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Autore: Chupacabra19    17/01/2015    0 recensioni
Le meduse sono animali che tutti scansano, perché di loro ci ricordiamo solo il dolore che ci lasciano. Ma se sappiamo guardarle, sono bellissime. Sono eleganti, quasi eteree. Non nuotano, ma si lasciano trasportare passivamente dalle correnti marine. Lei era esattamente come loro. Nessuno sapeva guardarla per quello che era davvero, tutti la scansavano per le sue risposte secche e i suoi silenzi che gridavano aiuto. Perciò viveva come loro, lasciandosi trasportare passivamente dal susseguirsi delle giornate.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 2

 

La sposa e lo sposo uscirono dalla chiesa tenendosi per mano. Tutti gli invitati applaudirono. Al posto delle solite colombe, furono liberate in aria delle magnifiche farfalle arancioni, lasciando tutti meravigliati e col naso all’insù. La folla accorse intorno ai protagonisti, chi si abbracciava, chi si baciava e chi si congratulava. L’atmosfera era festosa e rumorosa. Finite le usanze, i vari parenti ed amici furono smistati ai tavoli, dove fu servito un menù ricco e delizioso. Fortunatamente, Leah trovò tutto di suo gradimento. Avendo gusti difficili, era raro accontentarla. Al suo tavolo erano presenti anche i nonni, che non persero occasione di soffocarla con mille domande. Con un falso sorriso, rispondeva ad ogni loro quesito, fingendo di gradire la loro compagnia. I genitori intanto criticavano la scelta dei fiori utilizzati per le decorazioni, a loro avviso gli ibiscus erano troppo stile “Hawaii”, a differenza delle loro amate dalie. Durante il pasto, una band salì sul palco, allietando la serata con dolci melodie. Le lanterne donavano una sensazione di intimità, rendendo tutti più complici e affettuosi. La cerimonia pareva non terminare mai, tanto che la musica si fece più incalzante, invitando gli ospiti a raggiungere la pista da ballo. Giovani, adulti e anziani ballavano l’uno di fianco all’altro. Leah, ormai rimasta sola al tavolo, controllò il cellulare. Stavolta la spia azzurra era presente. Peccato che il messaggio non fosse da chi aspettasse.

Com’è il matrimonio? Almeno tu fai qualcosa, io sono attaccata alla televisione.

Si trattava di Megan, la sua migliore amica. Si erano conosciute all’età di otto anni, in terza elementare, dopo essersi trasferita. All’inizio il loro rapporto non era dei migliori, spesso erano finite dalla preside per essersi picchiate e tirate i capelli, ma col tempo si erano avvicinate. Ogni mattina si incontravano al parco, entrambe svolgevano un lavoretto estivo, giusto per non restare fisse chiuse in casa. Facevano le dog sitter e ne erano felici, dopotutto era una scusa per ritrovarsi, uscire e guadagnare qualche soldino in più.

Una noia Meg, preferirei essere al tuo posto. Queste scarpe mi stanno uccidendo.

Bloccò il telefono e lo rigettò in borsa, appoggiando i gomiti sul tavolo, in modo da sorreggere la testa con i pugni. Annoiandosi, cercava qualcosa che potesse catturare la sua attenzione, ma niente era reperibile. Spostandosi una ciocca dietro l’orecchio, si alzò, abbandonando la sua postazione. Si sfilò i tacchi e camminò su per la collina. La location era mozzafiato. Si trovavano infatti su una collina ricca di flora, dalla quale si poteva godere di un panorama fantastico. Leah raggiunse la cima. I fili d’erba le solleticavano le piante dei piedi, i quali erano finalmente liberi da quelle scarpe assurde. Seduta, scrutò la bellezza di quel luogo. Il tramonto primeggiava in cielo, colorando tutto di rosa e arancio. Assolutamente romantico. Se solo lui fosse qui, pensò. Una mano si posò sulla sua spalla. Si girò di scatto e vide una figura alta.

-Ehi scusami, disturbo? Sto scappando anch’io da quel chiasso.

Un ragazzo alto e magro le sorrideva, sforzandosi di non arrossire. Leah non rispose subito, anzi, rimase a fissarlo negli occhi, cercando di ricordare se lo conoscesse o avesse visto già da qualche altra parte. Lui, d’altro canto, aspettava una sua risposta. I suo grandi occhi grigi erano decorati da alcune pagliuzze dorate, le sue labbra, leggermente carnose, formavano un cuore.

-Nono, tranquillo. Siediti pure. – disse, tornando a guardare il panorama.

Egli si sedette e arricciò le maniche della camicia grigia. I capelli castani erano corti ,mossi e ribelli, apparendo spettinati. Leah lo guardava con la coda dell’occhio, sperando che questo non se ne accorgesse. Silenzio. Durò molto. Provava molto imbarazzo a stare lì, accanto a quello sconosciuto. La pancia brontolava, aveva ancora fame. Il cibo era buono, ma le porzioni erano piccole. Portò un braccio all’altezza dello stomaco, facendo una leggere pressione. Sperava di smorzare quei rumorini fastidiosi. Se li avesse uditi sarebbe stato ancora più imbarazzante.

Il ragazzo esplorò la tasca dei suoi jeans aderenti e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Marlboro rosse. Sul suo volto si formò una smorfia. Leah credeva di fare l’indifferente, ma in realtà lo stava fissando.

-Hai un accendino? – disse con una sigaretta già fra le labbra.

-No, mi spiace. Non fumo.

Il ragazzo corrucciò la fronte, stupito.

-Sul serio? Mi sembravi il tipo.

Ora fu Leah a mostrarsi stupita. Si girò nella sua direzione, accavallando le gambe.

-E perché mai?

Lui fece spallucce.

-Boh, pensavo così e basta.

Lei sospirò, facendo spallucce a sua volta. Lui sorrise e mise al suo posto il suo piccolo vizio.

-Beh? – Continuò lui.

-Beh cosa?

-Come ti chiami?

Per un attimo lo guardò male, quel suo atteggiamento distaccato la irritava. Era strano.

-Leah.

Lo sconosciuto portò le gambe al petto e vi si appoggiò.

-Uhm, e che significa?

-Dipende dalla lingua d’appartenenza, secondo quella ebraica “stanca”, secondo quella irlandese “raggio di sole”.

Lui si distese, cercando una posizione comoda. Intrecciò le mani dietro la testa.

-E secondo te, quale ti si addice meglio?

Lei fece lo stesso, si sdraiò. Il cielo si era fatto più scuro, le stelle brillavano. Non ne aveva mai viste così tante. Era davvero un luogo magico.

-Credo “stanca”.

Fortunatamente il tempo aveva tenuto, nemmeno una goccia di pioggia o una nuvola nera. Il cielo era di un blu intenso. Avrebbe voluto essere al suo fianco, baciarlo. Invece si ritrovava lì, ad uno stupido matrimonio, accanto ad uno strano tipo.

-Uhm, ok. Senti, cosa ne pensi di queste stelle?

Leah non capiva. Non capiva il suo comportamento, la sua domanda. Non capiva quale risposta desiderasse. Avrebbe dovuto rispondere semplicemente con un “sono bellissime” o qualcosa di più profondo? Insomma, avrebbe dovuto fare la superficiale o cercare di colpirlo, catturare la sua attenzione? Per qualche strano motivo, quel ragazzo la intrigava. Non per l’aspetto fisico, ma per il suo modo di approcciarsi. Voleva scoprire altro di lui, conoscerlo meglio. Così, sparò la prima cosa che le venne in mente.

-Penso che si sentano osservate. Penso che debba essere difficile essere una stella. Insomma, essere costretti a brillare, cercare di essere la più luminosa, sperare di essere notata per prima, diventare la stella di qualche coppia, essere dedicata ad una persona. E poi, sbam, spegnersi. Svanire nel nulla. E nessuno ti ricorderà, perché verrai scambiata con un’altra e sarai rimpiazzata. Dopotutto, sono tutte uguali viste da qua.

-Beh Leah, io non sono d’accordo. Ogni stella viene ricordata per quello che era. È inutile cercare di brillare, sperare di essere notate. Così si rischia solo di essere circondate da sguardi inopportuni. Una stella poco luminosa invece, sarà sicura di ottenere l’attenzione giusta, dalle persone giuste. Perché per loro sarà la più brillante, la più bella. È sbagliato sforzarsi di essere ciò che non siamo, bisogna sempre mostrare la propria vera essenza. Dopotutto, non dobbiamo piacere a tutti.

Detto questo, restarono entrambi in silenzio. Meditarono su quanto era stato detto. Con la scusa delle stelle, quel ragazzo era riuscito a far esprimere i pensieri di Leah, mascherandoli con un argomento banale. Una stella era diventata la metafora della vita. Una stella era diventata un consiglio indiretto. È sempre più facile parlare di se stessi attraverso un oggetto, un esempio. Se la domanda fosse stata chiara e diretta, Leah, così come qualsiasi persona, avrebbe risposto diversamente. Ad ogni modo, lei non staccò gli occhi dal cielo. Sapeva benissimo che il discorso di lui era giusto, ma sapeva anche che era impossibile essere una stella del genere, contenta del proprio aspetto. Era facile parlare per lui, dopotutto era un bel ragazzo. Cosa ne poteva sapere lui di stare nell’ombra? Sicuro di sé, sfacciato. Tratti caratteriali che a lei mancavano. Ma questo, era solamente ciò che lui dava a vedere, probabilmente anche lui cercava di essere chi non era in realtà. Perché diciamocela tutta, nessuno di noi non ha mai portato una maschera o si è sforzato di essere diverso. Fa parte della natura umana, Leah ne sapeva qualcosa. Il ragazzo scattò in piedi.

-Credo sia finalmente finita la festa.

-Menomale.

Leah rinchiuse nuovamente quei poveri piedi nelle scarpe col tacco. Sospirò e si alzò. Vide la gente salutare, allontanarsi, cercare le chiavi dell’auto nelle borse e tasche. Si incamminarono verso la folla e senza dirsi niente, si separarono, prendendo direzioni opposte. I suoi genitori stavano bisticciando su qualcosa, qualcosa di sicuramente futile. I nonni, invece, cercavano di ricordare se avevano preso o meno le pasticche. Senza degnarsi di lei, la famiglia raggiunse l’auto. Leah aprì lo sportello, fece salire per primi i nonni, e si apprestò ad entrarvi, quando udì una voce in lontananza. Le parve di sentire il proprio nome, qualcuno la stava chiamando. Si voltò velocemente, senza mollare la maniglia dell’auto.

-Ah Leah, eccoti. – riprese fiato, ponendo le mani sui fianchi. – Mi ero dimenticato di dirti che mi chiamo Noah, che non so cosa significa il mio nome e che ti trovo bellissima. Detto questo, spero di rivederti un giorno. A presto.

Lui sorrise, spostandosi il ciuffo che gli aveva coperto un occhio. Lei, pietrificata, si limitò a guardarlo voltarsi e andarsene. Le parole si erano bloccate, ostruendo la gola. Un nodo. Il cervello era andato in standby. Non riusciva a crederci, Noah non poteva averlo detto. Dallo stupore iniziale, Leah tornò con i piedi per terra. L’avrà detto giusto per provarci, sa di essere bello. Non lo pensava davvero. Mah, che tipo ho incontrato. Pensò.  

-Tesoro, chi era quel bel ragazzo.. un amico? – disse la madre sporgendosi dal finestrino.

-Diciamo di sì.

Giunti a destinazioni e parcheggiata la macchina, Leah, ancora sconvolta, quasi inciampò in qualcosa. Un miagolio stridulo si elevò.

-Meeeow!

-Attenta al gatto Leah, con quei trampoli sei pericolosa. – urlò il padre.

Moka purtroppo aveva il viziaccio di infilarsi fra i piedi, era difficile non pestargli una zampa o inciampare. Ma Leah non l’aveva pestato, quel miagolio era solo un richiamo d’attenzione. Era felice di vedere la sua padroncina. L’aveva aspettata a lungo davanti la soglia di casa. Leah scosse la testa, suo padre era un burbero. Giunta in camera, si spogliò, gettando l’abito sulla sedia. Indossò una camicia da notte bianca, con la stampa dello ying e yang. Moka si lanciò su una pantofola, spingendo con le zampe posteriori. I suoi affilati dentini penetrarono la stoffa. I suoi occhi erano diventati tutti neri. Bene, gli è preso il ruzzo. Stanotte non si dorme. Il micio abbandonò la preda e si infilò sotto il letto, tendendo un agguato. Dopo pochi secondi, saltò nuovamente su quell’innocente ciabatta, che se ne stava lì, immobile. Leah sorrise, pensava quanto fosse sciocco. In quel momento, si ricordò di non aver più guardato il cellulare. Infatti, era presente un messaggio in chat, sempre da parte di Megan.

Fatti coraggio, non durerà ancora a lungo. Derek?

Derek. Sprofondò nel cuscino, fissando il soffitto. Derek non si faceva sentire da giorni.

Eh ancora niente.

Ma come, non si è nemmeno presentato là? Replicò l’amica.

Proprio così..

Leah lo amava, con tutta se stessa. Uscivano da pochi mesi, è vero, ma erano stati giorni intensi. Era riuscito a darle emozioni e sensazioni che nemmeno poteva immaginare, era riuscito a renderla felice, o meglio, a farla sentire bene, a posto, quando era al suo fianco. Era riuscito a farla sentire viva, a donarle un senso. Non erano ancora ufficialmente fidanzati, Leah attendeva con ansia quel giorno. Sapeva che prima o poi glielo avrebbe chiesto. Erano molto affiatati, perciò tutto lasciava pensare che presto avrebbero formato una coppia. Ma allora perché tutti questi giorni di silenzio? Sola, abbandonata. Si sentiva così, dimenticata. Si portava dietro questa strana sensazione, la quale non svaniva nemmeno quando qualcuno le stava vicino. Perché non bastava rivolgerle parola o farle un sorriso, lei aveva bisogno di attenzioni, aveva la necessità di essere importante per qualcuno. Quel qualcuno però, non era rintracciabile.

Io l’avrei già mandato a quel paese, Leah.

Megan aveva un carattere più aggressivo. Era tenace, estroversa e non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Loro due erano l’opposto, ciò che mancava ad una era presente nell’altra, si completavano.

Io non ci riesco.. non riesco nemmeno ad essere arrabbiata, so solo che mi manca.

Le mancava eccome. Le mancava da morire. Le giornate sembravano sprecate, inutili. Tutto le appariva futile senza di lui. Si sarebbe accontentata di un suo messaggio, di una sua chiamata. Avrebbe fatto a meno anche di vederlo, ma odiava questo silenzio. La stava uccidendo, le parlava di troppe cose. Salutò Meg, e attaccò il cellulare in carica. Si strinse nel lenzuolo, assumendo la così detta posizione fetale. Secondo il linguaggio del corpo, ciò è segno di una personalità un po’ fragile, dal punto di vista emotivo, e insicura, la quale sente la costante necessità di protezione. La posizione fetale dice, inoltre, che la persona è generalmente molto coscienziosa, ordinata,e che tende a preoccuparsi eccessivamente, rimuginando spesso sulle cose. Le persone che assumono questa posizione appaiono forti all’esterno, ma sono in realtà molto sensibili. Leah era esattamente così. Ogni notte, infatti, non si addormentava subito, ma passava almeno un’ora a riflettere sulla giornata vissuta, sulle persone incontrate, sulle sue azioni. Domandandosi anche se avesse potuto cambiare qualcosa. Ogni nostra azione comporta una conseguenza. È il principio del meccanicismo, non esiste un effetto senza una causa. Ogni nostra scelta produce quindi una possibilità differente, una variante della stessa giornata. Spesso perciò, si trovava a pensare quante cose avrebbe voluto cambiare, quante cose avrebbero potuto essere diverse. Se solo avesse ascoltato un consiglio o se fosse uscita quel giorno, cose così insomma. Magari, adesso la sua vita sarebbe stata completamente diversa, migliore o chissà, ancora peggiore. Ma queste, purtroppo, sono cose che nessuno potrebbe mai sapere. A lei, però, piaceva crogiolarsi nei se e nei ma, fantasticando. Viveva nell’oblio, incastrata fra i sogni e la realtà, fra i pensieri e le azioni. Viveva nell’indecisione costante, temendo sempre d’esser più nel torto che nel giusto, perché dopotutto, lei era un errore. Mentre la mente viaggiava, un’immagine la colpì. Noah. Chissà chi era, da dove veniva, quanti anni avesse, cosa facesse nella vita. Non sapeva niente di lui, eppure le aveva lasciato qualcosa. Moka si arrampicò sul letto, si stiracchiò e si posizionò lungo l’addome della ragazza. Così, entrambi si addormentarono.

 

  
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