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Autore: metaldolphin    23/12/2014    2 recensioni
Quando si lavora all'Istituto di Medicina Legale, bisogna avere sangue freddo e nervi saldi: io lo so bene, perchè è lì che mi sono presa la più grossa paura della mia vita...
Se volete seguirmi, vi racconto come è andata!
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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-Signorina! Signorina, si svegli!
La voce profonda del Dottor T. Law suonava dura, accompagnata da schiaffi leggeri al mio povero viso.
Aprii gli occhi e guardai il suo volto, serio come sempre, vicino al mio.
Ero sdraiata sul divanetto del suo ufficio attiguo alla sala autopsie e non riuscivo a mettere a fuoco quanto successo.
Poi mi tornò in mente lo sguardo improvviso di due gelide iridi chiare ed esclamai, ancora terrorizzata: -È uno zombie! Il morto sul tavolo si è svegliato!
Compresi quanto suonassero ridicole le mie parole mentre le pronunciavo e lo sguardo del mio superiore fece il resto.

Fui aspramente rimproverata per la mia evidente mancanza di professionalità: -Ma che zombie e zombie! Quell’uomo è un caso da manuale di morte apparente: l’ipotermia indotta dall’acqua gelida deve aver appiattito così tanto le sue funzioni vitali che quegli idioti di paramedici l’hanno dato per morto e spedito direttamente qui senza approfondire la ricerca di funzioni vitali. I tagli economici dell’ospedale pesano anche su questo, evidentemente.

Ammutolii, vergognandomi già abbastanza della figuraccia fatta.
Oltretutto mi doleva la testa dove l’avevo battuta e il pensiero che stavamo per incidere un poveretto ancora vivo mi dava la nausea. Per fortuna non gli avevo ancora infilato la sonda nel fegato per rilevarne la temperatura e calcolare l'ora del decesso.

Intanto Law si era accomodato alla sua scrivania e spulciava scartoffie.
Era giovane, ma aveva già un posto di rilievo all’interno dell’Istituto di medicina legale, anche se l’apice della sua carriera poteva considerarsi ancora discretamente lontana. Competente ed impassibile anche davanti agli imprevisti più strani come quello di poco prima, era permeato di un fascino particolare, sotto certi aspetti oscuro.
D’altro canto era impossibile restargli indifferenti: o lo si amava o lo si odiava, non c’erano vie di mezzo, quando si entrava in contatto con la sua persona.
Personalmente ancora non avevo capito che effetto mi facesse, ma lavoravo a stretto contatto con lui e il rapporto che ci univa era moderato da tutto ciò che dettava quel singolare posto di lavoro.

Un nuovo pensiero mi occupò la mente: -Dove l’hanno portato?- chiesi senza nascondere il mio interesse.
Mi guardò enigmatico, con un sopracciglio più alto dell’altro e pensai che non avrebbe soddisfatto la mia curiosità.
Però, poco dopo, decise di onorarmi della sua risposta: -Non è del tutto fuori pericolo, può darsi che ce lo riportino entro domani. Comunque l’équipe di primo soccorso che è intervenuta, portandolo via d’urgenza, è dell’ospedale vicino. Aveva chiare difficoltà respiratorie e non si escludono danni cerebrali. Se lei si sente meglio può anche riordinare la sala e tornare a casa, quel tizio era l’unico paziente per oggi.

Annuii e mi alzai.
Rimessi a posto i ferri per fortuna non utilizzati e i documenti, recuperai dall’armadietto borsa e giaccone, vi appesi il camice, quindi mi apprestai ad affrontare l’inverno che imperversava all’esterno.
Esitai un attimo davanti alla porta, quindi uscii in strada per fiondarmi in auto ed accendere i riscaldamenti al massimo.
Decisi di passare dall’ospedale e una volta arrivata al punto di informazione/ricezione, chiesi dello sconosciuto trasportato dal nostro Istituto poco più di un’oretta prima.
-Ma certo! Lo zombie dell’obitorio!- esclamò ridendo quello che etichettai immediatamente come deficiente. Però mi diede le informazioni che gli avevo chiesto ed affrettai il passo verso la meta indicata.

Il reparto di terapia intensiva era pressochè interdetto a chiunque, ma le scarse credenziali che il mio tesserino offriva furono sufficienti a farmi accedere in quel luogo in cui il silenzio era interrotto soltanto dal ticchettio dei macchinari.
Trovai la stanza che cercavo e ne aprii la porta.
Vedendolo mi sentii stringere lo stomaco.
Abbandonato sul lettino ed intubato, era circondato da numerosi aggeggi che ne monitoravano le funzioni vitali; quel poveretto, dato per morto fino a poco più di un’ora prima, lottava ancora per vivere.
E mi fece quasi più male vederlo in quelle condizioni, che mi suscitavano una struggente incertezza, che sul tavolo dell’obitorio, dove tutto almeno poteva dirsi compiuto.

Mi feci coraggio ed avanzai nella piccola camera anonima; non c’erano fiori o biglietti di pronta guarigione e mi chiesi ancora una volta se avesse una famiglia da avvisare.
Allungai una mano a stringere la sua che giaceva sul lenzuolo; aveva riacquistato calore e la cosa mi confortò.
Ricordai i suoi occhi chiari, nuovamente chiusi, che mi avevano fissato da quel tavolo d’acciaio: non ero riuscita a capire che cosa celassero e sperai di rivederli nuovamente, ma non accadde nulla.
Attesi qualche minuto, poi mi convinsi a tornare a casa, non potevo fare altro per lui.

Però mi salirono spontanee alle labbra poche parole che lo incoraggiassero a lottare, nella speranza che mi udisse: -Adesso devo andare. Combatti, sei forte e sono sicura che puoi farcela.
E quando allentai la presa sulla sua mano, fu lui a stringere la mia, d’improvviso, come se stesse aggrappandosi a qualcosa, mentre un ticchettio cambiava ritmo, tra i macchinari a cui era collegato, mentre anche il mio cuore accelerava nel petto.
 
   
 
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