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Autore: Leoithne    20/12/2014    1 recensioni
Ci sono storie antiche come il mondo, storie che vengono narrate di generazione in generazione, modificate nel corso dei secoli per adattarsi a questa o a quella cultura, a questa o a quella tradizione. Ma ci sono storie che nessuno osa raccontare perché esse parlano di quello che è reale ed irreale e di come, spesso, l'irreale c'inganna e il reale ci tradisce.
Gli occhi di Mycroft si spalancarono per lo stupore.
“Come?”, chiese titubante “Forma? Ma è-”
“Pericoloso. Stupido. Impossibile.”, sibilò e ripeté: “Impossibile.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Atto Terzo: Ende

 

Scena Prima

 

 

There are more things in Heaven and Earth, Horatio,
Than are dreamt of in your philosophy.

 

John si svegliò di soprassalto, la mente ancora completamente concentrata sul sogno che aveva fatto. Per la precisione: sull'uomo del sogno. Che ora aveva un nome, Sherlock, e che aveva persino un'occupazione, difendere i sogni. Il tutto gli pareva talmente reale e assurdo che, seduto sul letto per alcuni secondi, fece fatica a distinguere i contorni di ciò che gli stava attorno. Il sogno, la radura, la conversazione erano sembrati più reali della realtà e, come mai prima d'ora, aveva sentito di appartenere a quella dimensione onirica.

Il che, se ci ragionava bene, era una follia completa. Ma quel breve contatto con l'uomo, quella scossa che aveva sentito, quella conversazione lasciavano a John ben poco spazio per credere che fosse pazzia. Sembrava tutto così naturale e atteso, tutto così assolutamente perfetto e cercato, da essere logico.

Se non che la mia psicoterapeuta mi farebbe ricoverare immediatamente, se sapesse una cosa simile.

John capì che sarebbe stato inutile tentare di spiegare quello che aveva appena provato alla donna. Non era una sensazione che si poteva spiegare a parole, né, probabilmente, sarebbe mai riuscito a trovare i termini giusti per definire tutto ciò che era successo. Ricordava tutto nitidamente, come se fosse avvenuto nel mondo reale e non nel mondo dei sogni. Ed era certo che fosse reale. Era certo che esistesse uno Sherlock che vivesse in un tempo passato e che – per una ragione misteriosa – si trovasse anche all'interno dei suoi sogni. E credeva anche alla storia dello Swefnesweriend, per quanto fantasiosa potesse sembrare. Non sapeva spiegarsi il perché, ma nutriva nei confronti di quell'uomo una fiducia che veniva direttamente dall'interno della sua anima e che, sentiva, non poteva essere intaccata da nulla.

Perché è giusto così. E nessuno potrà mai convincermi del contrario.

Forte di questa convinzione e dell'idea che un filo legasse lui e Sherlock, John sentì, per la prima volta dopo il suo ferimento, di avere qualcosa per la quale la vita non gli pareva più così grigia e inutile. Ben presto quei sogni divennero il cardine della sua esistenza e i continui incontri con l'uomo divennero ciò che di più importante avesse mai avuto.

Nel corso delle tre settimane successive a quel primo vero incontro, i sogni continuarono con costanza.

Sherlock gli spiegò diverse cose che non riusciva a comprendere. Nell'incontro successivo gli spiegò, per esempio, il perché riuscissero a capirsi nonostante la loro lingua fosse diversa.

Nei sogni è possibile perché sono una realtà alternativa e possiamo fare esperienze differenti rispetto alla nostra quotidianità”, gli aveva spiegato “e siamo noi che, grazie ad una parte della nostra volontà, rendiamo possibile l'impossibile.

Dunque una parte della mia volontà vuole conversare con te?”, aveva chiesto John, curioso.

Sherlock aveva disteso il volto e aveva sorriso compiaciuto.

Sei piuttosto sveglio.”, gli aveva detto con una certa soddisfazione “È proprio così.

Un'altra volta gli aveva domandato come fosse la vita ai loro tempi.

Noiosa.”, gli aveva risposto “Guerre, battaglie e poco altro.

Poi gli aveva spiegato di suo fratello Mycroft, il Walda del villaggio, della battaglia che stavano conducendo contro Moriarty, il Walda del villaggio confinante, dell'arrivo di alcuni stranieri che non parlavano la loro lingua, della loro religione e del loro modo di vedere il mondo. John ne era rimasto affascinato, ma nulla al confronto della curiosità che Sherlock nutriva verso il futuro.

Il tuo mondo, invece, com'è?”, gli aveva chiesto un paio di notti dopo.

Diverso dal tuo, ma egualmente noioso. O, almeno, per me lo è.

E gli aveva raccontato che le guerre c'erano ancora, che lui stesso era stato un soldato, che era stato ferito. Era anche riuscito, con qualche difficoltà, a spiegargli che l'oggetto da cui continuava a salvarlo non era un uccello, ma un elicottero. Sherlock ci aveva rimuginato sopra per un bel po' di tempo e poi aveva sentenziato, tra il divertito e il perplesso.

Credo di aver intuito.”, e aveva sorriso.

Un'altra volta ancora John lo aveva pregato di spiegargli cosa prevedesse esattamente il fatto di essere uno Swefnesweriend. Lo aveva chiesto perché Sherlock sembrava quasi sempre sorvolare l'argomento o minimizzarlo.

È una benedizione ed una dannazione. È un dono, direbbero alcuni. Ma la verità è che è un fardello che lascerei volentieri a qualcun altro. Tuttavia so che è mio preciso dovere svolgere questo compito, mi piacerebbe solo metterci più passione.

Vorresti fare altro?”

Avessi una possibilità di scelta sì. Ma ammetto che le alternative non sono molto allettanti. Il cacciatore o l'agricoltore non mi si addicono proprio, per non parlare del guerriero. Essere uno Swefnesweriend almeno mi libera da queste stupide incombenze.

John aveva ammesso che, effettivamente, non c'era molta varietà lavorativa nell'epoca di Sherlock.

Ma se potessi scegliere, cosa ti piacerebbe fare?”, aveva insistito.

Riderai di me, se te lo dico?”, aveva sorriso debolmente “Mi piacciono i misteri. Mi piace vedere oltre la realtà apparente delle cose. Mi piace scavare là dove la gente rifiuta di farlo, perché considerato immorale o empio. Se potessi, mi piacerebbe scoprire chi sia il colpevole, per esempio, dei delitti...

Perché dovrei ridere? È un lavoro affascinante!

Ma non esiste!”, aveva sentenziato, ridendo, Sherlock.

Nella mia epoca sì.”, aveva risposto John “Si chiama 'investigatore'.

Investigatore?”, aveva ripetuto Sherlock, affascinato dalla parola “Allora farei l'investigatore. Mi piace la tua epoca.

E aveva sorriso.

I sorrisi di Sherlock, John ormai lo sapeva bene, erano rari. Erano sorrisi che si dischiudevano quando meno ce li si aspettava: apparivano per un'argomentazione brillante da parte di John, per un termine particolarmente arguto, per un ragionamento corretto. Erano sorrisi che toccavano il profondo dell'anima, lasciandoci un'impronta indelebile, e che conservava come un tesoro prezioso nelle grigie e fredde giornate londinesi. Quando tutto andava storto, gli bastava ricordare quel leggero scintillio negli occhi azzurro-grigi di Sherlock nel momento in cui sorrideva e tutto pareva prendere la direzione giusta. Era come se Sherlock fosse diventato la risposta a tutto, l'unico ad essere riuscito ad allontanare l'incubo della guerra dalla sua mente.

Anche la sua gamba aveva risentito positivamente del cambiamento operato da Sherlock. Man mano che i sogni proseguivano, il dolore si era attenuato, fatto sempre più lieve, quasi cessato. Era una sensazione di rinascita incomparabile. E doveva dir grazie di tutto ciò ad un uomo inesistente nel mondo a lui contemporaneo.

Da quando c'era Sherlock, inoltre, tutto ciò che lo circondava era diventato quasi sbiadito, mentre il tempo che passava con lo Swefnesweriend si era trasformato in tutto ciò di cui aveva bisogno. Le loro passeggiate nella foresta dove Sherlock gl'insegnava la differenza tra questa e quella pianta, le conversazioni su ogni tipo di argomento possibile – anche quelli del mondo attuale, a cui Sherlock si dimostrava estremamente interessato, i racconti che Sherlock faceva di tutti i sogni che aveva difeso.

Nel corso di tre sole settimane John aveva raggiunto – e se ne rendeva conto chiaramente – un'intimità con Sherlock che non aveva mai avuto con nessun altro. Quel senso di appartenenza che prima aveva riguardato soltanto il sogno in generale, si era ristretto alla sola figura di Sherlock. Tanto che John cominciò a maturare l'idea che la sua vita avesse un senso solo grazie a Sherlock e che, senza di lui, non sarebbe più riuscito a vivere. Era, in certi momenti, terrorizzato al pensiero che quei sogni si potessero interrompere e, quando lo Swefnesweriend saltava una notte perché impegnato nella difesa del villaggio, una paura oscura s'impadroniva di John, al punto da condizionare tutto il giorno seguente.

Un giorno questo peso era diventato intollerabile. Aveva passato la giornata a sperare, desiderare, bramare di vedere Sherlock quella notte, perché il solo accenno di non riuscire a incontrarlo nei sogni lo faceva star male. Era stato in quel momento che aveva capito. Non era stata un'illuminazione del momento, né un'idea folle, ma solo la naturale conseguenza di ciò che era accaduto fino a quel momento.

Sherlock, fortunatamente, era apparso quella notte. Dopo i convenevoli iniziali, John aveva posto la fatidica domanda che l'aveva tormentato per un giorno intero:

Non c'è modo in cui io possa raggiungere il tuo mondo?

Sherlock aveva scosso la testa sconsolatamente.

Nessuno.”, aveva risposto, mesto “Il mondo dei sogni è solo dei sogni. L'io-reale e il tu-reale non avranno mai alcuna possibilità d'incontrarsi, se non qui, in questa forma.

Ho paura che non duri.”, John aveva confessato.

Nulla dura.

Era stato in quel preciso istante che John si era reso conto che la figura di Sherlock aveva cambiato aspetto: il volto era emaciato, le occhiaie scavate, gli occhi velati da una patina biancastra, i capelli arruffati.

Sherlock...ma tu...

Non ce la faccio più a nasconderlo, John.”, gli aveva detto “In questi giorni ho tentato sapientemente di coprire il cambiamento del mio aspetto fisico. Non volevo che tu...

Non dovevi farlo...so quanta fatica ti costa modificare anche un solo singolo aspetto...

Non volevo preoccuparti.

Se vuoi possiamo interr-”, ma John non era riuscito a finire la frase.

No!”, aveva urlato Sherlock, la disperazione palese nel suo sguardo.

John aveva avvicinato la sua mano all'altro uomo alla ricerca di un contatto che mancava dal primo giorno. Le due mani si erano così sfiorate e attraversate. E John aveva sperato di riuscire a trasmettere in quel tocco ciò che a parole non riusciva esprimere. Quella naturale conseguenza era che si era innamorato di Sherlock. Inspiegabilmente, forse, per qualsiasi altro individuo sulla terra, ma non per lui. Sherlock era ciò che a John era sempre mancato, ciò che lo completava. Non esisteva un modo per spiegarlo chiaramente, non esisteva un modo per razionalizzarlo. Sapeva che era così e lo accettava. Accettava di amare un uomo che non avrebbe mai potuto incontrare davvero, si accontentava della sua presenza nella sua vita.

E con quello sfiorare aveva sperato di riuscire ad esprimere questo, dato che le parole non erano sufficienti. Non sarebbero mai state sufficienti per spiegare il suo cuore.

Ti amo, disse John in quel tocco, senza proferir parola.

Sherlock lo guardò semplicemente e i suoi occhi – e John sperò di non esserselo immaginato – sembrarono rispondere: anch'io.

Dopo quell'episodio, Sherlock era apparso sempre più stanco e vulnerabile e, la notte precedente, era sembrato anche spaventato.

Quel Moran...”, aveva detto “Mio fratello...

John aveva tentato di ricavare qualche altra parola, una spiegazione, ma non ci era riuscito. Avevano passato il tempo a guardare il cielo sopra di loro senza fiatare, le nuvole che scorrevano bianche nell'azzurro accecante.

Non esiste più l'azzurro, solo il grigio, John...

Era stata l'ultima frase che Sherlock aveva pronunciato, prima che qualcosa facesse svanire di colpo il sogno.

Quella notte, prima di appoggiare la testa sul cuscino, John ebbe paura. Dentro di sé sapeva che qualcosa era sul punto di cambiare completamente. E non per il meglio.

 

 

 

 

Atto Terzo: Ende

 
Scena Seconda

 

 

To die, to sleep.
To sleep, perchance to dream: aye, there's the rub,
For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause.

 

Sherlock camminava avanti e indietro per la stanza. La guardia che si occupava di suo fratello era venuto a chiamarlo alcuni minuti prima, interrompendo bruscamente il sogno che stava facendo accanto a John.

John.

Quell'uomo così distante, eppure così vicino era diventato un problema, ma un problema di cui non riusciva – e non voleva – in nessun modo liberarsi. John era diventato la sua ancora di salvezza dopo estenuanti giornate a discutere con Mycroft delle migliori strategie da adottare contro le scorribande sempre più intrusive all'interno del loro territorio, dopo estenuanti nottate a combattere contro mostri onirici sempre più potenti, sempre più perfetti. I sogni di John – con John, si correggeva, perché John esiste – erano il suo rifugio tra una notte e l'altra. E, per quanto rendessero palese la sua debolezza, per quanto lo rendessero umano, non voleva che finissero.

Quella sensazione di appartenenza che aveva percepito fin dall'inizio, si era andata chiarificando con il tempo e si era trasformata in un sentimento che, inizialmente, aveva fatto fatica a definire. Era qualcosa di caldo e avvolgente che gli aveva dato il sostegno necessario per attraversare le giornate infernali che si era trovato ad affrontare e che gli aveva fornito uno scopo in una vita che aveva quasi sempre considerato come necessaria, ma inutile. John era, in poche parole, diventato il suo centro, indispensabile.

Quando, un giorno, dopo che lui e John avevano fatto una lunghissima passeggiata nel bosco onirico – infatti si era impegnato fino allo sfinimento per rendere quei loro sogni privi di creature mostruose e il più stabili e lunghi possibile, era riuscito a dare finalmente un nome a quella sensazione sconosciuta e, al tempo stesso, completante. Era amore. Il che era incredibilmente ridicolo, se ci pensava. Lui che aveva sempre considerato l'amore come una debolezza delle menti deboli, lui che era persino giunto a considerarlo un difetto della razza umana, lui si era innamorato. Eppure non c'era alcuna altra spiegazione plausibile. Desiderava la compagnia di John, desiderava vederlo sorridere di quel sorriso sincero e fiducioso che solo lui aveva, desiderava che quei sogni non finissero mai.

Nei momenti in cui la logica riacquistava peso, però, si rendeva conto di quanto indugiare in quegli sprazzi di felicità momentanea fosse pericoloso e ricominciava ad auto-imporsi di lasciar perdere, fino al punto di tenersi apposta lontano da quei sogni, con uno sfiancante sforzo di volontà. Nonostante ciò, il giorno seguente vi si ritrovava coscientemente al loro interno ed era una sensazione talmente appagante che l'idea di volervisi tenere a distanza appariva folle.

Tutto quello che stava succedendo era inspiegabile e, in quanto tale, terribilmente attraente per Sherlock, ma al tempo stesso era naturale, come se lui e John fossero uniti da un filo invisibile e destinati ad incontrarsi lì, in quel preciso frangente della loro vita. Sherlock non riusciva a dare una spiegazione nemmeno a questo, ma – strano a dirsi – per la prima volta nella sua vita non gl'importava. L'importante era John.

Il problema, tuttavia, rimaneva. Non solo perché tutta la sua attenzione si riversava nei confronti di John e del suo meraviglioso mondo futuro – investigatore, si ripeteva, suona bene –  compromettendo così la sicurezza del suo villaggio; ma anche perché John rimaneva chiuso nel mondo dei sogni e lui aveva la netta sensazione che questi loro incontri non sarebbero durati a lungo.

Ed ora, trascinato alla dura realtà da una zelante guardia, ne era ormai sicuro. Suo fratello – così gli aveva comunicato l'uomo – si era svegliato nel bel mezzo della notte gridando e mormorando frasi sconnesse e ogni tentativo di riportarlo alla ragione era fallito. Ora giaceva inerme nel suo letto, lo sguardo vacuo rivolto verso il tetto di paglia. Quando Sherlock era giunto al suo capezzale, aveva immediatamente capito la gravità della situazione. Già il giorno prima Moran aveva attaccato con forza e lui era riuscito, a fatica, ad evitare che Mycroft venisse divorato dal suo stesso sogno. In seguito ad un attacco così potente, Sherlock aveva calcolato che lo Swefnesdræfend avrebbe avuto bisogno di un giorno di riposo. Si era sbagliato. Aveva sottovalutato il suo avversario e lui ne aveva approfittato in un modo che Sherlock non avrebbe mai, prima d'allora, creduto possibile: era riuscito – grazie alle sue arti – a far uscire di senno Mycroft solo attraverso i sogni. Non sapeva, ovviamente cosa gli avesse fatto apparire in sogno, ma doveva essere stato qualcosa che non avrebbe potuto fermare nemmeno lui. Marginarlo? Sì. Sconfiggerlo? No.

Ma se non fossi stato con John, forse sarei riuscito ad impedire che impazzisse completamente.

Il senso di colpa lo rodeva nell'anima. Suo fratello era, nonostante i loro dissapori, l'unica cosa che lo legava al suo presente e, sebbene detestasse il compito ingrato di Swefnesweriend, lo aveva accettato perché Mycroft potesse regnare senza troppe preoccupazioni. Ma più forte ancora del senso di colpa nei confronti del fratello, si faceva largo in lui la paura di perdere John. Perché ormai era inevitabile che le loro strade dovessero separarsi definitivamente. Sherlock doveva prendere il comando ed era certo che, dopo la disfatta del Walda, i guerrieri del villaggio non avrebbero accettato gli ordini di uno che consideravano, alla meno peggio, irritante. E Moriarty non avrebbe esitato a chiedere la sua testa.

Sacrificare John sarebbe stato ancora apparentemente semplice se, pochi giorni prima, non si fossero sfiorati e tutti i sentimenti dell'uomo non gli si fossero palesati. Non era un amore unilaterale, era reciproco.

Ed ora che lo so, come faccio a dirgli addio? Come posso lasciarlo soffrire per il resto della sua esistenza? Vorrei che fossi qui, John, vorrei che tu fossi reale in quest'epoca, vorrei abbracciarti e dire che andrà tutto bene. Ma tu sei più di mille anni distante da me e io non trovo soluzione. Io soffrirò poco la tua mancanza. La mia testa rotolerà ancor prima che io possa rendermene conto. Ma tu? Tu col tuo amore così sincero e lampante, come farai?

La guardia, che lo aveva lasciato solo nella stanza, tornò per annunciare che gli altri nobili del villaggio erano arrivati e pronti per cominciare il consiglio.

La notte successiva, Sherlock, ormai Walda eletto all'unanimità – se si escludeva il suo fermo rifiuto, si chiuse nella sua stanza e osservò il braciere spento e gli ultimi rametti di nocciolo appoggiati a lato. Vi era anche un ramo secco di agrifoglio. Lo aveva scelto un po' di tempo prima perché, dai suoi studi, era risultato che quella pianta era in grado di creare un ambiente onirico sufficientemente protetto. Nel caso Moran avesse intenzione di attaccarlo quella notte, avrebbe trovato una barriera abbastanza potente da fermarlo.

E così, pensò tristemente, potrò dare il mio addio a John.

Sherlock accese il braciere e vi gettò sopra il legno e l'agrifoglio, sentendoli sfrigolare al contatto con il carbone rimasto dalla sera precedente. Zampilli rossi illuminarono l'ambiente per alcuni minuti. Quando il fuoco si fu indebolito e il fumo biancastro cominciò a intersecarsi nella stanza, lo Swefnesweriend lo inalò con avidità, sapendo bene che quella sarebbe stata l'ultima volta. Al recitare la formula magica, la stanza scomparve e si ritrovò nel solito bosco, ma ricoperto di neve.

Effetto dell'agrifoglio, pensò.

John apparve qualche secondo dopo da dietro un albero. I loro occhi s'incontrarono istantaneamente, come se non stessero aspettando altro.

“Neve?”, chiese John.

“Già.”, rispose Sherlock, accennando un sorriso.

Aveva anche tentato di cambiare velocemente il suo aspetto esteriore, in modo da apparire più in salute di quello che era, ma non ci era riuscito. Anche l'idea di mentire a John, di dirgli che era tutto a posto e che si sarebbero rivisti il giorno seguente gli era balenata nella mente, ma l'aveva scacciata con forza. John non era uno stupido e avrebbe intuito tutto all'istante. E, poi, non poteva mentire a John. Era come tradirlo.

“È merito dell'agrifoglio.”, continuò, sperando inutilmente che tutto ciò che stava passando non trapelasse dalla sua espressione.

Ma era chiedere troppo. John lo notò non appena si avvicinò. Il sorriso che gli aveva illuminato il volto fino a quell'istante svanì, lasciando il posto ad un espressione preoccupata.

“Hai un aspetto orribile...”, disse quasi paternamente.

“Non è niente, davvero.”, mentì involontariamente.

“Non dire bugie, Sherlock. Ieri notte non hai parlato per tutto il tempo e si vedeva che c'era qualcosa che ti tormentava più profondamente del solito. E oggi sei conciato – se possibile – ancora peggio dei giorni scorsi, come se un fardello enorme si sia depositato sulle tue spalle. Sarò anche distante migliaia di anni, ma tutto il tuo aspetto non mente, Sherlock.”

Piccoli fiocchi di neve cominciarono a descrivere spirali nell'aria, spazzati da un leggero vento. Sherlock guardò verso il cielo bianco sopra di loro, poi indicò a John un masso sporgente dove potessero sedersi.

“Sono il nuovo Walda del villaggio, John.”, disse greve.

Il volto di John non nascose lo stupore.

“Il...”, balbettò “Walda? E tuo fra-”

“Mycroft non può più ricoprire la carica.”, tagliò corto, un nodo alla gola a ricordargli la sua mancanza.

“Non è colpa tua, Sherlock. Qualsiasi cosa sia successa, non è colpa tua.”, tentò di confortarlo John.

“Come puoi saperlo? Come puoi anche solo credere che non sia colpa mia, quando lo è?”, urlò disperato “Dovevo essere a proteggerlo e invece...ho sbagliato...tutto.”

“Allora è colpa mia, non tua. Sono io ad averti trattenuto.”

Ma Sherlock, per quanto arrabbiato fosse con se stesso, non poteva accettare che John si prendesse una colpa che non aveva. Anzi, se avesse potuto, gli avrebbe spiegato che era solo grazie a lui se era resistito fino a quel momento senza crollare sotto il peso della responsabilità, che era solo per lui che aveva continuato a svolgere il suo lavoro al meglio, solo per poterlo vedere. Ma le parole, in un qualche modo, non riuscivano ad uscire dalle labbra. Le aveva lì, ma tutto ciò che riusciva a fare era osservare John in quegli occhi azzurri, tanto simili e tanto diversi dai suoi, essendo a conoscenza che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe potuto vederli.

“Non è colpa tua.”, riuscì, infine, a dire “Non è mai stata, né mai sarà colpa tua, John. E non è colpa tua neanche quello che sta per succedere. Promettimi che non penserai mai e poi mai che sia colpa tua, va bene, John?”

John non disse nulla, ma gli occhi lasciarono trasparire un misto di tristezza e paura.

“John...”, tentò di proseguire, senza riuscirvi.

“È l'ultima volta, vero?”, chiese l'altro con la voce spezzata.

Sherlock annuì e distolse lo sguardo, due lacrime a rigargli le guance. La neve continuava a cadere sul terreno di fronte a lui, ma il freddo che provava era tutto all'interno del suo cuore. Per alcuni secondi non successe nulla, poi John richiamò la sua attenzione:

“Sherlock?”

A fatica si girò nuovamente verso di lui e si ritrovò il viso di John a pochi centimetri di distanza. Anche John aveva gli occhi lucidi e due gocce trasparenti tracciavano il contorno del volto. Piangeva.

“Sherlock...”, ripeté l'uomo, la voce piena di malinconica dolcezza.

Avrebbe dovuto dire qualcosa di saggio e consolarlo, ma tutto ciò che gli veniva in mente era ti amo, John, ti amo, ti amo, ti amo. Ma non era in grado neanche di pronunciare quelle parole, perché si sentiva morire dentro al pensiero che quella sarebbe stata la prima e unica – nonché ultima – volta che John le avrebbe udite dalla sua bocca. E non poteva lasciarlo con quella confessione, che era sempre stata sottintesa, ma mai palesata. Lo avrebbe distrutto.

Poi i centimetri che lo separavano da John scomparvero, perché John si era avvicinato fino a far combaciare le loro labbra. Lo stava baciando e, sebbene fosse un bacio a metà, data la loro incorporeità, con in quel contatto sentirono tutto ciò che entrambi provavano l'uno per l'altro, si dissero tutto quello che non avrebbero mai potuto dirsi, in una promessa di amore eterno. Ma Sherlock sentì qualcos'altro all'interno di quel bacio. Vi era un richiamo lontano a cui si aggrappò disperatamente con tutte le forze.

Mentre il sogno ormai si dissolveva intorno a loro, riuscì a dire a John:

“Aspettami.”

 

N.d.A.

 

Ende: sempre inglese antico, direi che qui il significato è piuttosto evidente: “Fine”.

“There are more things…your philosophy.”: citazione tratta da “Hamlet” di William Shakespeare, precisamente dall’atto I, scena 5. Il significato è (supremo Shakespeare perdona la mia barbara traduzione: “ Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quelle presenti (sognate) nella tua filosofia (nel tuo modo di pensare).” La conversazione avviene quando Amleto discorre con i suoi due amici e compagni di studi, Orazio e Marcello, quando questi si trovano di fronte al fantasma del padre di Amleto. Orazio, modello di razionalità, non concepisce l’apparizione del fantasma come reale, ma Amleto lo redarguisce dicendogli, per l’appunto, che esistono cose in questo mondo che non possono essere concepite razionalmente.

“To die, to sleep…Must give us pause.”: qui entriamo nel sacro letterario. Forse il monologo più famoso di tutta la letteratura inglese e non. Da “Hamlet” di William Shakespeare, il notorio “Essere o non essere”, atto III, scena 1. Se prima Shakespeare doveva perdonarmi, ora gli chiedo direttamente venia e mi prostro ai suoi piedi. Tradotto sarebbe: “Morire, dormire,/dormire, forse sognare: sì, ecco l’ostacolo,/perché in quel sonno di morte, che sogni potrebbero giungere,/quando ci siamo liberati di questo groviglio mortale,/deve farci fermare.” La spiegazione di tutto ciò che è implicato in queste poche parole è davvero immensa. In breve: Amleto ha scoperto che il padre è stato ucciso da suo zio che, in seguito, ne ha usurpato il trono sposando la madre di Amleto. Questa rivelazione lo ha lasciato sconvolto e, perciò, sta ponderando l’idea del suicidio, salvo temerlo allo stesso modo della vita stessa perché ha paura che neanche nel sonno eterno la sua anima troverà mai pace.

La scelta dell’agrifoglio: l’agrifoglio è un’altra delle piante considerate sacre dai celti. Essendo una pianta invernale, viene considerata particolarmente adatta a proteggere i guerrieri in battaglia e, spesso, le loro armi venivano create proprio con il suo legno. È anche conosciuta perché si riteneva che proteggesse dai fulmini e si appendevano i suoi rami sulle porte delle abitazioni proprio per questo motivo. Tuttavia, la scelta dell’agrifoglio non è casuale per un altro motivo. Il cognome “Holmes”, infatti, pare proprio che derivi dal nome di questa pianta in antico norreno/inglese antico, per l’appunto chiamata “holmr/holm”. Il nome attuale della pianta in inglese è “holly tree”.

  
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