quei sogni si potessero interrompere e, quando lo
Swefnesweriend
saltava una notte perché impegnato nella difesa del villaggio, una
paura oscura
s'impadroniva di John, al punto da condizionare tutto il giorno
seguente.
Un giorno questo peso
era diventato intollerabile. Aveva passato la giornata a sperare,
desiderare,
bramare di vedere Sherlock quella notte, perché il
solo accenno di non
riuscire a incontrarlo nei sogni lo faceva star male. Era stato in quel
momento
che aveva capito. Non era stata un'illuminazione del momento, né
un'idea folle,
ma solo la naturale conseguenza di ciò che era accaduto fino a quel
momento.
Sherlock,
fortunatamente, era apparso quella notte. Dopo i convenevoli iniziali,
John
aveva posto la fatidica domanda che l'aveva tormentato per un giorno
intero:
“Non c'è modo in
cui
io possa raggiungere il tuo mondo?”
Sherlock aveva scosso la
testa sconsolatamente.
“Nessuno.”,
aveva
risposto, mesto “Il mondo dei sogni è solo dei sogni.
L'io-reale e il
tu-reale non avranno mai alcuna possibilità d'incontrarsi, se non qui,
in
questa forma.”
“Ho paura che non
duri.”, John aveva confessato.
“Nulla dura.”
Era stato in quel
preciso istante che John si era reso conto che la figura di Sherlock
aveva
cambiato aspetto: il volto era emaciato, le occhiaie scavate, gli occhi
velati
da una patina biancastra, i capelli arruffati.
“Sherlock...ma tu...”
“Non ce la faccio
più
a nasconderlo, John.”, gli aveva detto “In questi
giorni ho tentato
sapientemente di coprire il cambiamento del mio aspetto fisico. Non
volevo che
tu...”
“Non dovevi
farlo...so quanta fatica ti costa modificare anche un solo singolo
aspetto...”
“Non volevo
preoccuparti.”
“Se vuoi possiamo
interr-”, ma John non era riuscito a finire la frase.
“No!”,
aveva
urlato Sherlock, la disperazione palese nel suo sguardo.
John aveva avvicinato la
sua mano all'altro uomo alla ricerca di un contatto che mancava dal
primo
giorno. Le due mani si erano così sfiorate e attraversate. E John aveva
sperato
di riuscire a trasmettere in quel tocco ciò che a parole non riusciva
esprimere. Quella naturale conseguenza era che si era innamorato di
Sherlock.
Inspiegabilmente, forse, per qualsiasi altro individuo sulla terra, ma
non per
lui. Sherlock era ciò che a John era sempre mancato, ciò che lo completava.
Non esisteva un modo per spiegarlo chiaramente, non esisteva un modo
per
razionalizzarlo. Sapeva che era così e lo accettava. Accettava di amare
un uomo
che non avrebbe mai potuto incontrare davvero, si accontentava della
sua
presenza nella sua vita.
E con quello sfiorare
aveva sperato di riuscire ad esprimere questo, dato che le parole non
erano
sufficienti. Non sarebbero mai state sufficienti
per spiegare il suo
cuore.
Ti amo, disse John in quel tocco,
senza proferir parola.
Sherlock lo guardò
semplicemente e i suoi occhi – e John sperò di non esserselo immaginato
–
sembrarono rispondere: anch'io.
Dopo quell'episodio,
Sherlock era apparso sempre più stanco e vulnerabile e, la notte
precedente,
era sembrato anche spaventato.
“Quel Moran...”,
aveva detto “Mio fratello...”
John aveva tentato di
ricavare qualche altra parola, una spiegazione, ma non ci era riuscito.
Avevano
passato il tempo a guardare il cielo sopra di loro senza fiatare, le
nuvole che
scorrevano bianche nell'azzurro accecante.
“Non esiste più
l'azzurro,
solo il grigio, John...”
Era stata l'ultima frase
che Sherlock aveva pronunciato, prima che qualcosa
facesse svanire di
colpo il sogno.
Quella notte, prima di
appoggiare la testa sul cuscino, John ebbe paura. Dentro di sé sapeva
che
qualcosa era sul punto di cambiare completamente. E non per il meglio.
Atto
Terzo: Ende
Scena
Seconda
To die, to
sleep.
To
sleep, perchance
to dream: aye, there's the rub,
For in that sleep of
death what dreams may come
When we have shuffled
off this mortal coil,
Must give us pause.
Sherlock camminava
avanti e indietro per la stanza. La guardia che si occupava di suo
fratello era
venuto a chiamarlo alcuni minuti prima, interrompendo bruscamente il
sogno che
stava facendo accanto a John.
John.
Quell'uomo così distante,
eppure così vicino era diventato un problema, ma un problema di cui non
riusciva – e non voleva – in nessun modo liberarsi. John era diventato
la sua
ancora di salvezza dopo estenuanti giornate a discutere con Mycroft
delle
migliori strategie da adottare contro le scorribande sempre più
intrusive
all'interno del loro territorio, dopo estenuanti nottate a combattere
contro
mostri onirici sempre più potenti, sempre più perfetti. I sogni di John
– con
John, si correggeva, perché John esiste –
erano il suo rifugio tra
una notte e l'altra. E, per quanto rendessero palese la sua debolezza,
per
quanto lo rendessero umano, non voleva che
finissero.
Quella sensazione di
appartenenza che aveva percepito fin dall'inizio, si era andata
chiarificando con
il tempo e si era trasformata in un sentimento che, inizialmente, aveva
fatto
fatica a definire. Era qualcosa di caldo e avvolgente che gli aveva
dato il
sostegno necessario per attraversare le giornate infernali che si era
trovato
ad affrontare e che gli aveva fornito uno scopo in una vita che aveva
quasi
sempre considerato come necessaria, ma inutile. John era, in poche
parole,
diventato il suo centro, indispensabile.
Quando, un giorno, dopo
che lui e John avevano fatto una lunghissima passeggiata nel bosco
onirico –
infatti si era impegnato fino allo sfinimento per rendere quei loro
sogni privi
di creature mostruose e il più stabili e lunghi possibile, era riuscito
a dare
finalmente un nome a quella sensazione sconosciuta e, al tempo stesso,
completante.
Era amore. Il che era incredibilmente ridicolo, se
ci pensava. Lui che
aveva sempre considerato l'amore come una debolezza delle menti deboli,
lui che
era persino giunto a considerarlo un difetto della razza umana, lui
si
era innamorato. Eppure non c'era alcuna altra spiegazione plausibile.
Desiderava la compagnia di John, desiderava vederlo sorridere di quel
sorriso
sincero e fiducioso che solo lui aveva, desiderava che quei sogni non
finissero
mai.
Nei momenti in cui la
logica riacquistava peso, però, si rendeva conto di quanto indugiare in
quegli
sprazzi di felicità momentanea fosse pericoloso e ricominciava ad
auto-imporsi
di lasciar perdere, fino al punto di tenersi apposta lontano da quei
sogni, con
uno sfiancante sforzo di volontà. Nonostante ciò, il giorno seguente vi
si
ritrovava coscientemente al loro interno ed era una sensazione talmente
appagante che l'idea di volervisi tenere a distanza appariva folle.
Tutto quello che stava
succedendo era inspiegabile e, in quanto tale, terribilmente attraente
per
Sherlock, ma al tempo stesso era naturale, come se
lui e John fossero
uniti da un filo invisibile e destinati ad incontrarsi lì, in quel
preciso
frangente della loro vita. Sherlock non riusciva a dare una spiegazione
nemmeno
a questo, ma – strano a dirsi – per la prima volta nella sua vita non
gl'importava. L'importante era John.
Il problema, tuttavia,
rimaneva. Non solo perché tutta la sua attenzione si riversava nei
confronti di
John e del suo meraviglioso mondo futuro – investigatore,
si ripeteva, suona
bene – compromettendo
così la
sicurezza del suo villaggio; ma anche perché John rimaneva chiuso nel
mondo dei
sogni e lui aveva la netta sensazione che questi loro incontri non
sarebbero
durati a lungo.
Ed ora, trascinato alla
dura realtà da una zelante guardia, ne era ormai sicuro. Suo fratello –
così
gli aveva comunicato l'uomo – si era svegliato nel bel mezzo della
notte
gridando e mormorando frasi sconnesse e ogni tentativo di riportarlo
alla
ragione era fallito. Ora giaceva inerme nel suo letto, lo sguardo vacuo
rivolto
verso il tetto di paglia. Quando Sherlock era giunto al suo capezzale,
aveva
immediatamente capito la gravità della situazione. Già il giorno prima
Moran
aveva attaccato con forza e lui era riuscito, a fatica, ad evitare che
Mycroft
venisse divorato dal suo stesso sogno. In seguito ad un attacco così
potente,
Sherlock aveva calcolato che lo Swefnesdræfend avrebbe avuto bisogno di
un
giorno di riposo. Si era sbagliato. Aveva sottovalutato il suo
avversario e lui
ne aveva approfittato in un modo che Sherlock non avrebbe mai, prima
d'allora,
creduto possibile: era riuscito – grazie alle sue arti – a far uscire
di senno
Mycroft solo attraverso i sogni. Non sapeva, ovviamente cosa
gli avesse fatto
apparire in sogno, ma doveva essere stato qualcosa che non avrebbe
potuto
fermare nemmeno lui. Marginarlo? Sì. Sconfiggerlo? No.
Ma se non fossi stato
con John, forse sarei riuscito ad impedire che impazzisse completamente.
Il senso di colpa lo
rodeva nell'anima. Suo fratello era, nonostante i loro dissapori,
l'unica cosa
che lo legava al suo presente e, sebbene detestasse il compito ingrato
di
Swefnesweriend, lo aveva accettato perché Mycroft potesse regnare senza
troppe
preoccupazioni. Ma più forte ancora del senso di colpa nei confronti
del
fratello, si faceva largo in lui la paura di perdere John. Perché ormai
era
inevitabile che le loro strade dovessero separarsi definitivamente.
Sherlock
doveva prendere il comando ed era certo che, dopo la disfatta del
Walda, i
guerrieri del villaggio non avrebbero accettato gli ordini di uno che
consideravano, alla meno peggio, irritante. E
Moriarty non avrebbe
esitato a chiedere la sua testa.
Sacrificare John sarebbe
stato ancora apparentemente semplice se, pochi giorni prima, non si
fossero
sfiorati e tutti i sentimenti dell'uomo non gli si fossero palesati.
Non era un
amore unilaterale, era reciproco.
Ed ora che lo so, come
faccio a dirgli addio? Come posso lasciarlo soffrire per il resto della
sua
esistenza? Vorrei che fossi qui, John, vorrei che tu fossi reale in
quest'epoca, vorrei abbracciarti e dire che andrà tutto bene. Ma tu sei
più di
mille anni distante da me e io non trovo soluzione. Io soffrirò poco la
tua
mancanza. La mia testa rotolerà ancor prima che io possa rendermene
conto. Ma
tu? Tu col tuo amore così sincero e lampante, come farai?
La guardia, che lo aveva
lasciato solo nella stanza, tornò per annunciare che gli altri nobili
del
villaggio erano arrivati e pronti per cominciare il consiglio.
La notte successiva,
Sherlock, ormai Walda eletto all'unanimità – se si escludeva il suo
fermo
rifiuto, si chiuse nella sua stanza e osservò il braciere spento e gli
ultimi
rametti di nocciolo appoggiati a lato. Vi era anche un ramo secco di
agrifoglio. Lo aveva scelto un po' di tempo prima perché, dai suoi
studi, era
risultato che quella pianta era in grado di creare un ambiente onirico
sufficientemente protetto. Nel caso Moran avesse intenzione di
attaccarlo
quella notte, avrebbe trovato una barriera abbastanza potente da
fermarlo.
E così, pensò tristemente,
potrò dare il mio addio a John.
Sherlock accese il
braciere e vi gettò sopra il legno e l'agrifoglio, sentendoli
sfrigolare al
contatto con il carbone rimasto dalla sera precedente. Zampilli rossi
illuminarono
l'ambiente per alcuni minuti. Quando il fuoco si fu indebolito e il
fumo
biancastro cominciò a intersecarsi nella stanza, lo Swefnesweriend lo
inalò con
avidità, sapendo bene che quella sarebbe stata l'ultima volta. Al
recitare la
formula magica, la stanza scomparve e si ritrovò nel solito bosco, ma
ricoperto
di neve.
Effetto dell'agrifoglio, pensò.
John apparve qualche
secondo dopo da dietro un albero. I loro occhi s'incontrarono
istantaneamente,
come se non stessero aspettando altro.
“Neve?”, chiese John.
“Già.”, rispose
Sherlock, accennando un sorriso.
Aveva anche tentato di
cambiare velocemente il suo aspetto esteriore, in modo da apparire più
in
salute di quello che era, ma non ci era riuscito. Anche l'idea di
mentire a
John, di dirgli che era tutto a posto e che si sarebbero rivisti il
giorno
seguente gli era balenata nella mente, ma l'aveva scacciata con forza.
John non
era uno stupido e avrebbe intuito tutto all'istante. E, poi, non poteva
mentire
a John. Era come tradirlo.
“È merito dell'agrifoglio.”,
continuò, sperando inutilmente che tutto ciò che stava passando non
trapelasse
dalla sua espressione.
Ma era chiedere troppo.
John lo notò non appena si avvicinò. Il sorriso che gli aveva
illuminato il
volto fino a quell'istante svanì, lasciando il posto ad un espressione
preoccupata.
“Hai un aspetto
orribile...”, disse quasi paternamente.
“Non è niente,
davvero.”, mentì involontariamente.
“Non dire bugie,
Sherlock. Ieri notte non hai parlato per tutto il tempo e si vedeva che
c'era
qualcosa che ti tormentava più profondamente del solito. E oggi sei
conciato –
se possibile – ancora peggio dei giorni scorsi, come se un fardello
enorme si
sia depositato sulle tue spalle. Sarò anche distante migliaia di anni,
ma tutto
il tuo aspetto non mente, Sherlock.”
Piccoli fiocchi di neve
cominciarono a descrivere spirali nell'aria, spazzati da un leggero
vento.
Sherlock guardò verso il cielo bianco sopra di loro, poi indicò a John
un masso
sporgente dove potessero sedersi.
“Sono il nuovo Walda del
villaggio, John.”, disse greve.
Il volto di John non
nascose lo stupore.
“Il...”, balbettò
“Walda? E tuo fra-”
“Mycroft non può più
ricoprire la carica.”, tagliò corto, un nodo alla gola a ricordargli la
sua
mancanza.
“Non è colpa tua,
Sherlock. Qualsiasi cosa sia successa, non è colpa tua.”, tentò di
confortarlo
John.
“Come puoi saperlo? Come
puoi anche solo credere che non sia colpa mia,
quando lo è?”, urlò
disperato “Dovevo essere a proteggerlo e invece...ho sbagliato...tutto.”
“Allora è colpa mia, non
tua. Sono io ad averti trattenuto.”
Ma Sherlock, per quanto
arrabbiato fosse con se stesso, non poteva accettare che John si
prendesse una
colpa che non aveva. Anzi, se avesse potuto, gli avrebbe spiegato che
era solo
grazie a lui se era resistito fino a quel momento senza crollare sotto
il peso
della responsabilità, che era solo per lui che aveva continuato a
svolgere il
suo lavoro al meglio, solo per poterlo vedere. Ma le parole, in un
qualche
modo, non riuscivano ad uscire dalle labbra. Le aveva lì, ma tutto ciò
che
riusciva a fare era osservare John in quegli occhi azzurri, tanto
simili e
tanto diversi dai suoi, essendo a conoscenza che quella sarebbe stata
l'ultima
volta in cui avrebbe potuto vederli.
“Non è colpa tua.”,
riuscì, infine, a dire “Non è mai stata, né mai sarà colpa tua, John. E
non è
colpa tua neanche quello che sta per succedere. Promettimi che non
penserai mai
e poi mai che sia colpa tua, va bene, John?”
John non disse nulla, ma
gli occhi lasciarono trasparire un misto di tristezza e paura.
“John...”, tentò di
proseguire, senza riuscirvi.
“È l'ultima volta,
vero?”, chiese l'altro con la voce spezzata.
Sherlock annuì e
distolse lo sguardo, due lacrime a rigargli le guance. La neve
continuava a
cadere sul terreno di fronte a lui, ma il freddo che provava era tutto
all'interno del suo cuore. Per alcuni secondi non successe nulla, poi
John
richiamò la sua attenzione:
“Sherlock?”
A fatica si girò
nuovamente verso di lui e si ritrovò il viso di John a pochi centimetri
di
distanza. Anche John aveva gli occhi lucidi e due gocce trasparenti
tracciavano
il contorno del volto. Piangeva.
“Sherlock...”, ripeté
l'uomo, la voce piena di malinconica dolcezza.
Avrebbe dovuto dire
qualcosa di saggio e consolarlo, ma tutto ciò che gli veniva in mente
era ti
amo, John, ti amo, ti amo, ti amo. Ma non era in grado
neanche di
pronunciare quelle parole, perché si sentiva morire dentro al pensiero
che
quella sarebbe stata la prima e unica – nonché ultima –
volta che John
le avrebbe udite dalla sua bocca. E non poteva lasciarlo con quella
confessione, che era sempre stata sottintesa, ma mai palesata. Lo
avrebbe
distrutto.
Poi i centimetri che lo
separavano da John scomparvero, perché John si era avvicinato fino a
far
combaciare le loro labbra. Lo stava baciando e, sebbene fosse un bacio
a metà,
data la loro incorporeità, con in quel contatto sentirono tutto ciò che
entrambi provavano l'uno per l'altro, si dissero tutto quello che non
avrebbero
mai potuto dirsi, in una promessa di amore eterno. Ma Sherlock sentì
qualcos'altro
all'interno di quel bacio. Vi era un richiamo lontano a cui si aggrappò
disperatamente con tutte le forze.
Mentre il sogno ormai si
dissolveva intorno a loro, riuscì a dire a John:
“Aspettami.”
N.d.A.
Ende:
sempre inglese antico, direi che qui il significato è piuttosto
evidente:
“Fine”.