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Autore: neverender    21/12/2014    1 recensioni
E' come quando sei piccolo e credi di essere pieno di potenzialità. Sai disegnare, sai colorare, sai correre e riesci a fare le addizioni ricevendo il massimo dei voti. Poi cresci e ti accorgi che le tue potenzialità sono rimaste le stesse. Che erano notevoli per un bambino, ma allarmanti per un adulto. E ti ritrovi di fronte a niente. La tua faccia è stranamente mutata e non sei nemmeno più carino.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si guardava allo specchio saltando sul letto. Guardava lo spazio che separava a intervalli regolari i suoi piedi dal materasso. Inebriava i momenti in cui si separava dalle coperte, dal pavimento, dal mondo intero; quei momenti in cui si trovava in quella regione di spazio in cui nulla di quello che conosceva aveva più senso. Ora capiva perchè da piccolo voleva fare l'astronauta. E scappare, e scappare, e scappare. Salire abbastanza da vedere tutti i tuoi problemi diventare esteticamente presentabili, adornati da quelle migliaia di luci dorate che non ti permettono nemmeno di capire dove si trovino esattamente. E scappare, e scappare, e scappare.

- Smettila di fare frastuono. E' arrivato tuo padre. -

Frank si voltò a guardare il bel viso di sua madre.

- Non è mio. Le persone non appartengono ad altre persone. -

Linda sospirò. - Scendi dal letto, tesoro. -

Cercò di liberarsi la mente, nel concentrarsi su ogni singolo passo che rintoccava sui gradini di legno. Sollevò lo sguardo e guardò stupefatto il nuovo taglio di capelli di sua madre.

- Che hai fatto ai capelli? - domandò, appoggiandosi al corrimano come un soldato ferito.

Sua madre smise di scendere le scale, guardando timidamente il figlio. - Li ho fatti di un tono più chiaro e li ho scalati... non ti piacciono? -

- No, ti stanno bene. - . Terminò le scale e rimase fermo a fissare la figura del padre seduta sul divano. Gli spezzava il cuore vedere come i suoi contorni erano separati dal salotto, dall'intera casa. E il nuovo taglio di capelli di sua madre lo riempiva di dolore, perchè non aveva più nessun uomo che la potesse baciare e dirle che era bellissima.

Per questo passava più tempo di quanto volesse con loro. Per quello fingeva di stare bene in loro presenza, cercava sempre di regalar loro una buona risata e di ridere delle loro battute anche se davvero non le capiva. Non poteva tollerare anche solo l'idea di ferirli più di quanto la vita avesse già fatto, regalando e poi strappando loro un intero matrimonio per nessuna vera ragione. Frank in un certo senso capiva che i divorzi fossero relativamente normali più o meno dagli anni Sessanta, però continuava a trovarli sconvolgenti. Tutti quei documenti firmati, la costruzione di una casa, tutti quei soldi, avere un figlio... non è come inciampare e ritrovarsi casualmente in una pozzanghera. E' vedere un intero progetto che hai costruito esplodere all'improvviso.

E l'appartamento triste in cui viveva suo padre era un pugno negli occhi e nel cuore e nello stomaco e gli faceva venire da piangere. Se avesse potuto duplicarsi senza essere eticamente discutibile per il resto del mondo l'avrebbe già fatto. Anzi, si sarebbe triplicato. Una parte sarebbe rimasta per sempre in cucina con la madre, ad aiutarla a preparare la tavola e lavare i piatti; un'altra avrebbe guardato tutte le partite di baseball che mandavano in tv con il padre; e quell'altra ancora avrebbe tremato tutto il tempo fra le braccia del ragazzo che amava. E non gli importava se un unico cervello avrebbe dovuto gestirle tutte e tre, l'avrebbe fatto al costo di avere una terribile emicrania cronica. Gli sarebbe andato bene.

Si inventò qualcosa per giustificare i lividi che suo padre aveva notato ingurgitando le orribili bistecche che quest'ultimo aveva tentato di cucinargli e accettò con un immenso sorriso dipinto sulle labbra l'invito a tornare a trovarlo venerdì sera, per l'ora di cena. Già si sentiva lo stomaco divincolarsi, anche se del resto era prevedibile considerando che aveva appena finito di mangiare una suola di scarpa. Tentò di non pensare al fatto che di solito il venerdì sera lo si passa a disfarsi con gli amici, però beh, ci pensò e una parte dentro di lui morì in quel granello di depressione che a volte lo sotterrava completamente e lo crocifiggeva al muro, in quel punto che fissava sempre quando non riusciva a dormire.

E quando ritornò a casa si sentì gelido.

- Tutto bene, tesoro? - gli chiese la madre, guardandolo dal divano con le sopracciglia sollevate.

- E' domenica. - le disse in un lieve sospiro. Credeva in Dio e non sapeva per quale motivo gli facesse ansia pensare che era il “settimensario” (era tutta colpa del suo amico Andrew se aveva imparato tutte quelle parole stupide) del giorno in cui aveva deciso di riposarsi. La religione in generale lo riempiva di inquietudine. Davvero non si spiegava il perchè. E poi detestava la domenica perchè il giorno dopo era lunedì e detestava anche la scuola.

Salì le scale e andò in camera sua. Si lasciò cadere sul letto e si infilò le cuffie alle orecchie con il cuore che galoppava e gli occhi pieni di lacrime. Ascoltò l'ultimo cd mai uscito dei Jawbreaker nell'attesa che sua madre si addormentasse, dopodiché si rollò due purini e finì di nuovo per piangere. Si sentiva così solo. Non era una condizione generale di solitudine, è che era l'unico nella stanza e non riusciva a distrarsi da se stesso e avrebbe voluto perlomeno uno dei suoi amici lì, così avrebbe riso senza pensare a nulla di specifico.

Si chinò sul letto e vide in lontananza una macchia nera nella rientranza del muro che incassava il termosifone sotto alla finestra. La fissò intensamente, chiedendosi se se la stesse immaginando, cosa fosse esattamente e se avrebbe dovuto urlare. Si avvicinò cautamente, sforzando gli occhi nel tentativo di contestualizzare quella strana chiazza. Una volta appurato che non si muoveva e che quindi non era composta da insetti, la sfiorò con le dita, macchiandole. Fuliggine. Non l'aveva mai notata prima di allora. Si chiese quante cose non avesse mai notato. Pensò di sentirsi come quella macchia. Era tremendamente nero e orrendo e nessuno nemmeno si accorgeva di lui. Le macchine rallentavano ed evitavano di investirlo, Gerard lo baciava e alcuni gli parlavano, ma nessuno comprendeva veramente che Frank esisteva.

Sognò di essere un fantasma. Di essere costretto a muoversi silenziosamente per la casa per non spaventare sua madre.


Riconobbe Andrew grazio allo zainetto di Hello Kitty che gli pendeva da una spalla. L'aveva rubato alla sua sorella minore quando questa aveva deciso di essere troppo “grande” per Hello Kitty, e da allora non aveva mai smesso di portarlo, soprattutto nelle occasioni che avrebbero potuto recare più imbarazzo in assoluto.

Nell'avvicinarsi si accorse che stava fumando erba.

- Che cazzo stai facendo? - chiese Frank con una risata, catturando gli occhi di Andrew.

- Colazione. - rispose con un sorriso infantile. I capelli spettinati castano chiaro parevano quasi biondi sotto la luce del sole, che rimbalzando a terra si proiettava sul suo viso annullando ogni possibilità di imperfezione. Aveva una pelle perfetta, labbra perfette, occhi perfetti e lineamenti in generale perfetti. Eppure, come Frank, era stranamente invisibile. O perlomeno, avrebbe meritato molta più considerazione di quella che il mondo gli riservava.

Gli chiese che gli era successo notando un livido sulla guancia e Frank disse di non ricordarselo. Con tutta la droga che si faceva Andrew, questo nemmeno se ne sorprese. Lo guardò con dispiacere, e Frank credette che ogni volta lo guardasse in maniera diversa.

Avanzarono per i corridoi, e Frank si sentì come un vero e proprio cadavere. Si sedette insieme ad Andrew in ultima fila e lo lasciò riposarsi sulla sua spalla per qualche minuto prima che entrambi intraprendessero la sottile arte di fingere di prestare attenzione al professore.

A volte Andrew sussurrava parolacce e gli scriveva qualcosa sul banco ridacchiando fra se e se. Poi Frank leggeva e sorrideva oppure si copriva la bocca per evitare di scoppiare a ridere.

Uscito da scuola si gettò fra le braccia di Gerard, come se si trattasse di buttarsi da un dirupo verso morte certa. Danzando in mezzo alle macchine si voltò fino a incontrare gli occhi limpidi di Andrew. E pensò che avesse capito.

Si guardava allo specchio saltando sul letto. Guardava lo spazio che separava a intervalli regolari i suoi piedi dal materasso. Inebriava i momenti in cui si separava dalle coperte, dal pavimento, dal mondo intero; quei momenti in cui si trovava in quella regione di spazio in cui nulla di quello che conosceva aveva più senso. Ora capiva perchè da piccolo voleva fare l'astronauta. E scappare, e scappare, e scappare. Salire abbastanza da vedere tutti i tuoi problemi diventare esteticamente presentabili, adornati da quelle migliaia di luci dorate che non ti permettono nemmeno di capire dove si trovino esattamente. E scappare, e scappare, e scappare.

   
 
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