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Autore: Akemichan    12/01/2015    3 recensioni
"Per gli Alleati e per la Germania, sarà il giorno più lungo." E. Rommel.
Il 6 Giugno 1944 è il giorno che ha cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale, permettendo agli alleati di sbarcare in Francia ed iniziare la controffensiva contro la Germania. Tuttavia, è stato anche il giorno che ha cambiato le sorti di molti soldati presenti, sia i morti e i sopravvissuti.
Come Sabo, nobile francese, che si è ritrovato a fare i conti fra il suo sogno, la sua famiglia e un paese invaso da liberare. Come Ace, che è diviso tra il desiderio di vendicare un fratello e il dovere di proteggere l'altro, senza dimenticare la promessa che ha fatto ad entrambi. E assieme a loro le storie delle persone che amano, dal fratellino Rufy con il sogno di diventare campione olimpico a tutte quelle persone che hanno caratterizzato la loro vita fino a quel fatale 6 Giugno.
Questa è la loro storia, la storia di tutti loro.
1° Classificata al Contest "Just let me cry" indetto da Starhunter
2° Classificata al Contest "AU Contest" indetto da Emmastar
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ace/Marco, Koala, Marco, Monkey D. Rufy, Sabo, Sabo/Koala, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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1940 - Parte I
 
 
Château d'Ô, 13 Maggio
 
«Che cavolo succede?!» esclamò Sabo con la voce ancora impastata dal sonno, svegliato improvvisamente da quello che pareva un terremoto al piano inferiore.

Si sfregò un attimo gli occhi per riprendersi: aveva deciso di provare a fotografare un'alba col risultato di aver passato a dormire il resto della mattinata. Uscì dalla stanza e si affacciò dalla finestra del corridoio degli specchi in direzione della città: nel parcheggio a destra del castello si trovavano quattro camion e alcuni addetti stavano caricando delle casse.

Aveva risolto il mistero del rumore che l'aveva svegliato, ma non significava che avesse tutte le risposte. Non aveva idea di chi fosse tutta quella gente, né di cosa stessero facendo, perché suo padre non ne aveva fatto cenno la sera precedente.

Prima però aveva bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. Si lavò velocemente, si vestì e scese in cucina. La cuoca non c'era, per cui aprì la dispensa e prese un po' di pane e marmellata. Mentre si sedeva sul tavolo per mangiare, notò che delle scatole. Incuriosito, si allungò e alzò la confezione: dentro erano state inserite una serie di pentole, del servizio buono.

Sabo cominciava ad avere un sospetto. La politica era stata sempre fondamentale per gli affari di famiglia, ma da un anno a questa parte, ogni volta che era lui stesso ad introdurre l'argomento, suo padre cambiava discorso. Gli aveva anche accennato all'idea di arruolarsi quando la Francia aveva dichiarato guerra alla Germania e, non avendo ricevuto risposta, aveva inviato la domanda senza la sua autorizzazione.

Tuttavia, nonostante lo spauracchio della Grande Guerra, a Parigi e nei suoi dintorni la situazione era ancora abbastanza tranquilla. L'esercito si era mobilitato verso la linea Maginot, ma erano passati sei mesi e non era successo molto. Certo, la Germania aveva invaso la Danimarca, ma erano avvenimenti così lontani che non sembravano nemmeno reali. Perché allora un trasferimento? L'unica cosa cambiata in quei mesi era il governo a Parigi, ma suo padre era stato favorevole al nuovo presidente.

Si ingozzò quasi con il pane e marmellata e poi risalì al piano superiore e bussò nell'ufficio di suo padre. Quando entrò, rimase per un attimo stupefatto: tutti i mobili erano vuoti. Era quasi irreale, come stanza. Suo padre stava finendo di inserire dei documenti e gli oggetti che un tempo esponeva sulla sua scrivania all'interno di una scatola, mentre poneva quelli di valore all'interno di una valigia.

«Ah, ti sei alzato finalmente» commentò suo padre, quando lo vide. «Inizia a preparare la valigia con le cose che ti servono di più. Mando qualcuno a prendere il resto.»

«Che cosa significa?» domandò Sabo, che non riusciva a staccare gli occhi dalle librerie vuote.

«Partiamo per gli Stati Uniti» rispose suo padre, che aveva ripreso a lavorare alla divisione degli oggetti personali. «Ci imbarchiamo da Bordeaux domani per Londra, e da là in aereo.»

«Perché?» Era una domanda stupida, se ne rendeva conto, dato che sapeva benissimo il motivo: evitare di abitare in un paese in guerra. «Ho fatto domanda per arruolarmi» aggiunse. «Non posso andarmene prima di aver ricevuto la risposta.»

Outlook fece una smorfia. «Vai a preparare la valigia.»

«Cosa hai fatto?» Sabo si avvicinò alla sua scrivania. «Sembri avere la certezza che non mi chiameranno.»

«Perché non hanno mai ricevuto la tua domanda.» Finalmente suo padre focalizzò la sua attenzione su di lui. «Cosa credi, che sarei stato disposto a mandare i miei figli a morire in trincea come gente qualunque? Abbiamo un impero qui! Ci ho messo anni a costruirlo e l'ho aumentato nonostante la crisi. Tu e Stelly dovete solo preoccuparvi di mantenerlo.»

Sabo tremò per un attimo. Aveva trovato strano che non gli avessero mai risposto e per sicurezza aveva mandato altre domande a distanza di mesi, ma non aveva mai sospettato che suo padre non le avesse mai spedite o avesse usato la sua influenza per farlo escludere dalle liste. A pensarci, però, era quasi ovvio.

«Non me ne importa nulla della tua maledetta impresa!» sbottò, sbattendo le mani sulla scrivania. «Non lascerò la Francia. A te non interessa, ma io voglio combattere in quelle trincee per la mia patria! E se fossi un uomo vero, lo faresti anche tu invece di scappare come un codardo.» Lo schiaffo lo prese alla sprovvista e non riuscì ad evitarlo.

«Non sono riuscito a toglierti queste idee dalla testa, ma prima o poi mi ringrazierai» disse suo padre, con voce tagliente. «Non m'importa quello che pensi. Per diciott'anni ti ho vestito, dato da mangiare, educato. Non manderai tutto questo in fumo per un capriccio.»

In quel momento un dei camerieri bussò appena alla porta che Sabo aveva lasciato aperta. «Mi scusi per il disturbo, signore. I primi tre camion sono partiti. E ho avuto la conferma che la casa di Parigi è stata perfettamente svuotata.»

«Benissimo» commentò Outlook. «Potete iniziare a caricare i vestiti negli altri due. Domani, quando ce ne saremo andati, dovrete impacchettare le ultime cose e spedirle allo stesso indirizzo.» Il cameriere annuì e fece per andarsene, ma venne richiamato. «Ho un altro compito da affidarti: accompagna mio figlio in camera sua e assicurati che ci resti. Se non vuole preparare la sua roba, occupatene tu.»

«Certamente, signore.» Il cameriere non sembrava aver opinioni riguardanti il comportamento di Sabo, ma lui provò antipatia istantanea. Nulla di personale, semplicemente lo vedeva come un'estensione naturale della decisione di suo padre.

«Faccio da solo» sbottò, quando il cameriere fece segno di volerlo afferrare per il braccio. Uscì dall'ufficio e si incamminò verso la sua camera. La porta di Stelly era aperta perciò lo vide mentre preparava alacremente la sua roba.

Il suo cervello lavorava a pieno regime: aveva deciso che non avrebbe lasciato la Francia e che in qualche modo sarebbe riuscito a farsi arruolare. Con il cameriere che sorvegliava i suoi movimenti era difficile poter attuare qualcosa.

«Posso almeno andare in bagno?» commentò ironicamente.

«Certamente, signore. La accompagno.» Il cameriere era inespressivo ma inflessibile.

«Lascia perdere» scosse la testa Sabo, aprendo l'armadio.

L'unico vantaggio che aveva al momento era poter preparare i suoi bagagli da solo. Mentre tirava fuori la roba e la poggiava sul letto, iniziò a formare il suo piano. Suo padre aveva detto che sarebbero partiti l'indomani mattina, quindi aveva ancora un po' di tempo.

Doveva pensare alle cose che avrebbero potuto servigli se sarebbe dovuto rimanere a Parigi da solo. Aveva bisogno di un paio di cambi, almeno, vestiti leggeri. Una giacca. Delle scarpe comode. La sua macchina fotografica. Tutte cose che fortunatamente poteva inserire nella valigia senza destare sospetti. Lasciò momentaneamente lo zaino da un lato: quello non l'aveva messo nella valigia, ma aveva aspettato una distrazione del cameriere, quando gli addetti erano venuti a ritirare i primi scatoloni, per farlo scivolare sotto al letto.

Suo padre mantenne la parola data sul fatto che non intendeva essere contraddetto e gli impedì di lasciare la sua camera anche per la cena, che gli fece consegnare in camera. Per Sabo andava benissimo, dato che fu l'unico momento della giornata in cui il cameriere, preso da altri impegni, lo lasciò da solo.

Tirò fuori lo zaino da sotto il letto e vi infilò dentro tutto il necessario che aveva messo in cima valigia, per averlo a portata di mano. Poi prese la Leica I: Ace non l'aveva portata con sé perché sosteneva che la sfida fra loro due sarebbe stata leale unicamente se fosse riuscito a comprarsi una macchina fotografica con le sue forze. Per quel motivo Sabo l'aveva utilizzata per nascondere i suoi risparmi: un rotolo da mille e cinquecento franchi al posto del rullino. Ne fece tre mucchietti diversi e li nascose uno nello zaino e due nelle scarpe.

Quando il cameriere tornò, lo trovò alla scrivania intento a scrivere una lettera, già con il pigiama. I piatti erano vuoti e impilati su un lato. La valigia era chiusa e le ultime cose erano state inserite nell'ultima scatola: il giorno successivo ci sarebbero state posizionate le lenzuola per poi essere spedite con l'ultimo carico.

«Signorino, credo sia meglio andare a riposare per il viaggio di domani.» Il cameriere sembrava rassicurato dal suo comportamento.

«Finisco di scrivere questa lettera. Domani ti chiederò di imbucarla per me, devo avvertire delle persone che sto per arrivare negli Stati Uniti.»

Il cameriere sapeva dell'esistenza di Ace e Rufy, anche se non conosceva i dettagli della loro relazione, perciò prese quella frase come la certezza che Sabo si fosse ormai adattato alla situazione. «Certamente. Se dovesse aver bisogno di altro, sarò qui fuori.»
Sabo lasciò asciugare l'inchiostro, poi mise i fogli nella busta, la chiuse e scrisse l'indirizzo. La lasciò momentaneamente sulla scrivania, spense la luce e si mise a letto.

Non aveva intenzione di dormire e fortunatamente il fatto di aver poltrito fin dopo pranzo lo aiutava da questo punto di vista. La noia rischiava di farlo cedere, ma tenne duro finché non fu sicuro che non ci fosse più un solo rumore all'interno del castello. Sapeva che il cameriere era all'esterno della sua porta, quindi si alzò da letto con prudenza e, dopo aver aperto la finestra, attese se ci fossero dei movimenti, ma nulla.

Allora prese le lenzuola una alla volta e le avvolse ed attorcigliò per formare delle corde, quindi le legò assieme e poi una delle estremità alla maniglia della finestra. Mise la lettera nello zaino e se lo caricò in spalla. Poi balzò sulla finestra e si calò giù lentamente. Le finestre ai piani sottostanti erano buie e riuscì ad atterrare senza far rumore.

La sua camera dava sul lato opposto rispetto alla porta d'ingresso e questo significava che non c'erano ponti per attraversare il lago. Tuttavia, non c'erano nemmeno strade per tornare verso il cortile, solo la facciata, e di sicuro non poteva tentare di scassinare una finestra. Aveva pensato anche a questo, era il motivo per cui aveva tenuto addosso il pigiama.

Lasciò lo zaino al limite della riva e sgusciò lentamente in acqua per essere sicuro di fare il minor rumore possibile. Le anatre erano già rifugiate all'interno della loro tana sull'isoletta, ma se si fossero messe a starnazzare avrebbero coperto altri rumori, per cui non se ne preoccupava. Prese lo zaino e lo tenne in alto con la mano sinistra, mentre nuotava verso la riva opposta con le gambe e l'altro braccio. Era difficile e stancante, per cui non appena fu abbastanza vicino lanciò lo zaino, con l'erba che attutì il rumore, coprendo l'ultima parte del percorso con bracciate piene.

Una volta sull'altra sponda, si spogliò. Aveva deciso che avrebbe abbandonato il pigiama proprio in quel punto, a spregio. Era convinto che sarebbe stato abbastanza lontano da non doversi più preoccupare di suo padre. Si era portato dietro un asciugamano per asciugarsi, che fece la stessa fine del pigiama, quindi si mise uno dei due cambi che si era portato.

Zaino in spalla, si avviò verso il fiume e ne seguì il corso. Era così abituato a farlo che il fatto che fosse notte non lo ostacolava affatto. Superò il mulino e si diresse verso la casa dei fattori. Bussò la porta con forza e chiamò. «Dadan! Dogura! Magura!»

Ci misero un po' a rispondere, erano a letto e non avevano capito subito che era davvero qualcuno che bussava alla loro porta. «Che c'è? Ma sai che ore sono?» lo investì Dadan aprendo la porta. Poi si accorse di chi si trattava e capì subito che stava succedendo qualcosa.

«Sto scappando di casa» affermò Sabo, sgusciando fra lei e la porta ed entrando nella cucina. Gli altri contadini si erano affacciati dal dormitorio comune per vedere cosa stava succedendo.

«Cosa pensi di fare, stupido ragazzino?!» sbottò Dadan. La porta si chiuse di botto dietro di lei.

«Non voglio andare negli Stati Uniti, voglio rimanere in Francia e combattere.»

«Tu non sai cosa sia la guerra, lasciatelo dire da una che ci è passata una volta di troppo...» iniziò Dadan. «Vattene finché sei in tempo.»

«No.»

«Fa' quello che ti pare!» esclamò allora lei, sedendosi al tavolo e imponendosi di ignorarlo.

«Tuo padre non è d'accordo, vero?» domandò Magura.

«No» confermò Sabo. «Devo farlo da solo. Per questo sono qui: qualcuno può accompagnarmi a Parigi in auto? Devo arrivarci in fretta.»

«Cosa pensi di fare, una volta là?» Dadan teneva con forza la testa voltata da un'altra parte, come se la cosa non lo riguardasse, ma ascoltava tutto.

«Non lo so» ammise Sabo. «Ma lì almeno ho un tetto sulla testa, finché non riuscirò a farmi arruolare. Mio padre partirà domani, devo solo resistere una giornata.»

«Non sarà contento» affermò Dogura. «Non credo se ne andrà senza di te.»

«Lo farà, ha predisposto tutto da mesi e non ci rinuncerà per me» disse Sabo convinto. «Forse mi farà cercare, questo sì, ma una volta arruolato non potrà farci più nulla.»

«Comunque non abbiamo una macchina, quindi fila via.» Dadan stava solo cercando di proteggerlo, in realtà. Non voleva vederlo morire in guerra.

«Veramente c'è quella vecchia Citroën C4» intervenne Dogura, cosa che gli fece guadagnare un'occhiataccia. «Non la muoviamo da una vita, ma abbiamo ancora una tanica di benzina per le emergenze.»

«Prestatemela! Non ho la patente, ma so guidare.» Sabo guardò uno ad uno quei contadini con cui aveva passato l'infanzia e con cui era cresciuto. «Non voglio farvi finire nei guai per causa mia, ma non posso restare qui. Non voglio diventare come mio padre.»

«Col cavolo che ti lascio guidare per andare a sbattere contro il primo palo!» Dadan si alzò facendo cadere la sedia dietro di lei, aprì uno dei cassetti e estrasse roba che gettò per terra finché non trovò le chiavi della macchina. «Magura, accompagnalo tu» ordinò, consegnandogliele.

«Grazie» commentò allora Sabo, con un groppo in gola. Si rendeva conto che non era un addio, ma ci andava molto vicino. Non sapeva cosa gli sarebbe successo da lì in avanti, dove sarebbe stato inviato come soldato. E non sapeva se sarebbe morto. «So quello che faccio.»

«No, non lo sai» replicò Dadan, incredibilmente calma. «Non sai niente della guerra e io spero che non lo imparerai nella maniera peggiore.» Poi prese un sospiro. «Prova a morire e ti uccido.»

Doveva ammetterlo, era commosso. «Non succederà» promise, anche se sapeva che non dipendeva da lui. Provò ad abbracciarla, ma lei si ritrasse cercando di recuperare, invano, un po' di dignità e soprattutto di non piangere.

Sabo le facilitò il lavoro. «Ah, c'è un altro favore che vorrei chiedervi.»

«Ancora?! Cos'altro vuoi, il sangue?» sbraitò allora Dadan, recuperando la sua compostezza.

«Potete inviarla per me? Non sono riuscito a trovare un francobollo» disse Sabo, dopo aver estratto la busta dallo zaino e averla appoggiata sul tavolo.

Dadan ne scrutò l'indirizzo. «Ah, già, gli altri due!»

«Te la spediamo noi» lo assicurò Dogura. Nonostante la dichiarazione di guerra, le comunicazioni francesi funzionavano ancora normalmente, per cui non avrebbero dovuto esserci problemi nel farla giungere al destinatario.

Sabo li ringraziò ancora, abbracciandoli uno ad uno, tranne Dadan, naturalmente, a cui si limitò a dare una pacca sul braccio. Poi seguì Magura all'esterno, fino a raggiungere il bordo della strada che portava al paese vicino, Mortrée: l'automobile era parcheggiata in un piccolo viottolo seminascosto dalle piante. Non era stata usata da anni, e si vedeva: era ricoperta dalle piante ed arrugginita.

Una volta ripulita e con il serbatoio riempito, Magura cercò di metterla in moto, ma fu solo dopo che Sabo l'ebbe spinta fin nella strada principale che il motore, seppur cigolando, si avviò. In circostanze normali, Sabo impiegava tre ore per raggiungere Parigi, ma la C4 non era potente come la Roll-Royce di suo padre e Magura guidava con una prudenza estrema, sia perché non si fidava dell'automobile e del rumore che faceva, sia perché non era sicuro di riconoscere le strade al buio. Sabo pensò più volte che forse a piedi ci avrebbe impiegato meno tempo.

Arrivarono a Parigi alle prime ore dell'alba, ed impiegarono ancora un po' di tempo perché Magura non conosceva la viabilità dell'enorme città e raggiungere l'Île Saint-Louis era ancora più complicato dato che si trovava in pieno centro.

«Frena e torna indietro!» esclamò Sabo, proprio quando avevano finalmente trovato la strada giusta. «Guarda là» aggiunse poi, indicando con un cenno della mano. Davanti alla porta di una delle residenze, Magura vide che erano appostate due guardie.

«Pensi che tu padre sappia già che sei scappato?» gli domandò, mentre faceva retromarcia con attenzione e imboccava un'altra strada.

«Non lo so, forse. O forse sono lì solo per sicurezza per preparare il trasloco» ipotizzò. Certo il tempo per chiamare qualcuno l'avrebbe avuto, se l'avesse scoperto. Comunque fosse, aveva perso l'unico tetto sulla testa.

Magura parcheggiò ad un lato della strada, in attesa di ordini. Fosse stato per lui, sarebbe tornato a Mortrée con sollievo. Sabo aveva abbassato il finestrino e vi aveva appoggiato il gomito per riflettere. La sua situazione non era molto dissimile da quella della Francia dalla dichiarazione della guerra in poi: grandi propositi e sicurezza, scarsa capacità di realizzazione. Troppa fiducia nei loro mezzi.

Lungo la senna si stavano spegnendo le luci: fra poco suo padre si sarebbe svegliato, se già non l'aveva fatto. «Portami alla stazione. Gare Saint-Lazare» specificò.

Aveva preso la sua decisione: sarebbe andato a nord-ovest, verso la linea Maginot.
 
Les Andelys, 20 Maggio
 
Sabo aveva preso il treno la mattina stessa, senza una destinazione precisa. Era stato costretto a fermarsi a Limay, perché la notizia che la Germania aveva invaso Belgio e Olanda e aveva sfondato le impreparate linee degli alleati a nord aveva finalmente raggiunto anche il resto della Francia e le linee ferroviarie erano state interrotte per permettere il passaggio delle armi e dei rinforzi.

Aveva rubato una bicicletta e si era procurato una mappa della zona, poi aveva proseguito seguendo semplicemente la direzione nord: non aveva senso cercare la linea Maginot quando era chiaro che i tedeschi avevano deciso di aggirarla. Si rese subito conto che stava procedendo in senso contrario rispetto alla maggior parte della gente, perché sulle strade incontrava solo persone che cercavano di raggiungere Parigi, o città ancora più a sud. Comprensibile, dato che si trattava per la maggior parte di famiglie con bambini.

La scusa di essere in fuga dall'esercito tedesco gli permetteva di farsi ospitare gratuitamente all'interno delle fattorie che incontrava nelle strade meno trafficate che aveva deciso di percorrere. Di solito dormiva nel granaio, ma non si lamentava, aveva un tetto sulla testa e spesso anche un pasto caldo. Si sentiva in colpa a mentire così spudoratamente, ma doveva conservare i suoi risparmi perché non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato per farsi arruolare.

Al settimo giorno della sua avventura solitaria, la fattoria dov'era stato ospitato era piuttosto vicina alla città, per cui non si stupì quando fu svegliato dal rumore di auto sulla strada. Ma quando queste cominciarono ad essere troppe e troppo rumorose, balzò su dal suo giaciglio di paglia e si affacciò per vedere la strada che portava verso Les Andelys: non erano automobili, erano carri di soldati.

Aveva finalmente trovato l'esercito francese! Afferrò lo zaino e si precipitò fuori: la famiglia che l'aveva ospitato era all'esterno della loro abitazione, a fissare la coda di camion che passavano a poca distanza. Gli adulti erano preoccupati, i giovani estasiati esattamente come Sabo.

«Chi sono? Dove vanno?» domandò, ma nessuno aveva risposte da dargli. Avrebbe dovuto chiederlo personalmente. Quando l'intera colonna fu passata per fermarsi all'interno della città per i rifornimenti, Sabo fece una corsa verso la Senna per darsi una breve lavata: doveva presentarsi al meglio per non dare l'idea di essere un vagabondo. Indossò il vestito che aveva usato di meno durante il viaggio e poi entrò in città.

Era impressionante vedere come la zona si era animata con l'arrivo di quel gruppo di soldati. Gli uomini in divisa erano ovunque ma il loro umore pareva buono, per cui chiacchieravano con piacere con le persone che erano interessate all'andamento della guerra. Vivevano tutti nell'illusione che la situazione non fosse grave come appariva, e che sarebbe stato un altro 14-18, quando almeno i civili erano stati risparmiati. La Polonia e la Norvegia avrebbero dovuto essere miglior esempi.

Sabo stesso era preso da questa sorta di follia collettiva per cui l'esercito francese non poteva essere sconfitto e camminava per le strade come in un sogno, immaginandosi con quella divisa addosso. Si fermò accanto ad un gruppo di uomini che stava conversando tra di loro: «Chi sono?».

«Il Quinto Gruppo Franco Motorizzato di Cavalleria, li mandano a Rouen per creare una nuova linea difensiva» rispose uno degli uomini, con tono cupo.

«Rouen?» ripeté Sabo, accedendo alle sue nozioni di geografia. «Non è già troppo dentro la Francia?»

«Appunto.»

La sua soddisfazione per aver finalmente trovato l'esercito francese non fu intaccata dal dubbio che la destinazione da raggiungere era sospetta. Fermò il primo gruppo di soldati che sembrava avere poco più della sua età. «Scusate, posso parlare con uno dei vostri superiori?»

Lo guardarono con curiosità. Poi uno di loro fece un cenno in avanti. «Vedi quello là con i capelli lunghi e biondi? È il Colonnello Bastille.»

Sabo annuì. «Grazie.» Si avvicinò con discrezione all'uomo che stava finendo di discutere con la proprietaria della bottega che avevano appena praticamente svuotato ed aspettò che si accorgesse della sua presenza. «Buona giornata, Colonnello. Io vorrei arruolarmi nell'esercito.»

Bastille lo scrutò. «Quanti anni hai, ragazzo?»

«Diciotto.»

«Sei troppo giovane, torna a casa» fu la brusca risposta.

«Per la leva, ma non per l'arruolamento volontario!» ribatté Sabo, prima che Bastille si voltasse e terminasse la conversazione. Aveva fatto le sue ricerche. «Avevo provato a fare domanda, ma le lettere non sono arrivate. Non ho altra scelta che chiederlo di persona.»

«Be', non qui e non ora. Stiamo andando sul fronte, se non l'hai capito, e di certo non ci porterò un soldato senza nessun addestramento.»

«Allora mi mandi dove posso farne uno» replicò Sabo. Se c'era una cosa che Rufy gli aveva insegnato in quegli anni era a non mollare la presa.

Prima che Bastille potesse replicare ancora, fu affiancato da un uomo più anziano, con cicatrici attorno agli occhi e l'aspetto autorevole. «Generale di Divisione Issho» si presentò, porgendogli la mano. Significava che era a capo dell'interno esercito all'interno di Les Andelys. «Che sta succedendo?»

Sabo capì che doveva parlare prima che Bastille intervenisse per dire che la conversazione era finita. «Vorrei arruolarmi. Qualunque posto va bene, vorrei solo combattere per il mio paese.»

L'atteggiamento di Issho era decisamente più accomodante di quello del Colonnello. «Qual è il tuo nome?» domandò gentilmente. Quando Sabo glielo disse, capì immediatamente, dall'espressione dei loro occhi, di aver commesso un errore. Non poteva mentire perché necessitava dei documenti per arruolarsi in maniera legale, ma non aveva considerato quanto suo padre potesse essere famoso. «Della stessa famiglia Outlook delle Imprese Outlook?»

«Ma avevo sentito che erano partiti per l'America» aggiunse Bastille. Il tono preannunciava che non aveva apprezzato la loro fuga e questo fece risalire l'opinione che Sabo si era creato su di lui.

«Magari!» esclamò, sperando di suonare convincente. «È solo un'omonimia.» Poi cercò di cambiare immediatamente discorso. «Allora, prenderete in considerazione la mia candidatura?»

«Non possiamo arruolarti noi così direttamente» spiegò Issho. «Devi passare una serie di controlli e di visite e naturalmente essere addestrato. Ma posso mandare una richiesta alla sede centrale, se hanno disponibilità in uno dei campi d'addestramento.»

«Grazie! Sarebbe fantastico!» Sabo poteva dirsi soddisfatto: ovviamente immaginava che non avrebbe potuto semplicemente entrare nella compagnia. «Posso chiedervi un altro favore?» chiese, approfittando del fatto che Issho pareva essere una persona gentile. Non aveva intenzione di lasciarli partire con una promessa, li avrebbe seguiti finché non l'avrebbero mantenuta. «So che state andando a Rouen, e quella era... anche la mia destinazione. Mia zia vive lì e con questa storia della guerra i miei genitori sono preoccupati. I treni non partono e per ora sto andando a piedi...»

Issho lo bloccò immediatamente. «Non c'è alcun problema. Prendi la tua roba e vai da uno dei camion e dì all'autista che ti ho autorizzato io a salire. Entro stasera staremo a Rouen.»

«Ma Generale!» protestò Bastille, che fino a quel momento era stato zitto, anche se con lo sguardo torvo.

«Stia tranquillo, Colonnello, dubito che i tedeschi riusciranno a raggiungerci sulla strada» rispose Issho calmo. «E se così fosse, di sicuro qui non sarebbe più sicuro.» Poi tornò a rivolgersi a Sabo: «Ricordati di lasciarmi l'indirizzo a cui potrò contattarli per l'arruolamento».

«Certamente! Grazie!» Ce l'aveva fatta e quasi non ci poteva credere. Avrebbe avuto un passaggio per il fronte senza dover sprecare energie a pedalare e sarebbe riuscito ad arruolarsi. Il pensiero dei tedeschi oltre i confini francesi era diventata improvvisamente una notizia lontana.

Solo quando Sabo si fu allontanato, Bastille si permise di dire al suo superiore quello che pensava dell'intera situazione. «Lei è troppo permissivo, Generale. La situazione è già abbastanza difficile senza mandare dei bambini in guerra» commentò. «Ed è altamente irregolare trasportare un civile a bordo dei nostri mezzi.»

«Ha notato i suoi vestiti?» Issho non sembrava impressionato da tutta la storia.

«No... Voglio dire, erano sporchi e usurati, ma mi pare normale se stava andando a Rouen a piedi.»

«È vero che erano rovinati, ma io parlavo della stoffa. Decisamente di valore. Non lo indosserebbe normalmente qualcuno che dovrebbe viaggiare a lungo, né qualcuno con poche disponibilità economiche.»

Bastille rimase ancora una volta impressionato dalla capacità intuitiva del suo superiore, cosa che lo rendeva orgoglioso di stare sotto il suo comando. «Che cosa significa, allora?»

«Penso che abbia mentito sul fatto di non essere parte della famiglia Outlook. Potrei ricordare male, ma credo che abbiano due ragazzi, e uno di loro di circa quell'età» spiegò Issho. «Non manderei nessun ragazzo a morire in guerra, se potessi evitarlo. Con un nobile e un imprenditore bisogna fare ancora più attenzione. Possono rovinare carriere.»

«È una seccatura» confermò Bastille, dando voce al pensiero del suo superiore. «Che cosa pensa di fare?»

«Appena arrivati a Rouen, cerchiamo di confermare i miei sospetti. Poi, se le comunicazioni funzioneranno, contatteremo la famiglia. La decisione è loro.»

Sabo non era a conoscenza dei sospetti del Generale, era troppo impegnato a godersi del senso di vittoria che provava. Da quando aveva lasciato il castello in tutta fretta aveva vissuto nell'incertezza totale, ma finalmente aveva un obiettivo e una possibilità concreta. Per questo non si sentiva in alcun imbarazzo a stare in mezzo a tutti quei soldati che lo scrutavano curiosi, ma cercava di fissarli per imparare tutto ciò che poteva.

«Come funziona?» domandò al soldato più vicino a lui, quando la sola vista non bastò più. Stava indicando il suo fucile.

Il soldato lo fissò, poi si guardò intorno a disagio. Un altro, seduto dall'altra parte, scosse la testa e si spostò dal suo sedile per avvicinarsi. «Ti faccio vedere io» disse, allungando il fucile davanti a lui. «Questo è un Mas-36, ha solo cinque colpi, ma in sequenza.» Aprì il caricatore, mostrò i proiettili all'interno. Li estrasse, li rimise al posto e ricaricò il fucile. Aveva fatto tutti quei movimenti in una manciata di secondi.

«Con la punta, pulisci la canna quando si blocca.»

Sabo era stupefatto. Non l'aveva mai nemmeno tenuto in mano, un fucile. Senza il coraggio di chiedergli di provarlo, tentò di replicare il movimento solamente con le mani.

«Eh, così è troppo facile!» esclamò un altro soldato, che aveva alzato il dito per mostrare la fasciatura al pollice. I caricatori potevano fare brutti scherzi, se non li si sapeva maneggiare con cura. Evidentemente doveva essere un episodio famoso all'interno della truppa, perché tutti risero ricordandolo. Nonostante la presenza di Sabo, l'atmosfera si fece più rilassata.
Forse, a quel punto, l'unico non ancora a suo agio era proprio Sabo, che stava desiderando ancora più ardentemente essere lì, in mezzo a loro, con la stessa divisa.
 
   
 
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