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Autore: Euridice100    10/01/2015    11 recensioni
"Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
'No, non può essere.'
Ma è allora che il passato torna a essere presente."
(Victorian!AU RumBelle
Seguito di "Cleaning all that I've become" e "All of the stars".)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Your dream is over... Or has it just begun?'
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III - Innuendo
 
 
 
“While the sun hangs in the sky and the desert has sand,
while the waves crash in the sea and meet the land,
while there's a wind and the stars and the rainbow,
till the mountains crumble into the plain,
oh yes, we'll keep on tryin',
tread that fine line.”

 
 
 
Helena è nostra figlia.
Si ritrasse di scatto: un movimento subitaneo, improvviso, e proprio per questo ancora più netto, più evidente – ancora più in grado di far rabbrividire Belle.
Solo poche ore prima non avrebbe mai immaginato che gli eventi avrebbero preso simile piega – che si sarebbe trovata a fronteggiare il passato, a confessare il proprio segreto più intimo a colui che avrebbe dovuto condividerlo sin dall’inizio. Averglielo rivelato le causava una strana sensazione: i ceppi che l’avevano tenuta prigioniera per tanto tempo le erano improvvisamente, finalmente stati tolti, restituendole la libertà negata e facendola tornare a respirare.
Si sorprese a constatare una strana realtà: quasi non provava curiosità per la reazione di Robert. Le avrebbe creduto, o il loro incontro si sarebbe risolto in una cascata di recriminazioni destinata ad allontanarli definitivamente? Non s’illudeva: comunque fosse andata, ci sarebbero state conseguenze. Sperava solo che Helena stesse bene e che scordasse in fretta l’accaduto; di se stessa, di ciò che vederlo avrebbe comportato, non era altrettanto preoccupata. Lei, in un modo o nell’altro, gli aveva detto la verità; la mossa successiva spettava a lui.
Non sembrava molto cambiato: forse un po’ appesantito, con nuovi segni sul volto e più gocce d’argento sui capelli, ma gli occhi erano gli stessi, di quel nocciola dai bagliori di sole delle iridi in cui aveva perso e ritrovato il cuore. Quelle iridi che ogni istante trovava attorno a sé, che rivedeva in una bambina tanto amata, e che ora erano fisse su di lei, impietrite, com’era inespressivo il volto del loro possessore.
Ma non negarlo, Belle, non negarlo.
Ora per una sua risposta daresti il mondo.
 
 
 
Helena è nostra figlia.
Parole meravigliose e oscene che gli arrivarono troppo rapide alle orecchie, colpendolo con una frustrata improvvisa. Non poté fare a meno di sobbalzare, udendole; non poté fare a meno di pensare, mentre la frase gli danzava nella mente in un turbinio che non lasciava superstiti.
Helena è nostra figlia.
Boccheggiò a fatica, sentendo la testa vorticare e il suolo mancargli sotto ai piedi; si ritrovò paradossalmente a ringraziare il Cielo per aver dato ascolto a Belle ed essersi seduto. Si aggrappò al bordo del tavolo, percependone i bozzi e le asperità, imponendosi di riprendere fiato e vietandosi di collassare.
Un respiro dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, da bravo
Nulla di questo sta accadendo, tra poco ti risveglierai e sarà tutto finito.
Respira.
Chiuse gli occhi, quasi per sfuggire allo sguardo azzurro che sentiva puntato su di sé, incrollabile, accusatorio.
Non è vero.
Ma la situazione non cambiò.
In fondo lo sapeva: non si sarebbe svegliato. Proprio come era successo prima, per quanto potesse ripeterselo quello non era un sogno: non sapeva come, non sapeva perché, ma si trovava davvero in una bettola di Whitechapel, aggrappato a un tavolo mezzo traballante, faccia a faccia col suo grande amore perduto che gli aveva appena rivelato qualcosa più grande di lui, di lei, di ciò che erano stati, e che non poteva, non poteva assolutamente sostenere.
- Cosa stai dicendo? – chiese, riuscendo a emettere un mormorio più che una frase realmente intellegibile – Cosa stai dicendo, Belle?
Pensava che, se mai ci fosse riuscito, pronunciare quel nome dopo tanti anni avrebbe scatenato un terremoto. Che avrebbe scosso le fondamenta del mondo fino a sovvertire ogni elemento e far rinascere il passato, che forse l’avrebbe riportato al punto di partenza, a rivivere ogni cosa condannato a ripetere i medesimi errori; ma non successe nulla di tutto ciò.
O forse successe tutto.
Il presente, in fondo, era più assurdo, più sconvolgente, più surreale di qualsiasi altra prospettiva.
- Quello che ho detto, – ribadì Belle, leccandosi nervosa le labbra, ma senza esitare – La bambina… Helena ha quattro anni. È nata il 10 novembre 1889. Ed è nostra. Mia e tua.
La udì ripetere l’affermazione, corredarla di date e tempi e tingerla di una dolcezza lieve, così simile e diversa da quella che in passato aveva riservato a lui; la vide tener alto il capo e guardarlo determinata, quasi sfidandolo in attesa – in attesa di una parola, di un cenno, di un gesto qualsiasi che comunicasse qualcosa.
Ma cosa? Gold non sapeva cosa dire. Era perso nel caos che, era certo, lo avrebbe dominato a lungo.
Provò ad appuntarsi i brevi dati, le semplici informazioni che andavano a comporre il quadro della realtà e ad analizzarle una a una, provando vanamente a non farsi vincere dal panico che già l’aveva ghermito.
Una figlia.
Belle sosteneva che avessero avuto una figlia quattro anni prima, quell’uccellino di bambina cui aveva dedicato al più mezza occhiata.
Se fosse stato vero, allora avrebbe quasi investito la sua stessa figlia.
Ma non è vero.
Escludere a priori l’eventualità che fosse una menzogna solo perché era Belle a parlare era una gran sciocchezza, lo redarguì la sua metà più razionale: affermazioni di quella portata non potevano essere provate in alcun modo. I tempi coincidevano, certo, ma erano davvero sufficienti? Cosa gli aveva detto Cora? Belle era stata rapita, stuprata, costretta a vendersi. La bambina poteva essere tanto sua quanto di uno sconosciuto…
- Tu sei finita in un bordello, – affermò a fatica – Ti ci hanno portata i Frey per farti ripagare i debiti di tuo padre.
Tra la preoccupazione e la serietà, un velo di sconcerto si fece strada sul volto della donna.
- Cosa?! No, no, – scosse il capo con forza – Forse l’avrebbero fatto, ma non è successo. Hanno cercato di prendermi, questo sì, ma grazie a Ruby sono riuscita a sfuggire. Lei mi ha nascosta mi ha salvata. Non mi hanno mai trovata.
- Loro ti hanno… Ti hanno violentata, – continuò imperterrito, come se non l’avesse udita. Gli si seccò la gola pronunciando le parole che l’avevano ucciso dentro – Ti hanno violentata, perché tu non volevi prostituirti. E ti sei uccisa.
- Chi… Chi ti ha detto queste cose? – nell’istante stesso in cui lo chiese, seppe di conoscere la risposta. La sua mente non aveva mai scordato lo stemma impresso sulla carrozza nel vicolo.
- Cora Mills, – mormorarono all’unisono senza evitare i reciproci sguardi.
 
 
 
“While we live according to race, colour or creed,
while we rule by blind madness and pure greed,
our lives dictated by tradition, superstition, false religion
through the eons, and on and on.”
 
 
 
La cena dagli Spencer si era rivelata l’ennesimo fiasco. O meglio: agli occhi degli altri tutto era andato per il verso giusto. Una serata con la créme de la créme dell’aristocrazia, conversazioni sugli argomenti più in voga seguiti da pettegolezzi sugli assenti per le dame e intrallazzi politici per gli uomini, comportamenti ineccepibili e sorrisi artefatti. Anche lei aveva interpretato bene la sua parte: aveva accennato una risata quando era stato opportuno, sostenuto opinioni insipide e quanto mai distanti dalle sue reali posizioni e lasciato a metà il dessert a testimonianza del delicato appetito che si confaceva a un’educanda. Anche sua madre si era detta soddisfatta del suo comportamento – sebbene, ovviamente, avrebbe potuto fare di meglio, come ad esempio conversare maggiormente col giovane James; ma, tutto sommato, aveva superato le aspettative.
Regina avrebbe voluto dire che la tracotanza del rampollo degli Spencer era degna di fior di riconoscimenti, quasi quanto la sua maleducazione e totale mancanza di rispetto: per l’intera serata il ragazzo non aveva fatto altro che sbirciarle la scollatura e quando, prima di cena, aveva accompagnato lei e le altre ospiti a visitare la biblioteca, in un istante di distrazione la sua mano si era posata sulla schiena di Regina scendendo un po’ troppo in basso per i suoi gusti… Un gesto ricompensato da una casualissima gomitata che l’aveva reso mugugnante per l’intera serata.
Chissà come avrebbe commentato Cora, se gliel’avesse riferito. Probabilmente l’avrebbe derisa per non essere stata in grado di tenere a bada i bollenti spiriti di un adolescente; ma, tra sé e sé, avrebbe già iniziato a organizzare il secondo incontro.
Per questo, udendo il giudizio materno, Regina si era limitata ad annuire e ringraziare prima di tornare nel suo mondo: a quel punto,  una testimonianza in più o in meno dell’abilità nel recitare scoperta molti, molti anni prima non faceva più testo. Il mondo, come la Contessa ripeteva sovente, era un immenso palcoscenico in cui ognuno rivestiva un ruolo; un ruolo che non poteva essere disconosciuto se non per migliorare, per salire ancora più in alto, raggiungere la vetta e sbeffeggiare i miserabili che non erano stati altrettanto capaci. Il mondo era teatro e lei doveva recitare: anche – e soprattutto – quando non avrebbe voluto.
Forse sua madre aveva ragione: era una sciocca a lamentarsi delle possibilità che la vita le aveva offerto. Avrebbe solo dovuto essere grata a colei che, con mille sforzi e sacrifici, le garantiva vesti da principessa, scuole prestigiose e, presto, un Debutto che sarebbe rimasto negli annali; avrebbe dovuto impegnarsi per non sciupare tanta fortuna e piuttosto accrescerla, dimostrare di esserne degna. Le sue erano tutte ubbie da ragazzina viziata che mai aveva ì dovuto combattere per ottenere qualcosa; se solo una di quelle chances fosse stata offerta a un Cora quindicenne, lei certamente avrebbe saputo farne tesoro…
Regina non conosceva nel dettaglio la gioventù della madre, ma dalle chiacchiere in collegio era stato impossibile non cogliere qualcosa. La Mills non era di nobili natali, né veniva da una famiglia abbiente: si vociferava piuttosto che avesse mosso i primi passi in quartieri miserrimi come Soho, e che addirittura – e qui le voci diventavano sussurri sfuggenti – avesse esercitato il mestiere. Quando Regina aveva scoperto in cosa consistesse questo fantomatico mestiere, si era scagliata contro le autrici dei pettegolezzi con una furia memorabile che le era costata più di un mese di punizione; ma non era questo il punto. Per quanto il pensiero potesse far male, per quanto il livore per l’onta gettata sulla rispettabilità della sua famiglia non accennasse a sfumare, ciò che aveva fatto sua madre nell’adolescenza apparteneva comunque al passato, trascorso ormai da decenni e senza prospettive di ritorno: era il presente il problema di Regina, il presente e il futuro che già poteva indovinare.
Non avrebbe voluto seguire le orme di mille prima di lei in un carosello di feste e balli conditi da tè sempre troppo annacquati, condurre una vita in cui ogni passo doveva essere misurato per non sollevare polveroni di maldicenze; una vita che non era vita, che l’avrebbe soffocata prima di giungere ai vent’anni.
Una vita che pure si trovava a vivere, che pure avrebbe continuato a vivere perché incapace di ribellarsi.
C’erano stati tempi in cui si era concessa di ridere di gusto per una battuta, di studiare qualcosa di diverso dalle buone maniere e di lanciare Ronzinante al galoppo per cui erano entrambi nati, piuttosto che perseverare in quel ridicolo trotto cui lo costringeva per i sentieri del Lady s’ Mile 1 : ogni volta il suo cavallo la guardava implorante, e lei non poteva far altro che carezzargli il muso pensando che anche per lui quell’esistenza a metà doveva essere una tortura.
Fin dalla prima volta che gli era salita in groppa, Regina aveva capito che l’equitazione non sarebbe stato un diletto passeggero, ma una passione imperitura. Cavalcare era la sua unica possibilità di volare: sul suo morello arabo si sentiva svincolata dai tanti “Devi” che costellavano la sua esistenza e, finalmente, anche se solo per pochi istanti, libera. L’attività richiedeva concentrazione, un’attenzione benvenuta che la rendeva felice: assorbiva ogni atomo di lei garantendole quella distanza dal mondo altrimenti così difficile da ottenere. Esistevano solo lei e Ronzinante, diretti verso l’avventura che, almeno con la mente, avrebbe permesso loro di vivere le loro vite e scrivere i loro destini; di essere, in una parola, felici.
Quando non era a casa, era verso il suo compagno di cavalcate che provava nostalgia… Verso il suo compagno di galoppate e verso una persona.
Anche quella volta, i servi non corsero incontro alla Contessina vedendola tornare con la sua accompagnatrice dalla passeggiata quotidiana: tutti, chaperon compresa, sapevano che Regina amava accompagnare il cavallo fino alle scuderie, e non senza qualche discussione erano soliti concederglielo. Immaginavano fosse un modo per poter strappare un altro momento con un amico sempre distante, forse un vizio bislacco che l’età avrebbe cancellato; ma quella non era tutta la verità.
Da quando era tornata a casa, Regina accompagnava l’animale fino all’ultimo nella speranza di incontrare lui.
Non vedeva quegli occhi grigi dall’estate precedente: in occasione del Natale era tornata troppi pochi giorni perché il cavallo fosse trasferito dal Leicestershire, e con lui lo stalliere cui troppo, troppo spesso rivolgeva i suoi pensieri. Sebbene fosse a casa da quasi una settimana – e ogni giorno si fosse aggirata sempre per caso, attorno alle scuderie – non l’aveva mai incontrato, e la cosa la rendeva… Inquieta? Sì, inquieta era la definizione corretta. Porre domande era fuori discussione: sua madre si sarebbe insospettita, quella giovanissima Ava Zimmer che sembrava tanto carina era stata allontanata per motivi non meglio chiariti e gli altri domestici sarebbero corsi a riferire ogni cosa alla loro padrona; e questo, Regina intendeva evitarlo a qualsiasi costo.
Era sciocco illudersi tanto per qualcosa che poteva essere solo segno di sincera amicizia; lei per prima, in fondo, ancora non sapeva se ci fosse altro oltre alla semplice malinconia per un vecchio compagno di giochi … Ma allora, al di là dell’ovvia motivazione degli eventi dell’agosto precedente, era forse normale sospirare tanto per il simulacro di un’epoca perduta? Se l’era chiesto spesso durante la lontananza; e, suo malgrado, la risposta negativa si era rivelata sempre la più sincera.
Accertatasi di essere sola, Regina si tolse i guanti. Quella situazione le faceva rabbia: chi aveva dato a Daniel il permesso di parlare, quel pomeriggio, di rovinare ogni cosa? Aveva mai pensato al guaio che stava combinando? E ora, anche se si fossero visti, cos’avrebbero potuto dirsi? Dubitava di riuscire a sostenerne lo sguardo senza tornare indietro con la mente…
Per sfuggire a quell’ambiente avrebbe dovuto fare una cosa che a ogni altro studente sarebbe parsa eresia: pregare per rientrare presto in collegio.
 
 
 
Through the sorrow,
all through our splendour,
don't take offence at my innuendo.
 
 
 
In fondo, si disse Gold, lo stupore che l’aveva inizialmente vinto era privo di senso: macchinazioni del genere erano nello stile della Contessa. La vera domanda era un’altra: lui, lui come aveva potuto crederle due volta in sì breve tempo? Gli aveva già mentito sull’anello, portandolo a compiere uno dei passi più meschini della sua vita; e, quando Regina aveva fatto emergere la verità, doveva aver deciso di prendersi la rivincita definitiva rubandogli ogni speranza di lieto fine.
A questo punto tutto si ribaltava. La paternità della bambina non era certezza, non lo sarebbe mai stata; ma l’ipotesi che fosse sua diveniva improvvisamente molto più plausibile dell’altra – perché, tra Cora e Belle, in quell’istante non aveva dubbi su colei alla quale credere; e perché conosceva Belle. Non avrebbe mentito su un aspetto tanto delicato, né era persona da consolarsi tra le braccia del primo di passaggio solo per dimenticare: poteva anche avergli offerto la sua virtù, ma questo non ne intaccava la dignità, non sminuiva il rispetto di sé che l’avevano sempre contraddistinta.
E se la situazione era quella, allora
Allora Belle non gli aveva detto la cosa più importante che potesse esserci, e che lui avrebbe continuato a ignorare se non fosse stato per uno di quei sentieri intricati e oscuri che il Fato si diverte a far percorrere alle sue vittime.
Allora aveva omesso di essere incinta quando l’aveva cacciata, aveva preferito andarsene e
Allora in tanti anni non si era presa una, una volta sola, il disturbo di avvisarlo.
- No, – si ritrovò a ruggire prima di poterselo impedire.
Il sorriso della donna fu il più mesto che avesse mai visto.
- È tutto ciò che sai dire? No?
- No! – Dio, quanto era stupido? Possibile che riuscisse sempre a dire o fare la cosa sbagliata al momento sbagliato? – Non intendevo questo, solo che… – Esisteva un modo per dar voce ai pensieri senza finire sovrastato dalle emozioni? Si ritrovò a digrignare i denti, le unghie conficcate nel legno grezzo del tavolo, e ad alzare il capo di netto – Perché non me l’hai detto?
Belle pensò fosse strano che le ultime parole rivoltele da Robert fossero dei ringhi, proprio come quelle che le stava rivolgendo ora. C’era una bizzarra continuità tra passato e presente, come se il tempo avesse ripreso a scorrere esattamente dal momento in cui era stato interrotto.
Aprì bocca per replicare, ma fu preceduta dall’ex amante.
- Ho sbagliato, sono il primo a riconoscerlo, ma come hai potuto nascondermela? – scattò in piedi rovesciando bruscamente la sedia – Se è mia, perché non me l’hai detto? Non dovevi neanche provare a fare una cosa del genere!
Le si avvicinò con furia, costringendola ad arretrare fino alla vicina parete.
- Pensi che non abbia voluto dirtelo? Pensi che non sia venuta a cercarti, che abbia davvero voluto nasconderti nostra figlia? – gli soffiò contro come un gatto, senza esitare un attimo. Non aveva immaginato una ricongiunzione simile, né aveva un canovaccio cui appellarsi per un ipotetico “e se…?”; si limitava a rivolgergli frasi che provenivano da dentro, che nascevano dal profondo del suo essere e che venivano alla luce senza essere ammorbidite da patine di pacatezza che, in quel frangente, sarebbero state ipocrisia – Ero incinta la prima volta che sono scappata contro tutto e tutti per tornare. Mi hanno offesa, ci hanno umiliate, mi hanno dato della bugiarda e detto di non farmi più vedere. Sono tornata, sono tornata sempre, l’ultima volta qualche mese fa, e sai una cosa? Tu non c’eri! Tu non ci sei mai stato, mai! – le parole lo punsero come uno spillo, ma non gli fu concessa tregua – Come osi anche solo pensare di venire qui dopo cinque anni e pretendere di fare la vittima? Pensi sia stato facile, lo pensi davvero?
- Non sarà stato facile, ma questo non cambia la situazione! Se non fosse stato per oggi quando l’avrei scoperto? Quando? Dimmelo! – un’ondata d’ira bollente gli montò nel petto – Mai! Non me l’avresti mai detto, eppure sai cosa significa un figlio per me, lo sai! Sai che sarebbe bastato farmi giungere voce, sarebbe bastato un pettegolezzo e io ti avrei aiutata, me ne sarei occupato io, l’avrei portata a Kensington e…
Belle lo spinse via con una violenza che Gold non ricordava. L’aveva vista furiosa molte volte, ma mai come allora la voce era suonata tanto sorda di rabbia, quasi che l’ultima frase avesse risvegliato qualcosa in lei.
- L’avresti portata a Kensington e…? E? – questa volta fu lui a essere costretto ad arretrare, sotto le sue parole sferzanti – Cos’avresti fatto? L’avresti allontanata da me? L’avresti cresciuta là dove l’amore è una debolezza ed esprimere sentimenti di cattivo gusto? Là dove si ha tanta paura di voler bene a qualcuno da preferire buttarla in mezzo alla strada trattandola come una poco di buono, piuttosto che provare a fidarsi?
L’uomo trattenne il respiro al ricordo di quella mattina di febbraio, del sospetto e della vigliaccheria che l’avevano guidato. Belle stava trattenendo le lacrime, era evidente. Ora come allora – lo intuiva bene – non voleva mostrarsi debole di fronte a lui, lei che era stata così forte, così netta nel prendere posizione e portare avanti le sue scelte fino all’estremo.
Ma un tempo non gli avrebbe rinfacciato in quel modo il male inflittole. Un tempo avrebbe cercato, avrebbe trovato altri modi, altre parole per farglielo capire – come se non l’avesse già capito, ormai, dall’istante in cui Regina si era precipitata nel suo studio confessando il suo peccato. Quelle frasi sembravano rimarcare ancora di più le violenze, i tagli che la distanza aveva finto di guarire e che invece aveva solo infettato. La Belle dinanzi a lui non era la persona gioiosa di un tempo, la ragazza che conosceva ancora in parte la vita e la salutava con ottimismo e luminosa ingenuità; era una donna che aveva affrontato le sue battaglie e le aveva condotte da sola, ricevendo in ricompensa sconfitte e disprezzo quando più avrebbe avuto bisogno di conforto e affetto.
Era una donna ferita.
- Mi dispiace, – fu tutto quel che seppe dire – Non intendevo.
- Non intendevi. Non intendevi, ma l’hai fatto. Hai preferito credere a qualcuno da cui tu stesso mi avevi messa in guardia.
- Non avevo motivo di non crederle, aveva l’anello!
- Avevi un motivo, avevi me come motivo, avresti avuto noi come motivo! – ogni parola era un ruggito, un attacco che non risparmiava più – Avresti almeno potuto ascoltarmi, permettermi di difendermi, non chiudermi in camera, e soprattutto non trattarmi come hai fatto tu! Sarebbe stato più facile perdonarti, – chinò appena il capo, per poi rialzarlo subito e puntargli ancora addosso le iridi lucide – Senza quello sarebbe stato tutto più facile.
Me ne sono pentito.
Me ne sono pentito quello stesso giorno, avrebbe voluto risponderle. Ma avrebbe avuto realmente senso dirglielo? Quale utilità avrebbero avuto scuse tardive, per quanto sentite?
Avrebbe voluto essere cieco e sordo, per non vedere e non sentire il sottinteso che, urlato una volta, pure era base e origine di ogni parola.
Sai una cosa?
Tu non c’eri! Tu non ci sei mai stato, mai!
Belle si stava riferendo a un piano materiale, sì, ma era impossibile non cogliere la completa portata della frase, ignorare la – quanto tacita? – accusa nei suoi confronti. No, non c’era stato fisicamente, e ancora peggio non c’era stato moralmente. Non sapeva nulla di quegli anni, non sapeva più niente di lei: le esperienze vissute, le emozioni provate i dolori e le gioie che le avevano colorato l’anima.
Era una sconosciuta – un’estranea.
Colei che gli era stata più vicina di ogni altra era diventata una figura indistinta, non dissimile da coloro che gli scivolavano accanto quotidianamente e svanivano con la stessa fretta con cui avevano incrociato la sua esistenza.
E – quel che era peggio – era stato lui a renderla tale.
- Non è stata solo colpa mia – perseverò – Cora…
Lo sguardo di Belle pose fine a quell’estrema, misera scusante.
Cora aveva dato il la alla catena di eventi, l’aveva indotto a credere e cadere; ma lui aveva creduto, lui era caduto.
Cora non era innocente, ma lui era colpevole.
La conversazione fu interrotta da una porta che sbatteva al piano inferiore e una voce femminile che domandava: – Si può? Ruby, Belle, dove siete? Ouch! – seguito da un improvviso tonfo.
Belle e Gold si scambiarono un’ultima occhiata in cagnesco e la prima si mosse verso la scalinata.
- Astrid? Siamo qui, ti sei fatta male? – urlò scendendo i primi gradini.
- No, no, tranquilla! Salgo subito!
Pochi secondi dopo, comparve una donna dai tratti gentili.
- S-scusatemi, – balbettò cercando contemporaneamente di sistemarsi le ciocche brune sfuggite dal cappello e di mantenere in equilibrio il borsone, rischiando di farlo rovinare per terra – Cielo, sono maldestra anche in queste situazioni! Tink mi ha detto cos’è successo e sono corsa qui, dov’è la bambina?
- Di qua, – s’intromise Ruby facendo capolino dalla porta
Vedendola, Belle non represse un brivido.
- Come sta? – le domandò perentoria, senza nascondere il panico che le mordeva la gola e che nulla aveva messo in secondo piano – Ti ha detto se ha battuto la testa?
- Dice di no, ma…
- Ma cosa? Cosa le fa male? Cos’ha?
Dinanzi all’improvviso pallore spettrale della donna, al suo panico, Gold ricordò che anche lui, un tempo, aveva simili reazioni all’idea di un eventuale malanno di Neal; e invece, stavolta non provava nulla. Era normale riscoprirsi padre, e rimanere impassibili? Essere furibondo per non aver saputo, piuttosto che preoccupato per la figlia? Forse sì; forse era una reazione difensiva, della mente, la protezione da un’idea che non aveva la forza di realizzare appieno. Come provar angoscia per qualcuno che, nella propria testa, non esiste? Si preoccupava per Belle, per quel che era successo e che sarebbe successo, per eventuali nuove responsabilità, ma non per la ragazzina.
- Belle, calmati, – la ragazza dovette alzare la voce per imporsi – Helena sta bene. È spaventata, ma sta bene, e Astrid te lo confermerà, – l’interpellata annuì vigorosamente, nel vano tentativo di consolare l’altra – Altrimenti te l’avremmo detto, no? Certo non vi avremmo lasciati scannare in questo modo, – occhieggiò rapida verso l’industriale, prima di rivolgersi nuovamente all’amica – Vuole la sua mamma, e sai com’è fatta, meglio darle retta prima che faccia venir giù tutto a suon di urla.
- Sì… – Belle annuì appena, stringendosi nelle spalle come sperduta, e Gold represse a fatica l’improvviso desiderio di stringerla a sé per proteggerla. Oltrepassò rapida la porta, che socchiuse alle proprie spalle senza degnare di uno sguardo l’ospite o domandare scusa per l’improvviso allontanamento.
Ma in certi contesti la facciata fragile delle buon maniere va in frantumi, come uno specchio preso a pugni, lasciando emergere una realtà di emozioni e impulsi più significativi di mille gesti cortesi.
 
 
 
“You can be anything you want to be,
just turn yourself into anything

you think that you could ever be.
Be free with your tempo, be free, be free,
surrender your ego – be free, be free to yourself.”
 
 
 
Leicestershire, agosto 1893
 
Ne era certa: si sarebbe presto pentita di non essere rimasta in camera a controllare che le cameriere non le riempissero il baule di cose che Maman reputava fondamentali e che già si erano rivelate inutili per un rigoroso collegio femminile.
Ma Regina non avrebbe rivisto Ronzinante e Daniel per mesi; e comunque, tra l’ennesimo pomeriggio di litigi e un’ultima cavalcata l’opzione preferibile era certamente la seconda. Per fortuna, la tenuta era l’ideale per simili fini: offriva la possibilità di galoppare lontani dalla villa, di sentire il vento in faccia senza che nessuno rimproverasse gli intrepidi per i capelli scompigliati o per l’atteggiamento ben poco distaccato che non raramente avevano dimostrato.
- Battuto! – aveva esultato la giovane, superando il melo che da sempre era il traguardo delle loro corse.
- E di quanto, due secondi?
- Di Pirro o meno, la mia è pur sempre una vittoria!
- Uh! Ti aspetta un’altra lezione, Miss! – Daniel aveva ghignato dinanzi allo sbuffare nervoso, ma divertito, di Regina.
Gli anni passavano, ma il loro primo, vecchio gioco restava: quando la Contessina pronunciava qualche espressione che Daniel non conosceva, doveva sempre – pena pegno – fermarsi a spiegargliela. Per chi non ha pazienza, simili attività si rivela un incubo, ma Regina non si negava a quelle richieste: dagli indimenticabili efelanti al galateo, passando per le colonie, le piaceva condividere la conoscenza col suo stalliere. Nascondeva il divertimento dietro a una maschera di saccenza che lui tagliava via con una singola battuta, facendole provare ciò che in fondo ella aveva sempre bramato: la struggente, profonda sensazione di essere amata.
Per quanto si vedessero raramente, i due erano custodi dei reciproci segreti: Daniel era l’unico cui la ragazza avesse raccontato tutta la verità sullo zio, la sua domestica e sull’anello, l’unico da cui avesse ricevuto consolazione e non scherno o disprezzo. Nel corso degli anni erano cambiati: mutamenti fisici più evidenti, lineamenti dolci che lasciavano il posto ai tratti più marcati dell’età adulta; e mutamenti interiori, meno palesi ma non per questo meno importanti. Nell’animo, però, erano sempre rimasti i due bambini che, un giorno di pioggia, avevano iniziato a prendersi in giro ripromettendosi d’incontrarsi ancora.
- “Vittoria di Pirro” è un’espressione che si usa quando si vince di pochissimo, quando la vittoria vale talmente poco da non giustificare gli sforzi. Ma per come la vedo io, si tratta pur sempre di vittoria.
- Ho capito, – aveva annuito Daniel – Per esempio, un’altra vittoria di Pirro è stata quando volevi fermarti qui qualche altro giorno e tua madre ti ha fatta partire alle cinque anziché alle quattro di pomeriggio.
- Non ricordarmi certe umiliazioni, per favore, – Regina aveva mugugnato laconica.
L’adolescente aveva sospirato prima di rialzare il mento.
- Non capirò mai perché continui a non ribellarti, dopo tutto quello che è successo.
- Mi ribello ogni giorno, e lo sai, – l’altra aveva puntualizzato piccata – Ogni volta che trovo insensata una pretesa glielo dico… Come questa ridicola passeggiata dai minuti contati che mi concede tra il pranzo e il tè, quando per tutto l’anno sarei teoricamente libera di spassarmela come voglio lontana da casa. Ma qui no, regole sue, assurde come lei. E non ascolta ragioni.
- Forse, se glielo chiedi gentilmente e smetti di rispondere male…
Regina aveva sbuffato.
- E anche oggi il consiglio idiota è arrivato. Grazie tante, ne sentivo la mancanza, – aveva dichiarato calcando il sarcasmo incastonato tra le parole.
L’amico aveva alzato le mani facendole il verso.
- Ne sentivo la mancanza, gné gné gné. Scusa tanto, Miss Acidità.
Persa nelle sue cupe riflessioni, Regina l’aveva ignorato.
- Sai cos’è peggio? – non aveva esitato prima d’iniziare a sfogarsi. Sapeva che Daniel l’avrebbe ascoltata – La certezza che comunque vada, non cambierà mai niente. Anche se fossi sempre stata la figlia obbediente che lei tanto desidera, troverebbe in me qualche altro difetto. A quel punto non sarei abbastanza bella, o abbastanza intelligente, o abbastanza studiosa… Oh, giusto, perdonami, – si era corretta amara – Io non sono abbastanza bella, abbastanza intelligente e abbastanza studiosa. Io non sono abbastanza.
- A furia di ripeterlo, un giorno lo diventerai davvero.
- Se funzionasse sarei già la migliore al mondo, tante volte mi sono detta frasi simili.
- No, non mi sono spiegato, – il servo aveva scosso il capo, un’espressione seria sul volto – Sto dicendo che, a furia di ripetere di non essere bella, intelligente o cos’altro, alla fine diventerai davvero brutta e stupida. E a me le ragazze brutte e stupide non piacciono. A me piaci tu.
Regina quasi aveva incespicato in un sasso per la sorpresa.
- Che… Che hai detto?
- Hai sentito benissimo. Sei sveglia, molto più sveglia delle altre. Sei ambiziosa, e da quel che si dice prendi gran bei voti. Sei coraggiosa, l’hai dimostrato sin da piccola, e divertente, quando vuoi esserlo. E sei bella, – la voce si era persa per un istante prima di riaffermare sicura – Bellissima.
Durante la corsa doveva essere caduto e aver battuto la testa senza che lei se ne accorgesse. O forse peggio, era completamente ubriaco. Quella conversazione non stava avendo luogo, non poteva avere luogo, l’aveva redarguita una vocina spaventosamente somigliante a quella di Cora: già era un’indecenza il fatto che fosse solita accompagnarsi a un giovane uomo; tanto più se il giovane uomo era un dipendente che le stava rivolgendo frasi di quel peso! Se qualcuno l’avesse scorta, sarebbe stata rovinata.
Eppure, in quel momento a Regina poco importava tutto ciò. La sua mente era immobile, bloccata su quel Mi piaci che, più di ogni altro complimento, doveva essere stato un’allucinazione uditiva. Daniel era suo amico da tanto, ma ora non stava più parlando di… Di questo. Di amicizia. Solo una sciocca avrebbe frainteso la portata della frase, il suo riferirsi a una realtà molto più complessa dell’affetto che li legava da sempre.
Una realtà che subito riportò ricordi lontani.
Daniel la guardava come se attendesse una risposta. I suoi occhi non erano mai stati accesi dalla speranza e, a un tempo, dalla convinzione: il giovane non pareva pentito della confessione, né intenzionato a ritrattarla in alcun modo. Qualunque cosa gli avesse detto Regina, però, non sarebbe stata sincera. Sì, come amico Daniel le piaceva, ma come altro? Non ci aveva mai pensato; né ci avrebbe mai pensato se a quell’idiota  non fosse all’improvviso venuta la geniale idea di improvvisare così, su due piedi, dichiarazioni strappalacrime che in altre occasioni una parte di lei avrebbe deriso!
Che qualche suo atteggiamento avesse illuso il giovane? Ma quale? Nelle ultime settimane si era comportata come sempre!
- Ti ringrazio, – aveva esordito, incerta sul prosieguo.
- È solo la verità. Forse non è lo stesso per te, forse ti ho messo in imbarazzo e nel caso me ne scuso, ma le cose stanno così. Mi piaci.
Smettila di ripeterlo, mi fa sentire più in colpa.
- Non è per questo! – si era affrettata – Non me l’aspettavo e non so cosa sia per me, ecco. Inoltre domani parto, perciò…
- Lo so, – Daniel aveva sorriso appena – Neanch’io pensavo di dirtelo. Non avevo intenzione di turbarti, ma poi, – aveva aggrottato la fronte per un momento, alla ricerca delle parole giuste – Non voglio vederti così triste per colpa degli altri, ecco. Dentro hai una forza che potrebbe muovere le montagne, e non lo sai. Devi scoprirla, – le aveva rivolto un ultimo sguardo prima di chiedere semplicemente: – Torniamo?
Regina aveva inclinato il capo in segno d’assenso.
Il silenzio aveva dominato il loro rientro
Solo quando erano giunti alle stalle, la giovane aveva sussurrato: – Ci penserò.
 
 
 
“If there's a God or any kind of justice under the sky,
if there's a point, if there's a reason to live or die,
if there's an answer to the questions we feel bound to ask,
show yourself,

destroy our fears,
release your mask.”
 
 
 
In attesa di Belle, Gold si guardò attorno: il piano sembrava adibito a casa per la famigliola che gestiva la locanda; una casa ben umile, composta appena dal locale in cui avevano appena litigato e dalla stanza che aveva già scoperto fungere da camera da letto. Nonostante gli sforzi per mantenerlo pulito e, a suo modo, accogliente, l’ambiente tradiva un velo di tristezza, quasi che il grigiume delle strade circostanti fosse penetrato dalla finestrella depositandosi su ogni cosa, diventando un tutt’uno con essa. Forse era la sua assuefazione a infissi in esotico palissandro e tappeti della Bessarabia a dargli quell’impressione, non poteva escluderlo a priori; e tuttavia, non poté trattenersi dal pensare che un posto simile non poteva essere il regno della sua – com’era difficile non definirla in tale modo – Belle, che avrebbe meritato arazzi e diamanti.
Davvero viveva lì da quando l’aveva lasciata?
Assieme a un mazzo di fiori di campo mezzi appassiti e a una stampa che aveva conosciuto tempi migliori, erano dei disegni a ingentilire le pareti: immagini semplici e stilizzate appartenenti a una mano cucciola, a volte scarabocchi incomprensibili che per un secondo gli strinsero il cuore.
Anche a Neal piaceva disegnare.
Un Natale di una vita precedente aveva fatto ancor più sacrifici del solito per regalargli della carta e dei colori. Il bambino aveva urlato di gioia dinanzi al pacchettino, e quando ne aveva scoperto il contenuto gli era saltato al collo ringraziandolo. Aveva mantenuto il sorriso per giorni e giorni; e a distanza di anni, quella risata in mezzo al nulla aveva ancora il potere di bruciarlo dentro.
Si perse a cercare un rimando tra le illustrazioni che aveva dinanzi e quelle che serbava nella memoria.
Annuiva mentre un bambino dagli occhi scuri lo implorava di tornare presto.
Non sapevano che non si sarebbero più rivisti.        
Un colpetto di tosse lo fece ripiombare nel presente: a qualche passo da lui, la ragazza bruna lo studiava con gli occhi ridotti a due mezzelune. Ne sostenne lo sguardo, cercando di farla sentire a disagio per  l’esame che l’aveva evidentemente sorpresa a condurre. Dalla camera accanto provenivano rumori soffusi, tra i quali spiccava la voce della dottoressa goffa.
- Però, – fu la moretta a rompere il silenzio, ghignando divertita e per nulla intimidita – La foto ufficiale non rende giustizia. Ed Helena ha proprio i vostri stessi occhi.
Gold aggrottò le sopracciglia.
- Sapete con chi state parlando, Miss…?
- Ruby. Ruby basterà. Certo che so con chi sto parlando, – la ragazza rispose spudorata – Col padre di Helena… O preferite che vi chiami per nome, Mr Gold?
La franchezza della giovane quasi lo urtò. Quanti anni poteva avere, una ventina? Doveva essere coetanea di Emma Nolan, con la quale condivideva l’insolenza che ai suoi tempi, lui mai si sarebbe sognato di mostrare nei confronti di una persona più anziana; ma ci voleva ben altro che una piccola indisponente per metterlo al tappeto…
Non hai forse pensato qualcosa di simile su Belle?
E poi com’è finita?
- La mia fama mi precede.
- Merito di una stanza divisa con Belle per cinque anni. So parecchie cose su di voi…
- Mi state suggerendo di dover temervi? – la provocò, le labbra arricciate in un sorriso carico di sarcasmo.
Un fugace snudare di canini precedette la risposta: – Però, pure sveglio.
I motteggi della ragazza non lo toccavano più di tanto. Se era il suo modo di concepire il divertimento, bene, facesse pure; lui aveva altro cui pensare.
Sotto un certo punto di vista, era normale: se Belle viveva lì da tanti anni, era ovvio che avesse instaurato una sorta di complicità con chi l’aveva accolta. Era discreta, non tradiva i segreti né ne parlava a destra e a manca per vantarsi, ma stringeva amicizia facilmente: in poche settimane si era integrata nella servitù come se ci lavorasse assieme da anni, e come dimenticare il modo in cui aveva legato con l’Andersen e, soprattutto, con Regina? Condividere stanza, casa, abitudini, vita avvicinava, volenti o nolenti; e forse, in un momento di debolezza, Belle non aveva più represso il bisogno di sfogarsi, raccontando tutto alla sua salvatrice.
Non poteva rimproverarglielo, no.
- Volete vedere Helena?
La domanda lo lasciò di stucco. Non immaginava gli venisse avanzata simile proposta così presto – a dire il vero non immaginava gli sarebbe mai stata avanzata simile proposta. Era un fulmine a ciel sereno, l’ennesimo in quella giornata che pareva riservargli una novità al minuto. Aveva sinceramente paura di immaginare cos’altro sarebbe saltato fuori fino a mezzanotte.
L’ora dell’appuntamento doveva ormai essere passata: nel pomeriggio avrebbe inviato personalmente un biglietto di scuse, rifilando qualche causa di forza maggiore rea d’averlo trattenuto. Un malessere, magari. Scoprire che l’amata creduta morta godeva di perfetta salute e gli aveva dato una figlia la cui esistenza ignorava fino a un’ora prima era più che causa di un malessere, vero? Era già tanto che non fosse stramazzato al suolo a quell’ “Helena è nostra figlia”…
Riesci a essere menefreghista anche in una situazione del genere.
A pensare agli affari piuttosto che a lei e a chiunque tu abbia quasi…
Ma l’egoismo era un tratto che l’aveva, e l’avrebbe sempre, contraddistinto.
L’interlocutrice non staccava lo sguardo da lui, in attesa di una risposta. Sul bel volto si era disegnata una smorfia di incredulità e vaga derisione, quasi non riuscisse a realizzare l’incapacità del celebre mago della lana di rispondere a una domanda tanto diretta.
Sarebbe bastato un cenno, in effetti, un banale o no; e d’altro canto, provò a consolarsi, qualunque fosse stata la sua scelta nessuno avrebbe potuto rinfacciargliela. Un rifiuto sarebbe stato comprensibile: cos’aveva da spartire con quel tugurio, col contesto e, soprattutto, con la situazione venutasi a creare? Come poteva voler vedere chi per lui era nessuno? Anzi, sarebbe stato opportuno non vederla, non turbarla – non turbarsi – ancora di più; non aveva diritto di intaccare la fragile quiete che aleggiava sotto quel tetto. Magari sarebbe passato un’altra volta, e nel frattempo ne avrebbe approfittato per far chiarezza.
Se Belle avesse preferito diversamente, in ogni caso avrebbe capito.
Belle capiva sempre.
E proprio questa convinzione è stata la vostra fine.
Chissà cos’avrebbe fatto lei. Gli avrebbe subito fatto vedere la bambina, o l’avrebbe preservata ancora? Cosa le aveva raccontato, sempre se le avesse detto qualcosa? Forse aveva nascosto anche la sua, di identità; e in tal caso, la sua comparsa avrebbe sollevato nugoli di domande dalla risposta impossibile.
- Papà, dov’è la mamma?
- Perché dici che non può tornare?
- Ma non che è colpa mia se non può più tornare? È perché la facevo arrabbiare sempre, vero?
- No, figliolo, non è colpa tua. Non pensare mai certe cose, mai.
Non è colpa di nessuno, ma soprattutto non è colpa tua.
Forse, facendosi vedere avrebbe posto Belle nella stessa identica situazione. Le avrebbe affibbiato anche l’ingrato compito di placare dubbi e sensi di colpa che ancora non sapevano pronunciare il loro nome. Forse – senza dubbio – avrebbe fatto meglio ad andarsene senza voltarsi, ad aiutarle da lontano senza incontrarle più: una scelta codarda, sì, ma la migliore per tutti.
Belle non avrebbe mai accettato i suoi soldi, inutile illudersi; ma magari il bene della figlia l’aveva resa più accondiscendente sotto questo punto di vista…
- Buon Dio, Mr Gold! Non vi ho mica chiesto di regalarmi la villa! – la ragazza partì a passo di carica e lo afferrò per un braccio, rivelando un’insospettabile forza. Avrebbe comunque potuto resisterle, scostarla senza reticenza e rimproverarla aspramente per aver osato tanto; ma non fece nulla di tutto questo: la seguì in silenzio, senza puntare i piedi, lasciando ancora una volta che fossero gli altri a decidere per lui.
Giunto alla porta, le rivolse un’ultima occhiata interrogativa, la cui sola risposta fu un sopracciglio eloquentemente inarcato che non gli fu d’alcun giovamento.
Cos’avrebbe sperato? Di ritrovare lineamenti noti, sorrisi dal passato, cosa? Non lo sapeva neanche lui. La brunetta avrebbe fatto meglio a restare in camera con gli altri, limitarsi a uscire mezzo istante per dargli una rassicurazione che non l’avrebbe coinvolto troppo e poi lasciarlo libero di tornare a casa, sereno e imperturbato come se nulla fosse successo.
Perché Gold di una cosa era certo: dopo la scena cui stava assistendo, sereno e imperturbato non lo sarebbe stato più.
 
 
 
“Oh, yes, we'll keep on trying,
tread that fine line.
Yeah, we'll keep on smiling, yeah,
and whatever will be, will be.”
 
 
 
Ci aveva pensato, Regina, di questo bisognava darle merito. Ci aveva pensato a partire da quel giorno stesso e per mesi e mesi: quelle parole erano state un chiodo fisso, ancora più penetrante perché tenuto al riparo dagli occhi indiscreti del mondo. Alle volte pensava che i mesi le avessero aperto gli occhi, spiegando la verità di tanti piccoli gesti che spesso lei aveva ignorato e che pure dovevano avere un motivo. Daniel l’aveva sempre protetta e aiutata, facendola sorridere nel bisogno; e lei… Ancora non ne aveva avuto l’opportunità, ma se ce ne fosse stato il bisogno l’avrebbe a suo modo aiutato. Forse non era questo amore? Non era sostegno reciproco, come quello silenzioso ma presente, che aveva legato due persone e le aveva condotte alla fine?
Doveva smetterla di crogiolarsi nei dubbi: era tutto inutile. Se Daniel non si era fatto vedere sino ad allora, forse avrebbe avuto altrettanta fortuna – o sfortuna? – anche nelle settimane successive…
Nell’istante in cui l’adolescente decise di prendere commiato da Ronzinante, sulla soglia della stalla apparve Daniel Locke.
Regina sentì un tuffo al cuore.
Non avrebbe voluto che la vedesse così, con le trecce rovinate dall’esercizio e le gote arrossate che la facevano sembrare una bambina. Avrebbe dovuto mostrarsi al meglio, certo non con gli stivali sporchi e il completo da amazzone tutto sgualcito. Dio, cos’avrebbe pensato di lei? Se ne stava, a fissarla con la bocca semiaperta, a fissarla sicuramente disgustato dal brufolo che le era comparso quella mattina…
Il silenzio la faceva impazzire. Avrebbe dovuto sgridarlo per l’atteggiamento che stava tenendo verso una signorina di rango elevato; avrebbe voluto chiedergli come stesse. Avrebbe voluto sfilargli davanti contegnosa, ignorandolo; avrebbe voluto correre ad abbracciarlo come aveva fatto la primissima volta che era tornata dal collegio. E invece, invece se ne stava lì, aggrappata ai finimenti di Ronzinante come se ne andasse della vita, incapace di proferir verbo e sentendo il volto avvampare sempre più. Negli ultimi mesi si era fatto più alto e con le spalle più larghe, e aveva iniziato a portare i capelli in un modo diverso che però gli stava piuttosto bene. Senza quasi rendersene conto, Regina si ritrovò ad ammettere che Daniel era diventato ancora più bello di quanto ricordasse.
Si morse l’interno della guancia, turbata dall’audacia e dall’inopportunità del pensiero.
Basta: non potevano starsene così, a fissarsi come due rimbambiti. Non sarebbe scappata, no di certo: una vera Mills non faceva intimidire da nessuno, figurarsi da un bifolco. Avrebbe rotto il silenzio, comportandosi da Miss beneducata e assennata qual era, e riportato ordine in quella situazione da romanzetto, facendo tornare ogni cosa al suo posto, ogni servitore al suo rango.
Fece per aprir bocca, ma Daniel la batté sul tempo.
- Bentornata, – le sorrise allegro, e quel semplice augurio la fece tremare.
Quanto sai essere idiota, Regina?
- Grazie, – rispose spellandosi a sangue le cuticole.
Maman ti ammazzerà quando vedrà come ti sei ridotta le dita.
- Hai fatto buon viaggio?
- Sì. Sono qui da venerdì, e… – si pentì della precisazione involontaria. Cos’avrebbe pensato, che era lì da giorni ad attenderlo vanamente e che lui invece si era come volatilizzato? No di certo, lei non stava insinuando nulla di simile! E poi, che fine aveva fatto lui nell’ultima settimana? Razza d’idiota di un Locke, possibile che non sapesse del suo ritorno? E se fosse stato sempre nei paraggi e l’avesse ignorata volontariamente? – Va tutto bene. Solite cose.
- Spero più tranquille delle mie. Tua madre mi ha spedito fuori città per dei cavalli… Sono tornato solo stanotte.
Regina si rimproverò per aver anche solo desiderato sospirare di sollievo.
- È stato faticoso?
- Eccome, ma pare proprio che me la sia cavata. L’ha riconosciuto lei stessa.
Daniel doveva aver compiuto chissà quale impresa per meritarsi tale complimento. Glielo disse, ricevendo la sua risata calda e profonda come risposta; la risata che – come negarlo? – tanto le era mancata, e che presto la coinvolse. Malgrado tutto, il ragazzo aveva lo strano potere di farla sentire a suo agio; di restituirle il suo posto al mondo, quando lei per prima aveva difficoltà a trovarlo. Con lui era facile parlare, partire da un argomento e finire al capo opposto senza doversene rammaricare; era impossibile annoiarsi, distrarsi, o pregare perché l’arrotolarsi insensato di convenzioni senza profondità terminasse in fretta.
Se il mondo fosse stato popolato solo da persone come lui, sarebbe stato senza dubbio un posto migliore. Ma allora tutti avrebbero avuto un Daniel personale; e Regina non sapeva se la cosa fosse auspicabile o meno. In fondo, preferiva che Daniel restasse in qualche modo solo suo; un pensiero egoista di cui però proprio non si pentiva. Perché avrebbe dovuto, poi?
La informava sulla salute del suo vecchio e lei ricambiava con le novità dalla scuola; un argomento neutro, su cui indugiava fingendo di aver scordato il resto, ritardando ancora e ancora il momento in cui una parola avrebbe portato a confessioni non più procrastinabili.
Un momento che una parte di Regina avrebbe voluto affrontare subito, senza remore, quasi per togliersi il pensiero una volta per tutte; e che un’altra parte, più timida e riottosa, sperava non giungesse.
- … ma Mr Brown non sapeva che la moglie aveva nascosto il denaro nella stufa, così è tornato a casa, bevuto come una spugna, e ha acceso il fuoco!  2
L’adolescente ghignò ascoltando la conclusione dell’aneddoto sui genitori del valletto di casa Mills.
- Immagino la gioia di Mrs Brown nello scoprirlo.
- Eddie giura che gli urli di sua madre si siano sentiti per tutto il quartiere!
Risero assieme, mentre in lontananza un orologio batteva le ore.
- Devo andare, – sospirò la giovane – Mia madre si starà chiedendo se sono ancora viva.
Locke si fece scuro in volto.
- Capisco, – commentò improvvisamente freddo.
Regina s’irrigidì. Ora anche Daniel iniziava ad accusarla per qualcosa che sfuggiva al suo controllo? Era deluso per non aver fatto cenno alla loro ultima conversazione? Se era per questo, anche il suo disappunto era notevole: non era certo stata la prima a perdersi in particolari la cui conoscenza nulla apportava alla sua esistenza. Anzi, a dirla tutta l’avevano annoiata. E in ogni caso, dovevano essere i cavalieri a introdurre certi discorsi, non le dame.
Non era galante. Non era educato. Non era corretto.
Come se fosse galante, educato e corretto stare qui.
Si fermò d’istinto, un vecchio insegnamento della madre in testa.
Quando il mondo non ti dà qualcosa, tu prendila.
Tra i mille difetti, Cora aveva comunque il merito di tramandarle massime di non scarsa utilità; e ora, era giunto il momento di verificare questa.
Tornò da Daniel, che già aveva iniziato a spazzolare il cavallo.
- Non mi ha chiesto l’unica cosa che avresti dovuto chiedermi.
- Cosa, di grazia?
La domanda retorica la esasperò.
- Come “cosa”? – alzò il tono, incurante di attirare attenzioni sgradite – Non puoi farmi un discorso sdolcinato e poi fingere di essertene scordato! Abbiamo un conto in sospeso!
Irritato dagli strilli della padroncina, Ronzinante nitrì nervoso.
- Se la fai imbizzarrire è la fine! – l’adolescente sibilò, provando a calmare l’animale con buffetti sul collo muscoloso – Il tuo silenzio è stato la risposta, non credi?
- Ci sarebbe stato silenzio se tu mi avessi chiesto qualcosa in merito e io non avessi risposto Tu non hai neanche sfiorato l’argomento!
- Cos’avrei dovuto fare? Non avrei dovuto salutarti, provare a metterti a tuo agio e a strapparti quella solita smorfia depressa dalla faccia?
- Quale solita smorfia depressa? – Dio, Daniel poteva esser diventato più bello, ma restava il solito aspirante cavaliere senza macchia che si prefiggeva il compito di salvarla. Non sopportava quei comportamenti idioti – Io sto benissimo, grazie!
- Si vede come stai bene con qualcuno gestisce ogni singolo giorno della tua vita! – questa volta fu il giovane a urlare, dimentico del rimprovero fattole minuti prima – Sapevo che col fegataccio che ti ritrovi saremmo finiti a litigare, lo sapevo da quel giorno!
Anch’io sapevo che avremmo rovinato tutto.
Non aveva neanche voglia di piangere, tanta era l’indignazione. Umiliarsi era l’ultima delle cose che avrebbe fatto nella vita; decise di pronunciare un’ultima frase e di garantirsi un’uscita trionfale, dalle stalle e – soprattutto – dalla vita del servo.
- La mia vita e il modo in cui io la gestisco non ti competeranno mai, – disse avviandosi verso il portone.
- Perché competeranno sempre a tua madre.
L’affermazione la fulminò sul posto, facendola voltare di scatto. Daniel la guardava con una smorfia dura stampata sul volto solitamente allegro; una smorfia che faceva ancora più male perché accompagnava frasi tristemente vere.
L’odiava, in quel momento odiava Daniel Locke e il modo in cui per tutto quel tempo aveva infestato la sua mente come la malerba.
L’odiava e allo stesso tempo gli voleva il bene più profondo che avesse mai provato.
Perché Daniel non aveva paura di dire ciò che gli passava per la mente, nonostante fosse la figlia della padrona.
Perché non esitava a sbatterle in faccia la realtà, per quanto dura e dolorosa  potesse essere.
Perché nel corso degli anni l’aveva aiutata a prendere coscienza di chi era, di ciò che la circondava, delle menzogne in cui era quasi annegata
Perché le aveva fatto capire che era la verità.
È mia madre a gestire la mia vita.
Ma le cose stanno cambiando.
Tornò come una furia dal giovane.
Quando Daniel si era dichiarato, Regina aveva pensato che fosse ammattito.
 
Ora che l’afferrava per il bavero, che lo voltava e che con forza premeva le labbra contro le sue, fu certa che lui stesse pensando la stessa cosa.
 
 
 
“We'll just keep on trying,
we'll just keep on trying,
till the end of time.”

“Innuendo” - Queen
 
 
 
 
 
 
1: il “Lady’s mile” era una sorta di percorso equestre dedicato alle dame e situato in Hyde Park – http://www.victorianlondon.org/entertainment/hydepark.htm;
2: ho modificato un paio di battute tratte dal famosissimo, tragicissimo, e da me amatissimo film “Titanic” del 1997.
 
 
 
 
 
 
N. d. A. : Salve! ♥
Innanzitutto, spero che il vostro 2015 sia iniziato benissimo, che l’eventuale ritorno alla routine sia stato meno traumatico del previsto e – è proprio il caso di dire “dulcis in fundo” – che la Befana vi abbia portato tanta cioccolata e poco carbone – un pochino però ci sta sempre! Chi più, chi meno, tutt* siamo anche un po’ Villains! xD
Passando alla nota dolente… Ahimè, questo capitolo non mi fa impazzire; o meglio, non lo considero uno dei migliori tra quelli scritti finora. A essere sincera, la parte RumBelle mi piace, non mi lamento – parere personale, eh, non fatevi scrupoli a smontarmi se non siete d’accordo; è l’altra a lasciarmi un po’ perplessa… È la prima volta che faccio interagire in simile modo Regina e Daniel, e temo d’aver combinato un macello con la caratterizzazione della giovane. Mi affido al vostro giudizio!
Rispondo a una domanda che in molt* mi avete posto: la servitù di casa Gold tornerà. Bisognerà aspettare ancora un pochino ma, affezionata come sono a Killian, Emma, Mary Margaret e agli membri della ciurmaglia, non ho alcuna intenzione di escluderli. ;)
Ringrazio di vero cuore quant* leggono la fanfiction, l’aggiungono a una categoria e/o mi fanno conoscere il loro parere qui o sulla pagina Facebook “Euridice’s World”: i vostri consigli e, nel caso, critiche sono sempre benaccetti e possono solo aiutarmi a migliorare!
Salvo imprevisti, a sabato 24 gennaio! Tanti baci! :) :***
Euridice100
   
 
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