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Autore: Dreamcatcher_lady    06/01/2015    0 recensioni
Sono trascorse due ere dalla tempestosa notte in cui i Gunjel decisero le sorti della Terra e dei suoi abitanti. La civilta' degli uomini e' rifiorita, ma il pericolo, sepolto, cova ancora, in attesa della sua vendetta.
Genere: Avventura, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza
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Il viaggiatore
 
Le stoviglie di ceramica blu e bianca erano accumulate sul lavabo tondo, in un angolo della cucina.
La stanza era piccola e le pareti, quasi completamente coperte da madie e vetrinette, lasciavano intravedere macchie di muffa su un intonaco che aveva di certo visto giorni migliori.
Una ragazzina smilza fece il suo ingresso, indossava un grembiule sopra la lunga veste color malva.
I capelli, di un rosso lucente, erano raccolti in una treccia, che ricadeva corposa tra le scapole acerbe della giovane.
Il suo viso non era più quello di una bambina, ma neppure di una donna perfettamente sbocciata. 
Nei suoi occhi castani, dal taglio a mandorla, si leggeva ancora la voglia di giochi e spensieratezza, e la delicatezza dei suoi tratti la faceva somigliare a un bellissimo, gracilissimo, bocciolo di rosa.
Alle sue spalle si fece largo un'altra ragazza, con le braccia ingombre di cestini e recipienti.
La stretta parentela delle due balzava subito allo sguardo, così come anche le innumerevoli differenze che le contraddistinguevano.
L'una ancora fanciulla; l'altra una donna. L'una rossa; l'altra con una folta capigliatura mogano. L'una evanescente, frizzante nell'espressione e bella, di una bellezza pura; l'altra austera, dall'aspetto malaticcio e greve.
-Non capisco perché la mamma si ostini a voler un'enorme tavolata ogni maledettissimo giorno!- protestò la rossa, avvicinandosi al lavabo con uno sbuffo e chinandosi sul primo piatto da lavare.
-Ivrea ti prego, non ricominciare con questa storia un'altra volta...- la implorò l'altra, iniziando a riporre i cestini nelle rispettive madie -ringrazia piuttosto di avere ancora qualcosa da mettere in tavola-.
-Appunto! E' esattamente questo che intendo. Anche i contadini e le pecore che brucano da qui a Zalden sanno che viviamo nella miseria, non vedo il motivo di continuare ad ostentare tutto questo!- e ciò dicendo sollevò in aria un piatto insaponato, schizzando d'acqua le piastrelle del pavimento tutt'intorno - davvero Vidien, non so come fai a sopportarlo!-
La sorella maggiore rimase in silenzio per qualche secondo, lo sguardo fisso sulle ante chiuse di una credenza. 
Sollevò una mano e prese a seguire i contorni delle venature scheggiate del legno. Si guardò le dita e le vide indurite e screpolate dal lavoro. In ogni crepa della pelle riconosceva la volta in cui aveva immerso le mani nell'acqua gelida o le aveva sfregate, con lo straccio in pugno, contro il pavimento di quella casa ormai troppo grande e sfarzosa per la loro famiglia in decadenza.
Ma non era stato sempre così. Un tempo potevano permettersi inservienti e domestiche e le mani di Vidien erano soffici come la seta.
Lei ricordava perfettamente l'aria di spensieratezza che si respirava tra le mura affrescate della sala da pranzo, quando la tavola veniva apparecchiata con mille pietanze profumate e non spettava mai a loro fare  le pulizie. 
Poi era arrivata quella lettera, quella dannatissima lettera.
E le lacrime di sua madre. 
Non aveva mai visto sua madre piangere prima di cinque anni prima. Da allora invece, sembrava essere diventata un'abitudine.
-Dammi almeno una mano! Non sono la tua serva!- La voce di Ivrea la richiamò alla realtà. 
Vidien si voltò lentamente, osservando sua sorella china sul lavabo colmo d'acqua. Pensò che anche le sue mani sarebbero diventate presto aride, inadatte ad essere strette e carezzate da quelle morbide di un nobile, così come lo erano le proprie.
Strinse i pugni attorno alla gonna color nocciola e con un sospirò si apprestò ad aiutare Ivrea nei servizi.

Il sole tramontava lentamente, occhieggiando con i suoi ultimi raggi tra le fronde tinte dal rosso dell'autunno.
Vidien era nella sua stanza, seduta sulla grande poltrona a dondolo, con un lembo del suo mantello tra le mani.
Lo stava rammendando forse per la decima volta e la stoffa, di un azzurro ormai liso, iniziava a somigliare a quella di una qualunque ragazzetta povera dei sobborghi.
Vidien non aveva mai tenuto particolarmente al suo status, ne alle ricchezze della famiglia, ne tantomeno alla riverenza che il prestigioso nome dei Redever suscitava nella contea di Kreda e nelle vicine Zalden e Ayata.
Ciò che più le mancava era la tranquillità dei giorni passati in un giardino fiorito e ben curato; la fragranza dei dolci, sfornati in ogni giorno di festa e per qualunque ospite venisse a far loro visita. Oh si, perché un tempo quella casa era un vero e proprio porto di mare, con gente sempre in arrivo e in partenza.
Da qualche anno invece erano solo loro ad abitare quelle mura sempre più tristi e spoglie, poiché erano costrette a vendere pezzi di arredamento.
Era Vidien in realtà ad occuparsi della gestione delle spese, perché sua madre non voleva saperne di separarsi da ogni più piccola cosa che le faceva ricordare i giorni di ricchezza e suo marito.
Inoltre Vidien non voleva caricare sua sorella di altri oneri, poiché rivedeva in lei la fanciulla che non era potuta essere, in quel buio periodo che aveva seguito la morte di suo padre.
E tantomeno poteva aspettarsi qualcosa dal piccolo Odden, nato appena tre mesi prima della tragedia.
Un uccellino dal ventre violaceo si posò in quel momento sul davanzale.
Vidien si rese conto che il sole era ormai calato del tutto, lasciando dietro di se, nel cielo, delle scie di un arancio spettacolare.
-Ciao piccolino- salutò il pennuto, picchiettando lievemente sul vetro.
Quello volò via poco dopo.
La ragazza non poté fare a meno di pensare che neppure gli uccellini nidificavano più in giardino. Quasi a voler ricordare loro che erano stati abbandonati davvero da tutti.
Si alzò in piedi, lasciando cadere il mantello sulla toletta, e si avvicinò alla finestra. 
Fece spaziare lo sguardo sui tetti rossi in lontananza, poi sulle strade e i vicoli di ciottoli scuri, illuminati dalle fioche fiammelle dei lampioni, che si accendevano lentamente, in successione, man mano che l'addetto dava fuoco alle micce.
Gli occhi celesti della giovane si posarono poi sull'alta cancellata di ferro battuto che circondava la pianta quadrata della casa. Il grande giardino che vi era racchiuso era più simile ad una selva incolta.
Il giardiniere, assieme agli altri domestici, era andato via quando non era trascorso ancora un anno dalla tragedia, cinque anni prima.
Vidien notò in quel momento una figura che, dopo aver gironzolato avanti e indietro nella stradina sottostante la finestra, si era arrestata, e sembrava ora guardarla da dietro la cancellata.
La ragazza non riusciva a scorgerne il volto, nascosto dall'ombra di un cappello a tesa larga che portava calato sull'occhi. Doveva essere un uomo a giudicare dai grandi stivali di cuoio che indossava e dalla cappa scura che portava su una spalla, alla foggia di un viaggiatore.
I due rimasero a scrutarsi, separati da quelle barriere che erano la finestra, il giardino e la cancellata.
Infine fu lo sconosciuto a muoversi, sollevando una mano in alto e salutando nella sua direzione.
Senza pensarci neppure, Vidien si ritrasse, chiudendo le pesanti tende davanti a se.
Si accorse di aver paura.
Erano solo quattro in quella enorme casa: tre donne e un bambino. Non avevano protezione. Se qualcuno avesse voluto far loro del male, chi lo avrebbe fermato?
Si chiese persino se dovesse cercare il modo di allertare le guardie cittadine, ma non c'era modo, se non uscendo di casa e rischiando così ancora di più.
-D'accordo, ora calmati-. Vidien si costrinse a respirare profondamente. Si disse che non c'era motivo di aver paura.
Scostò di poco i tendaggi, sbirciando fugacemente la strada. Era deserta.
In quell'istante il trillo del campanello risuonò in lontananza.
Vidien sentì il cuore fare una capriola, e per l'ennesima volta dovette concentrarsi per rimanere calma.
Quella vita solitaria e incerta iniziava a pesarle. La tormentava di notte con sogni confusi e di giorno con attacchi immotivati di panico e ansia.
Forse stava impazzendo, come sua madre.
Passò velocemente davanti l'alta specchiera. Sistemò qualche ciocca scura che le sfuggiva dallo chignon e si pizzicò le guance smunte, senza ottenere nessun cambiamento dal solito colorito giallognolo e malaticcio.
I propri occhi celesti la fissarono dal riflesso, incavati nelle orbite di uno sguardo tormentato.
Si decise infine a uscire dalla stanza e con passo celere solcò i corridoi bui e umidi, e i due salottini d'attesa, inutilizzati da anni. Avevano smesso persino di accendere le candele, laddove potevano risparmiare olio e cera.
Udì la voce di sua madre prima ancora di svoltare nell'ultimo, piccolo corridoio. Al di la di quello una porta a vetri era socchiusa sul salotto principale. 
Una piccola falce di luce feriva il buio al di fuori.
Vidien si accostò alla parete, porgendo l'orecchio a ciò che stava accadendo all'interno. 
Udì la voce roca e familiare di sua madre: -non avrei mai pensato...credimi d'avvero avrei fatto qualunque cosa se avessi potuto!-
Seguì un singhiozzo e la donna scoppiò in pianto.
Vidien irruppe nella stanza senza attendere oltre. Con una veloce occhiata individuò i presenti.
La rossa Ivrea sedeva accanto al camino, in fondo alla stanza, con il piccolo Odden tra le ginocchia.
Sua madre era adagiata scompostamente su un divano, che un tempo era stato molto bello, ma che ora presentava buchi qua e la sulla stoffa di broccato vermiglio.
La presenza anomala era costituita da un uomo, che se ne stava in piedi al centro della stanza.
Aveva una cappa di pelle marrone avvolta attorno al collo, che gli ricadeva sulla spalla destra. Tra le mani stringeva un cappello a tesa larga, segnato dalle intemperie.
Il suo viso era di una familiarità spaventosa, eppure allo stesso tempo Vidien sapeva di non conoscerlo.
Quegli occhi celesti, così simili ai suoi; quel viso squadrato; quella bocca dal taglio caratteristico, quasi perennemente imbronciato. 
Tutto di quell'uomo le ricordava suo padre.
Eppure non era lui. Suo padre era morto.
Era più alto, più massiccio, con una lunga barba che un tempo doveva essere stata rossiccia, ma che ora era quasi completamente ingiallita dalla vecchiaia.
I capelli, della stessa sfumatura, erano raccolti dietro la nuca in un codino crespo.
Doveva aver avuto forse una cinquantina d'anni.  
L'uomo la fissò con sguardo curioso. 
-Tu devi essere Vidien- sentenziò con una voce cupa ma allo stesso tempo frizzante -la primogenita del mio compianto fratello-.
   
 
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