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Autore: Akemichan    29/12/2014    2 recensioni
"Per gli Alleati e per la Germania, sarà il giorno più lungo." E. Rommel.
Il 6 Giugno 1944 è il giorno che ha cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale, permettendo agli alleati di sbarcare in Francia ed iniziare la controffensiva contro la Germania. Tuttavia, è stato anche il giorno che ha cambiato le sorti di molti soldati presenti, sia i morti e i sopravvissuti.
Come Sabo, nobile francese, che si è ritrovato a fare i conti fra il suo sogno, la sua famiglia e un paese invaso da liberare. Come Ace, che è diviso tra il desiderio di vendicare un fratello e il dovere di proteggere l'altro, senza dimenticare la promessa che ha fatto ad entrambi. E assieme a loro le storie delle persone che amano, dal fratellino Rufy con il sogno di diventare campione olimpico a tutte quelle persone che hanno caratterizzato la loro vita fino a quel fatale 6 Giugno.
Questa è la loro storia, la storia di tutti loro.
1° Classificata al Contest "Just let me cry" indetto da Starhunter
2° Classificata al Contest "AU Contest" indetto da Emmastar
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ace/Marco, Koala, Marco, Monkey D. Rufy, Sabo, Sabo/Koala, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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1932 - Parte II
 
 
Parigi, 20 Agosto
 
Al terzo colpo che avvertì contro la finestra, Sabo decise di alzarsi dal letto per andare a controllare, perché era evidente che non erano casuali. Affacciandosi, vide Ace per strada, appena riconoscibile alla luce del lampione acceso, la palla da baseball in mano.

Non si erano più visti dal giorno che chiamava “la tragedia della camera oscura” perché Sabo era stato messo in punizione e non era riuscito a sgattaiolare via per le strade di Parigi. Non poteva esprimere in toto la gioia che stava provando nel rivederlo. «Ciao!»

Ma Ace non era venuto per chiacchierare, anche se provava gli stessi sentimenti, per cui accennò appena un sorriso. «Hai per caso visto Rufy?»

«No... perché?» Era una domanda bizzarra. Sabo capì che doveva essere successo qualcosa, per cui aggiunse: «Aspetta, vengo giù». Chiuse la finestra e sgattaiolò al primo piano, nella cucina. La bambinaia probabilmente lo credeva già addormentato, per cui non stava controllando. Il portone era pesante, ma aveva imparato da anni dove fare leva per aprirlo.

«Cos'è successo?» domandò, una volta che ebbe fatto entrare Ace all'interno della hall.

«Rufy è scomparso!» Poi si accorse di essere sembrato un po' troppo preoccupato, e guardò appena sulla destra per cercare di spiegare meglio la situazione. «Da quando è successo tutto ha continuato a dire che doveva recuperare le Leica. Era fissato.»

«Si sente responsabile» dedusse Sabo. Sapeva già che la colpa era tutta da attribuire a Stelly, ma doveva ammettere che non riusciva a perdonare Rufy per aver dovuto per forza impicciarsi nei loro affari.

«Gli ho detto di lasciare perdere, che tanto non ci sarebbe mai riuscito, ma sai com'è, non dà mai retta. Ha iniziato ad andarsene in giro da solo, ma di solito tornava a casa almeno per la cena. Invece, stasera...»

«E tuo nonno?»

Ace alzò gli occhi al cielo. «Figurati! Secondo lui qualsiasi situazione può essere un allenamento per farci diventare futuri membri della marina, probabilmente si farebbe una risata e poi andrebbe a letto!» Sbuffò. «In ogni caso è coi tuoi a quella festa, quindi è inutile comunque.»

Sabo annuì. «Che cosa facciamo?» Per quanto Rufy fosse un seccatore, era comunque un bambino di sette anni, non era il caso di lasciarlo da solo per Parigi di notte.

«Ho pensato che forse Stelly potrebbe saperne qualcosa» disse Ace. «È stato lui a prendere le Leica, quindi magari sa anche dove è andato Rufy a cercarle.»

«Giusto!» applaudì Sabo. «Però non so quanto sia disposto a dircelo.» Stelly poteva essere piuttosto arrogante, per cui non era sicuro che il pericolo che Rufy avrebbe potuto correre sarebbe bastato.

«Se mi tieni occupata la tipa, ci penso io.» Era un bambino americano di dieci anni che viveva a Boston: sapeva come si facevano certe cose.

Sabo capì che intendeva la bambinaia. Annuì. «Lascia fare a me.» Mentre Ace si nascondeva in camera sua, lui si recò in uno dei due bagni, si rovesciò un po' di acqua in testa e poi iniziò a gridare, tenendosi le mani sulla pancia. Non appena la bambinaia ebbe accesso la luce del corridoio per controllare la situazione, Ace sgusciò fuori ed entrò nella stanza di Stelly.

Lo trovò che dormiva beatamente e, per svegliarlo, lo prese per un braccio e lo trascinò a terra. Mentre non si era ancora reso conto di quello che stava succedendo, Ace lo portò vicino alla finestra e la aprì, quindi lo gettò quasi al di fuori, tenendolo lui in equilibrio con la mano poggiata sulla schiena.

L'aria fresca e il vuoto svegliarono Stelly completamente. Agitò le braccia e le gambe ma non riuscì a liberarsi. «Mio padre te la farà pagare!»

«Se cadi da qui, tuo padre non saprà nemmeno a chi la deve far pagare» ribatté Ace, facendosi riconoscere. «Voglio sapere se hai parlato con Rufy e se sai dov'è.»

«Non ne ho idea! E ora lasciami andare!» Ace lo spinse ancora di più nel baratro. «Va bene! Va bene!» Stelly emise un sospiro di sollievo quando si sentì tirare un po' all'indietro.

«Dimmi tutto» gli intimò Ace.

«Voleva sapere dove avevo messo quei macchinari a cui tenete tanto. Li ho dati ad uno dei camerieri per un banco dei pegni così che mi portasse i soldi incassati.» Era chiaro che glielo stava spiegando con l'intenzione di ferirlo, ma al momento le Leica non erano nei pensieri di Ace, anche se non poteva negare che la cosa gli avesse dato fastidio. «Non so dove siano, ma quel bambinetto continuava a darmi fastidio, per cui gli ho detto che il banco dei pegni era da qualche parte nel quartiere di Montparnasse.»

Era tutto quello che ad Ace interessava sapere: Rufy era uno sconsiderato, di sicuro aveva pensato che bastasse girare a caso per ritrovare le macchine fotografiche. E poi doveva essere successo qualcosa, forse si era semplicemente perso perché le strade di quel quartiere non erano di facile memoria.

Abbandonò Stelly in malo modo contro il suo letto. Poteva anche chiamare aiuto, se voleva, ma Ace aveva saputo ciò che voleva e senza i suoi genitori in casa nessuno avrebbe potuto impedirgli di andare a cercare Rufy. Si nascose nuovamente in camera di Sabo, sotto il suo letto, finché questi non ebbe finito con la recita del mal di pancia e fino a che la bambinaia non lasciò la stanza.

Emerse da sotto, con Sabo che si era già liberato delle coperte che erano state così precisamente rimboccate. Gli sorrise: «Grande performance!».

Sabo ricambiò il sorriso. «Avrei potuto fare di meglio se avessi potuto prepararmi. So fingere anche il vomito, sai?»

Ace non aveva dubbi a proposito, ma rise comunque al pensiero. Poi si fece serio. «So dove potrebbe essere: Montparnasse. Vado a prenderlo.»

«E io vengo con te» replicò immediatamente Sabo, con un tono che non ammetteva repliche. Ed Ace non replicò, ma sorrise: non gliel'avrebbe chiesto, ma era felice che venisse con lui, non solo perché conosceva meglio la città ma anche perché gli mancava la sua compagnia.

Sabo si vestì in fretta, quindi entrambi sgusciarono fuori dal portone. Non potevano lasciarlo socchiuso, quindi era chiaro che alla fine qualcuno avrebbe scoperto la loro fuga quando avrebbe dovuto rientrare, ma se avessero trovato Rufy sano e salvo non sarebbe importato.

Montparnasse era molto diverso di notte da come si presentava di giorno, dovette riconoscere Ace. Quelle che normalmente erano delle strade trafficate ora erano deserte, e i palazzi avevamo assunto tutti un colorito scuro che li rendeva irriconoscibili l'uno dell'altro. Le uniche botteghe ancora aperte erano alcuni bar, ma le porte erano chiuse dando l'impressione che si facessero al suo interno cose che non potevano essere viste dai passanti occasionali.

Non aveva paura, questo no. Ma stava comunque attento a dove metteva i piedi nell'acciottolato appena illuminato. Sabo camminava più sicuro di lui, d'altronde conosceva quei vicoli talmente bene da non aver bisogno della luce del giorno per riconoscerli. Dopo una serie di svolte che sembravano farli entrare sempre maggiormente nel quartiere ma che invece li riportarono al punto di partenza, fu chiaro che non aveva senso semplicemente camminare nella speranza di incappare in Rufy per caso.

Sabo guardò l'altro. «Forse dovremo chiedere aiuto ai gendarmi.»

«No!» replicò immediatamente Ace, probabilmente con un po' troppa veemenza. «No...» ripeté, per calmarsi. «Non mi fido di loro» spiegò in maniera vaga.

«Va bene.» Sabo lo stava guardando incuriosito, ma non chiese nulla. Se non voleva dirglielo, voleva dire che non era pronto a farlo. Gli dispiaceva, ma non l'avrebbe pressato. Si voltò verso il bar aperto più vicino ed entrò.

Vi erano presenti solo adulti, intenti a chiacchierare o a bere. Dall'altra stanza provenivano altri rumori, ma non indagarono su cosa si trattava. Sabo si rivolse invece ad una donna appoggiata contro il bancone. «Scusi...» mormorò, per attirare la sua attenzione.

In tutta risposta, lei incrociò le gambe, rivelando ancora più pelle grazie alla sua gonna corta di Coco Chanel, e fissò entrambi. «Non è tardi per i bambini? I vostri genitori sono qui?»

«Ha visto un bambino più piccolo di noi?» Ace ignorò la domanda e andò dritto al punto. «Magrolino, con una cicatrice sotto l'occhio sinistro e un cappello di paglia.»

«Uhm...» La donna ci pensò per un attimo, quindi si voltò verso il bancone. «Blueno!» chiamò.

L'uomo al balcone la raggiunse immediatamente. «Che c'è, Califa?» Lei gli ripeté la domanda che le avevano rivolto. «No, non credo proprio» rispose Blueno dopo averci pensato un attimo. «Si è perso? Forse dovremmo chiamare la polizia...»

A quel punto Sabo ed Ace avevano già lasciato il locale. Avevano deciso di non fidarsi dei gendarmi e di continuare le ricerche per conto loro, quindi se n'erano andati in fretta. Nei bar successivi, stettero ben attenti a rivolgersi solo alle persone che erano troppo impegnate per aver tempo di pensare che non era normale per due bambini muoversi da soli a quell'ora di notte. Non ebbero comunque fortuna nelle risposte rapide e seccate che queste persone rivolgevano loro prima di tornare alle loro attività.
Non potevano darsi per vinti e, sebbene non l'avessero concordato, sapevano entrambi che avrebbero girato ogni singolo bar e ogni singolo vicolo di Montparnasse finché non avessero trovato Rufy. Sabo iniziò a pensare che Stelly poteva anche aver mentito, ma la realtà era che non avevano altri indizi a cui aggrapparsi e girare, anche se a vuoto, li faceva sentire utili.

«Guarda!» esclamò ad un certo punto Ace, allungando un dito in avanti.

La visibilità non era buona, ma la luce del bar dalla quale era appena uscito mostrava chiaramente un cappello di paglia sulla testa dell'uomo. Ovviamente, se avessero saputo che quell'uomo li stava seguendo dal primo bar in cui erano entrati e che la sua uscita mentre passavano non era casuale, avrebbero evitato di correre nella sua direzione e seguirlo in un vicolo. Ma non lo sapevano e si accorsero dell'errore solo quando si trovarono le strade bloccate da un gruppo di uomini.

«Quello è il cappello di mio fratello» affermò Ace, che aveva intenzione di comportarsi come se quella situazione non fosse affatto a loro sfavore. «Dov'è?»

«Questo?» domandò noncurante l'uomo, toccandolo appena con la punta delle dita. Poi tornò a fissarli. «Io non capivo nulla di quello che diceva, ma il capo aveva ragione a dire che ci avrebbe portato fortuna.»

«È per questo che lui è il capo e non tu, Porshemy!» lo prese in giro un altro degli uomini, che si erano fatti sempre più vicini.

«Ridammelo!» esclamò allora Ace, a cui era ormai chiaro che la scomparsa di Rufy non aveva nulla a che fare con la sua sbadataggine. Si gettò in avanti con un salto nel tentativo di buttare a terra Porshemy, ma venne intercettato ed afferrato per un braccio da un altro uomo al suo fianco. Allora lo morse ed una volta di nuovo libero tentò con un calcio alle gambe di atterrarlo, ma senza successo.

Sapeva di essere forte per la sua età, ma non aveva avuto molte occasioni di battersi con adulti, per di più in gruppo. Sabo lo afferrò per il braccio e gli disse, in americano: «Andiamo via!».

«Hanno Rufy!» ribatté Ace, liberandosi anche dalla sua presa. Nel mentre, fece un passo indietro e due uomini lo afferrarono per le spalle, immobilizzandolo.

«Lascialo andare!» esclamò Sabo. Si gettò contro le braccia di uno degli uomini, ma questo permise ad altri due uomini di afferrare anche lui e premergli forte la mano sulla bocca. Tentò di morderla, ed in cambio ricevette uno schiaffo che gli fece sanguinare il labbro.

«Basta così, non rovinatemeli, o il signor Bluejam se la prenderà con me» disse Porshemy. «Volete il proprietario di questo, no?» disse, toccando il cappello di paglia. «Allora venite con noi.»

Sabo ed Ace si guardarono. Entrambi sapevano che la cosa migliore sarebbe stata cercare di scappare alla prima occasione e più aspettavano meno ne avrebbero avute, ma dovevano trovare Rufy e quella era l'unica possibilità che gli si era presentata fino a quel momento.

Porshemy conosceva Montparnasse decisamente meglio di quanto non lo conoscesse Sabo, perché prese alcune strade che lui non aveva mai visto, anche se poteva essere la notte che lo ingannava. La casa in cui entrarono non si trovava nelle strade principali ma sembrava più un fondo commerciale che un appartamento vero e proprio. Ace e Sabo furono lasciati solo quando venne raggiunto lo studio e la luce accesa quasi li accecò.

Ci misero un po' a mettere a fuoco la situazione e l'uomo che stava seduto dietro la scrivania. Il signor Bluejam invece li aveva già osservati bene per sapere che la sua intuizione si era rivelata corretta.

«Il primogenito degli Outlook, vero?» Sabo sgranò gli occhi: non gli era mai capitato di essere additato con un membro della nobiltà al di fuori delle conoscenze di suo padre, soprattutto nelle sue scorribande per Parigi. La sua espressione fece scoppiare a ridere Bluejam. «Davvero pensavi che non se ne sarebbe mai accorto nessuno?»

«Che cosa vuoi?» domandò allora Sabo, in tono duro. Non voleva utilizzare il nome di suo padre per uscire da quella situazione, perché non condivideva la sua ideologia, ma sperava che quell'uomo fosse abbastanza intelligente da capire che non era il caso di sfidare qualcuno della nobiltà.

«Dov'è Rufy?» chiese invece Ace, che stava occhieggiando gli uomini dietro di loro che bloccavano l'unica via d'uscita.

«Rufy...? Vuoi dire quel ragazzino che non parla francese? È stata dura capire cosa volesse.» Bluejam si voltò, aprì lo sportello di una credenza e poi posò sulla scrivania due macchine fotografiche: le loro due Leica. «Voleva queste. Vedo che le conoscete» aggiunse, osservando le loro espressioni. «Io invece conosco voi. È abbastanza facile risalire all'identità di un americano, anche se parla una lingua incomprensibile. E quando ho saputo chi era, ho pensato di aver avuto fortuna.» Si voltò e rimise le macchine fotografiche dove le aveva prese. «Ma non immaginavo così tanta. Insomma, ero convinto che sareste usciti da soli di giorno, invece ci avete facilitato il lavoro!»

Ace strinse i pugni: si sentiva un idiota per essersi gettato in quella situazione, ma ancora di più non tollerava che Rufy fosse finito nei guai per cercare di fare un favore a loro. «Dov'è mio fratello?!» gridò. Non aveva interesse ad ascoltare ancora quell'uomo vantarsi di averli messi nel sacco.

Bluejam sorrise e fece un cenno con la mano ai suoi uomini. Porshemy li afferrò per il braccio e li trascinò via incurante delle loro proteste, e poi li lanciò giù per le scale di un seminterrato. Prima di chiudere la porta alle loro spalle gettò verso di loro anche il cappello di paglia.

«Maledetti bastardi!» sbottò Ace, tenendosi il gomito dolorante per la botta presa rotolando per le scale.

«Oh!» esclamò invece Sabo, che aveva immediatamente dato un'occhiata nella stanza per vedere una via d'uscita. Un attimo dopo, infatti, furono entrambi gettati nuovamente a terra, questa volta da un Rufy piagnucolante che li stava abbracciando in maniera un po' troppo entusiasta.

«Brutto idiota!» esclamò Ace togliendoselo di dosso. «Cosa ti è saltato in mente? Hai visto in che guaio ti sei cacciato?»

Rufy lo fissò con le lacrime agli occhi, per cui Sabo intervenne: «Non essere così duro, stava cercando di farci un favore».

«Anche peggio!» ribatté Ace. Poi si addolcì un attimo, vedendo Sabo che gli controllava le ferite. Fortunatamente apparivano solo come graffi, nulla di serio. «Voglio dire, la Leica non era poi più importante di altro, ecco...» Prese il cappello di paglia da terra e glielo passò.

Rufy tirò sul col naso, poi se lo mise in testa. «Mi dispiace...»

«Be', non è che ora possiamo farci molto» terminò, imbarazzato. «Pensiamo a come uscire da qui.»

Sabo si guardò intorno: si trovavano probabilmente sotto il livello stradale, dato che lo studio era al piano terra, ma la stanza era completamente vuota. «Abbiamo qualcosa di utile in tasca?»

La risposta fu negativa: Ace aveva solamente la sua palla da baseball e Rufy una scatola di fiammiferi, che aveva rubato una volta in un bar sperando di imitare i due ragazzi più grandi. «Potremo dare fuoco a qualcosa» propose Ace.

«Non c'è combustibile a parte i nostri vestiti» rispose Sabo. «E rischieremo di morire soffocati prima che si accorgano dell'incendio» aggiunse, facendo rabbrividire Rufy. «Non ci resta che provare da quella finestra» sospirò ancora, indicando una piccola apertura rettangolare al confine col soffitto.

«Io non ci passo, è troppo piccola» affermò Ace.

«Nemmeno io» replicò Sabo. «Però Rufy sì, e se saliamo uno sulle spalle dell'altro dovremo riuscire a raggiungerla.»

«Non credo che sia una buona idea, insomma...» Non voleva dare dell'incapace al fratello, ma non sapeva né il francese né orientarsi per i vicoli. «E poi, una volta fuori, cosa potrebbe fare?»

«Chiamare aiuto. Se gli insegniamo un paio di parole, dovrebbe essere abbastanza per un gendarme.» Pronunciò quest'ultima parola con prudenza, perché Ace aveva messo ben in chiaro che non apprezzava la scelta. «O tuo nonno» aggiunse, nel tentativo di trovare un'altra soluzione.

«Nah, quello direbbe che la dobbiamo cavare da soli!» commentò, ricordando i duri allenamenti a cui erano stati sottoposti a Boston. «E poi è ad una festa assieme ai tuoi genitori, ricordi?»

«Già, è vero. Il palazzo è troppo lontano, non si può raggiungere a piedi in fretta e comunque non saprei come spiegargli la strada da qui» rispose Sabo. «E vale lo stesso per casa mia, dalla bambinaia.»

«Posso farcela!» esclamò Rufy. La sua voce suonava più convincente del suo corpo, ma era effettivamente l'unica possibilità ed era chiaro che voleva rimediare per quanto poteva, dato che fino a quel momento ogni cosa che aveva fatto per diventare loro amico si era risolta in un disastro.

«Pare che non abbiamo molta scelta...» Ace non era decisamente convinto, né del fatto che avrebbero messo Rufy in pericolo, né del fatto che dovevano contare su di lui. Gli schiaffò la palla da baseball in mano. «Vedi di riportarmela!»

«Contiamo su di te» gli disse Sabo.

Sabo rifletté a lungo su come fare esattamente per far in modo che Rufy riuscisse a trovare un poliziotto, fargli capire la situazione e condurlo a loro. Per prima cosa, gli insegnò le parole francesi “aide” e “saisie”, che stavano per “aiuto” e “rapimento”, nella speranza che bastassero ad insospettire qualcuno.

La pronuncia di Rufy non era esattamente delle migliori, ma non potevano perdere troppo tempo in una completa lezione di francese, anche perché riuscire a farlo uscire dalla finestra impiegò una buona dose di impegno e di tempo. Rufy temette di rimanere incastrato tra i due infissi, ma strusciando con forza riuscì a passare. Aveva graffi anche in posti che non pensava di avere e gli bruciavano, ma strinse i denti per resistere.

Sentì Sabo ed Ace dargli le ultime indicazioni ed ascoltò con attenzione per non commettere errori, quindi annuì e sgusciò via. Come gli era stato detto, prese le strade che individuava come più luminose, finché non raggiunse una delle principali. A quel punto seguì la strada luminosa cercando di individuare l'insegna dei gendarmi che Sabo gli aveva descritto.

La trovò all'incrocio successivo e, seduto sulla soglia, vi era un poliziotto dall'espressione burbera che fumava due sigari. Rufy aveva già scordato le parole in francese che gli erano state insegnate, quindi parlò in americano: «La prego signore, ci hanno rapito, deve venire a salvare i miei amici!». Le prime due volte fu cacciato via in malo modo, ma la sua insistenza fece capire che poteva effettivamente esserci qualcosa sotto.

«Tashigi!»

Una giovane donna emerse dalla porta a fianco a dove l'uomo fumava beatamente. «Cosa succede, signor Smoker?»

«Questo bambino vuole qualcosa, ma mi è incomprensibile. Forse è inglese.»

«La prego, signorina, mi aiuti!»

Lei inforcò gli occhiali per guardarlo meglio. «Non credo che sia inglese, l'accento mi sembra americano.»

«Oh, fantastico, un piccolo yankee

«Ti sei perso?» gli domandò Tashigi, chinandosi verso di lui. «Dove sono i tuoi genitori?»

«Non mi sono perso, ho bisogno d'aiuto!» E cercò di prendere per mano l'uomo per trascinarlo con sé, inutilmente perché era pesante come una roccia e non si muoveva.

«Non puoi andare a svegliare Kuzan? Lui sa l'inglese» disse Smoker. «Scommetto che sta di nuovo dormendo in guardina.»

«Infatti. Lo vado a chiamare...» Il tono era incerto, perché non le faceva piacere svegliare un superiore, anche se su ordine del suo capo. «Ehi, piccolo!» esclamò poi, notando che il bambino aveva smesso di tentare di parlare con loro e stava scappando.

«Accidenti!» sbottò Smoker. Ora doveva spegnere i sigari e rincorrerlo, perché non poteva certo lasciare un bambino di notte in giro per Parigi.

Rufy non aveva mai avuto molta pazienza, e, quando aveva visto che nessuno lo capiva o faceva lo sforzo di ascoltarlo, aveva pensato che non avesse altra alternativa che salvare gli altri da solo. Aveva seguito il consiglio di Sabo di gettare un fiammifero ad ogni angolo di strada che svoltava, per cui nonostante il suo scarso senso dell'orientamento riuscì a tornare indietro, ma una volta davanti alla porta dei rapitori, si rese conto di non avere idea di cosa avrebbe potuto fare.

Fissò ciò che aveva con sé: una palla da baseball e due fiammiferi rimasti. Forse avrebbe potuto accendere una fiamma, ma con cosa? Era stata un'idea scartata anche perché non avevano nulla a cui dare fuoco. Si strinse nelle spalle: aveva freddo e si sentiva scoraggiato, ma non poteva darsi per vinto.

In quel momento, si ricordò che aveva qualcosa che poteva incendiare: i suoi vestiti. Si tolse la maglia e la avvolse attorno alla palla da baseball, poi diede fuoco al fiammifero. La prima volta non ci riuscì, ma la seconda un lembo del vestito si accese. Aspettò che il malloppo si fosse acceso abbastanza, poi lo prese e pur bruciandosi, lo lanciò contro la finestra, infrangendola e gettando la fiamma all'interno.

Se fosse scoppiato un incendio, i poliziotti l'avrebbero notato e sarebbero corsi nella strada e forse avrebbero indagato meglio. Avrebbe anche potuto mostrare loro la stanza dov'erano rinchiusi. Ma dall'appartamento non si stava sviluppando alcun fuoco, usciva solamente un sottile filo di fumo che andava sparendo nella notte.

La porta d'ingresso si aprì e ne comparve Porshemy. «Tu» disse, riconoscendo Rufy. «Che cos'hai fatto? Come hai fatto a scappare?»

Rufy lo fissò terrorizzato: anche l'ultimo filo di fumo era scomparso e non c'era nessuno in vista. Si voltò e fece per scappare, ma Polshemy si gettò su di lui e lo afferrò per un braccio. Rufy glielo morse, tenendo fermi i denti sul suo braccio. Polshemy lo agitò fino a scrollarselo di dosso e lanciarlo contro il muro. Rufy si alzò con il naso che gli colava e si sentì afferrare nuovamente, stavolta per il collo. «Lasciami!» gridò, agitandosi.

Il suo desiderio fu esaurito, perché si sentì cadere a terra e riuscì appena in tempo a mettere le mani in avanti per attutire la caduta. Si voltò in tempo per vedere Smoker che stringeva Polshemy contro il muro. «Adesso ci mettiamo anche a picchiare bambini?»

La porta dell'appartamento era ancora aperta, era un'occasione. Rufy si rialzò e corse dentro. Il mucchio nero dei suoi vestiti giaceva spento accanto alla finestra, tra i vetri rotti. Li superò senza nemmeno tentare di evitarli e si gettò contro la porta, sbattendoci i pugni sopra.

Smoker aveva ammanettato Porshemy e l'aveva lasciato sotto il controllo di Tashigi, quindi aveva seguito Rufy all'interno. Le sue orecchie erano buone abbastanza da sentire delle voci che provenivano dall'interno della porta, quindi si avvicinò e fece segno a Rufy di allontanarsi. Lui lo guardò, poi annuì e si spostò.

«Fate attenzione!» gridò Smoker verso la porta, poi l'abbatté con una spallata. «Oh, grandioso, altri mocciosi» commentò poi quando Sabo ed Ace balzarono fuori, metà rassicurati e metà sorpresi per tutta la confusione che si era creata. «State bene?» gli domandò poi, osservando il gomito gonfio di Ace.

Sabo annuì, poi si presentò. «Siamo stati rapiti!»

«L'avevo capito» annuì Smoker.

L'intera confusione creata aveva svegliato anche Bluejam, che emerse dalla sua stanza da letto ancora con indosso il pigiama. La prima cosa che notò fu la porta aperta e la presenza di Smoker, per cui si mise a sbraitare. «È un abuso, non potete entrare così in casa d'altri!» Poi notò i tre bambini e si rese conto che difficilmente avrebbe potuto negare una cosa del genere, quindi cercò di darsi alla fuga verso la porta aperta, ma sbatté contro un uomo alto che stava entrando e venne ribattuto all'indietro.

«Alla buonora» commentò Smoker, seccato.

Kuzan non fece nemmeno segno di chiedere scusa per i suoi pisolini. «Che abbiamo qua? Dimmi che è la volta buona che riusciamo ad arrestarlo.»

«Direi di sì. Rapimento di minori» rispose Smoker indicando i tre bambini che erano ancora fermi dietro di lui.

«Allora mi tocca lavorare» commentò Kuzan con un sospiro. Afferrò Bluejam per un braccio mentre estraeva le manette. Una volta che l'ebbe accompagnato fuori a far coppia con il suo tirapiedi, Tashigi entrò per esaminare la situazione. Non appena vide i bambini, si diresse verso di loro per controllare che stessero bene.

Ace aveva dato la maglia a Rufy e come conseguenza era rimasto scoperto lui, per cui Tashigi gli passò la sua giacca. Poi controllò il suo gomito e il viso di Rufy: il naso aveva smesso di sanguinare ma stava comparendo un livido su una guancia. Anche il labbro di Sabo si era leggermente gonfiato.

«Credo sia meglio portarli all'ospedale, per assicurarsi che stiano bene» affermò. Non parevano ferite gravi, però non aveva dietro strumenti per il pronto soccorso e voleva comunque che fossero medicati.

«Concordo» disse Smoker. «Accompagnaceli tu e già che ci sei avverti anche i genitori.» Lui preferiva stare il più alla larga possibile dalle polemiche, per cui colse la palla al balzo di affidare il lavoro a lei, che comunque se la cavava meglio con i bambini. «Kuzan e io torniamo in centrale per il rapporto.»

«Va bene» annuì Tashigi. «Ce la fate a camminare dietro di me?» Tutti e tre annuirono, ma Rufy sembrava molto stanco, per cui lei lo prese in braccio comunque.

Smoker lo fissò. Fece una smorfia, poi allungò con prudenza la mano per dare una carezza in testa a Rufy, che singhiozzava.  «Sei stato molto coraggioso» gli disse. «Ottimo lavoro, ma la prossima volta aspettami.» Rufy annuì appena, anche se non aveva capito nulla di quello che gli era stato detto.

Tashigi sorrise soddisfatta e lasciò l'appartamento in direzione dell'ospedale. In realtà, Ace avrebbe voluto protestare e tornare immediatamente alla stanza d'albergo, ma il gomito gli faceva davvero male e anche i graffi di Rufy necessitavano di un controllo. E magari il padre di Sabo sarebbe stato più comprensivo se li avesse visti fasciati e feriti.

Quando Tashigi fece sedere Rufy sulla sedia del pronto soccorso per andare a chiamare uno dei medici, lasciandoli per un attimo da soli, Ace gli si avvicinò e disse: «Non so cos'hai combinato, ma grazie». Il piano non pareva essere andato esattamente come previsto e immaginava che non avrebbe più rivisto la sua palla da baseball, ma stavano tutti bene e gli bastava.

«Davvero, ben fatto» confermò Sabo con un sorriso.

Rufy era al settimo cielo, e li prese entrambi per mano.


 
Parigi, 21 Agosto
 
Il rapimento ebbe delle conseguenze per la maggior parte positive. Outlook fu troppo preoccupato ad arrabbiarsi con la banda di Bluejam per aver solo pensato di potergli chiedere un riscatto per prendersela con il figlio che aveva totalmente disubbidito all'ordine di parlare con Ace e per di più aveva lasciato la casa in piena notte. Anzi, aveva deciso di rivedere la sua posizione precedente, per cui le due famiglie stavano facendo colazione assieme quella domenica.

Ace non poteva essere più soddisfatto: stava di nuovo assieme a Sabo e avevano avuto indietro le macchine fotografiche. Non avevano più una camera oscura, ma sapevano entrambi che difficilmente Stelly sarebbe tornato a vendicarsi: aveva troppo paura che suo padre scoprisse che erano state le sue azioni a portare all'iniziale rapimento di Rufy.

Il quale, dovette ammettere Ace, era il vero eroe della giornata. Era stato stupido e imprudente e s'era ficcato nei guai, ma era davvero riuscito a ritrovare dove le macchine fotografiche erano state vendute e a chiamare aiuto per salvarli. Sabo la pensava nella medesima maniera.

Così, quando lasciarono il tavolo da colazione con l'intenzione di andare sulla Senna a scattare qualche fotografia, entrambi si voltarono verso Rufy senza nemmeno doversi consultare: «Vieni?».

Rufy, che non se lo aspettava, sgranò gli occhi. Poi sorrise, si infilò l'enorme pezzo di pane col burro in bocca e saltò immediatamente giù dalla sedia per seguirli. Outlook si limitò ad alzare lo sguardo e scrutare la bambinaia, che in un attimo fu in piedi presso i tre bambini.

Averla dietro era una seccatura, ma se parlavano in inglese lei non li avrebbe capiti, per cui avrebbero potuto progettare una fuga, se avessero voluto. Ma non volevano, per una volta avrebbero potuto semplicemente giocare sulla riva. Sentivano di aver bisogno di riposo. Ciò non significava che non avrebbero parlato in inglese, anche solo per darle l'idea di star progettando qualcosa.

«Allora... Come mai vuoi diventare un pugile?» domandò Sabo a Rufy. «Ha qualcosa a che fare con il cappello?»

«Ho fatto una promessa a Shanks che me l'ha regalato» annuì Rufy. «Diventerò il miglior pugile che si sia mai visto e vincerò un sacco di Olimpiadi e tornei.»

«Shanks era un pugile, secoli fa» spiegò Ace. «Ha perso un braccio in un incidente e si è ritirato. Non mi hai mai detto di averlo conosciuto» aggiunse, con un tono di voce strano. Non sapeva se essere più offeso o più stupito.

«Be', non è che tu mi abbia mai considerato molto.» Era una frecciata involontaria da parte di Rufy, anche perché era vera, per cui Ace girò lo sguardo verso la Senna e fece finta di nulla. «Shanks ha perso il braccio per colpa mia» continuò lui. «Voglio diventare forte tanto e più di lui.»

I due bambini più grandi si fissarono, poi guardarono Rufy: l'avevano sempre visto come un seccatore e uno stupido, e si trovavano a scoprire che c'era molto di più sotto.

Rufy non sembrava avere risentimenti, era soddisfatto di essere finalmente in giro con loro e ciò gli bastava. «Quando vincerò le Olimpiadi, farete una foto anche a me?» domandò. Ed Ace capì perché trovata tanto difficile avere a che fare con lui, era una persona che parlava con il cuore e sembrava non avere esitazioni.

«Quando vincerai le Olimpiadi, sarò un fotografo così famoso che sarai tu ad essere onorato e non il contrario» rispose allora, sorridendo.

«Ma io sarò ancora più famoso di lui» intervenne Sabo, con lo stesso ghigno sul volto. «E dovrai aspettare prima di avere una foto da me!»

«Ti piacerebbe!» ribatté Ace e gli diede un pugno sul braccio. «Non pensare di aver vantaggio su di me perché hai più esperienza.»

«Mi dispiace davvero per quello che è successo» disse allora Rufy, perché la risposta gli aveva fatto venire in mente ciò che era successo con la camera oscura.

Sabo agitò la mano noncurante. «L'ho capito che è stata tutta colpa di Stelly, lasciamo perdere.»

«Non capisco come possa essere tuo fratello» commentò allora Rufy. «Vorrei che avessi un fratello come ho io.» Per una volta, Ace non lo corresse con la solita frase “non siamo davvero fratelli”. Alla fine, per un complimento che non si aspettava.

«Oh, credimi, vorrei che Sabo fosse mio fratello» fu l'unica cosa che commentò.

«Anche io!» aggiunse immediatamente Rufy.

«Grazie» mormorò allora Sabo, gli occhi fissi sull'erba ingiallita del prato. «Peccato che non sia possibile, ma grazie. Piacerebbe anche a me.»

«Perché non è possibile? Siamo tutti d'accordo, quindi è deciso!»

«Non è così semplice, non puoi decidere per conto tuo, stupido!» Ace tirò a Rufy un piccolo schiaffo sulla nuca.

«Chi hai chiamato stupido?!»

Sabo non interruppe il loro litigio, perché stava riflettendo con il pollice appoggiato sul mento. «Forse lo è» mormorò infine, attirando l'attenzione degli altri due. Si morse il dito fino a farselo sanguinare, quindi lo allungò nella loro direzione. «Possiamo fare un patto di sangue e giurare che da questo momento in poi ci considereremo fratelli a dispetto di tutto.»

Ace ricambiò il sorriso, quindi imitò il suo gesto e poi pose il polpastrello su quello dell'altro. Rufy li fissò, poi fissò il suo pollice. Ci mise un'eternità a metterselo in bocca, ma gli altri lo stavano aspettando. «Ahia, che male!» gridò dopo aver affondato i denti, ma sentì il sapore del sangue e si affrettò a poggiare il dito assieme a quello degli altri.

«Da questo momento in poi... siamo fratelli!» annunciò Ace.

«E quando vincerò le Olimpiadi e voi sarete fotografi famosi dovrete assolutamente venire a farmi una foto, promesso!» aggiunse Rufy.

«Allora vedi d'impegnarti, perché così mingherlino non ti vedo bene» ribatté Sabo, per il gusto di farlo arrabbiare.

Il sangue gli era colato dalle dita, si era mescolato a quello degli altri due ed era gocciolato sull'erba.

Sarebbe stato bello se quello fosse stato l'unico sangue versato sul suolo di Francia.

 
To be continued...
 
***
 
Akemichan parla senza coerenza:

Questa è la seconda parte del prologo, è venuto troppo lungo per cui ho dovuto dividerlo in due. Ovviamente ho voluto riportare il canon della storia dei due fratelli nella mia storia per indicare come anche qui abbiano questo particolare tipo di legame ma, per ovvi motivi di contesto storico, ho evitato l'utilizzo del bere saké che è una cosa tipicamente giapponese. Il sistema che ho trovato m'ha comunque soddisfatto perché penso che si adatti bene anche al contesto di guerra in cui la mia storia si inserisce.
Grazie, come al solito, a tutti quelli che l'hanno letta e apprezzata :) Presumo che continuerò ad aggiornare ogni due settimane, come in questo caso.
   
 
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