Capitolo
2
La sposa e lo sposo uscirono dalla
chiesa tenendosi
per mano. Tutti gli invitati applaudirono. Al posto delle solite
colombe,
furono liberate in aria delle magnifiche farfalle arancioni, lasciando
tutti
meravigliati e col naso all’insù. La folla accorse
intorno ai protagonisti, chi
si abbracciava, chi si baciava e chi si congratulava.
L’atmosfera era festosa e
rumorosa. Finite le usanze, i vari parenti ed amici furono smistati ai
tavoli, dove
fu servito un menù ricco e delizioso. Fortunatamente, Leah
trovò tutto di suo
gradimento. Avendo gusti difficili, era raro accontentarla. Al suo
tavolo erano
presenti anche i nonni, che non persero occasione di soffocarla con
mille
domande. Con un falso sorriso, rispondeva ad ogni loro quesito,
fingendo di
gradire la loro compagnia. I genitori intanto criticavano la scelta dei
fiori
utilizzati per le decorazioni, a loro avviso gli ibiscus erano troppo
stile
“Hawaii”, a differenza delle loro amate dalie.
Durante il pasto, una band salì
sul palco, allietando la serata con dolci melodie. Le lanterne donavano
una
sensazione di intimità, rendendo tutti più
complici e affettuosi. La cerimonia
pareva non terminare mai, tanto che la musica si fece più
incalzante, invitando
gli ospiti a raggiungere la pista da ballo. Giovani, adulti e anziani
ballavano
l’uno di fianco all’altro. Leah, ormai rimasta sola
al tavolo, controllò il
cellulare. Stavolta la spia azzurra era presente. Peccato che il
messaggio non
fosse da chi aspettasse.
Com’è
il
matrimonio? Almeno tu fai qualcosa, io sono attaccata alla televisione.
Si trattava di Megan, la sua
migliore amica. Si erano
conosciute all’età di otto anni, in terza
elementare, dopo essersi trasferita.
All’inizio il loro rapporto non era dei migliori, spesso
erano finite dalla
preside per essersi picchiate e tirate i capelli, ma col tempo si erano
avvicinate. Ogni mattina si incontravano al parco, entrambe svolgevano
un
lavoretto estivo, giusto per non restare fisse chiuse in casa. Facevano
le dog
sitter e ne erano felici, dopotutto era una scusa per ritrovarsi,
uscire e
guadagnare qualche soldino in più.
Una
noia Meg,
preferirei essere al tuo posto. Queste scarpe mi stanno uccidendo.
Bloccò il telefono e lo
rigettò in borsa, appoggiando
i gomiti sul tavolo, in modo da sorreggere la testa con i pugni.
Annoiandosi,
cercava qualcosa che potesse catturare la sua attenzione, ma niente era
reperibile. Spostandosi una ciocca dietro l’orecchio, si
alzò, abbandonando la
sua postazione. Si sfilò i tacchi e camminò su
per la collina. La location era
mozzafiato. Si trovavano infatti su una collina ricca di flora, dalla
quale si
poteva godere di un panorama fantastico. Leah raggiunse la cima. I fili
d’erba
le solleticavano le piante dei piedi, i quali erano finalmente liberi
da quelle
scarpe assurde. Seduta, scrutò la bellezza di quel luogo. Il
tramonto
primeggiava in cielo, colorando tutto di rosa e arancio. Assolutamente
romantico. Se solo lui fosse qui, pensò.
Una mano si posò sulla sua spalla. Si girò di
scatto e vide una figura alta.
-Ehi scusami, disturbo? Sto
scappando anch’io da quel
chiasso.
Un ragazzo alto e magro le
sorrideva, sforzandosi di
non arrossire. Leah non rispose subito, anzi, rimase a fissarlo negli
occhi,
cercando di ricordare se lo conoscesse o avesse visto già da
qualche altra
parte. Lui, d’altro canto, aspettava una sua risposta. I suo
grandi occhi grigi
erano decorati da alcune pagliuzze dorate, le sue labbra, leggermente
carnose,
formavano un cuore.
-Nono, tranquillo. Siediti pure.
– disse, tornando a
guardare il panorama.
Egli si sedette e
arricciò le maniche della camicia
grigia. I capelli castani erano corti ,mossi e ribelli, apparendo
spettinati.
Leah lo guardava con la coda dell’occhio, sperando che questo
non se ne
accorgesse. Silenzio. Durò molto. Provava molto imbarazzo a
stare lì, accanto a
quello sconosciuto. La pancia brontolava, aveva ancora fame. Il cibo
era buono,
ma le porzioni erano piccole. Portò un braccio
all’altezza dello stomaco,
facendo una leggere pressione. Sperava di smorzare quei rumorini
fastidiosi. Se
li avesse uditi sarebbe stato ancora più imbarazzante.
Il ragazzo esplorò la
tasca dei suoi jeans aderenti e
tirò fuori un pacchetto di sigarette. Marlboro rosse. Sul
suo volto si formò
una smorfia. Leah credeva di fare l’indifferente, ma in
realtà lo stava
fissando.
-Hai un accendino? –
disse con una sigaretta già fra
le labbra.
-No, mi spiace. Non fumo.
Il ragazzo corrucciò la
fronte, stupito.
-Sul serio? Mi sembravi il tipo.
Ora fu Leah a mostrarsi stupita. Si
girò nella sua
direzione, accavallando le gambe.
-E perché mai?
Lui fece spallucce.
-Boh, pensavo così e
basta.
Lei sospirò, facendo
spallucce a sua volta. Lui
sorrise e mise al suo posto il suo piccolo vizio.
-Beh? –
Continuò lui.
-Beh cosa?
-Come ti chiami?
Per un attimo lo guardò
male, quel suo atteggiamento
distaccato la irritava. Era strano.
-Leah.
Lo sconosciuto portò le
gambe al petto e vi si
appoggiò.
-Uhm, e che significa?
-Dipende dalla lingua
d’appartenenza, secondo quella
ebraica “stanca”, secondo quella irlandese
“raggio di sole”.
Lui si distese, cercando una
posizione comoda. Intrecciò
le mani dietro la testa.
-E secondo te, quale ti si addice
meglio?
Lei fece lo stesso, si
sdraiò. Il cielo si era fatto
più scuro, le stelle brillavano. Non ne aveva mai viste
così tante. Era davvero
un luogo magico.
-Credo “stanca”.
Fortunatamente il tempo aveva
tenuto, nemmeno una
goccia di pioggia o una nuvola nera. Il cielo era di un blu intenso.
Avrebbe
voluto essere al suo fianco, baciarlo. Invece si ritrovava
lì, ad uno stupido
matrimonio, accanto ad uno strano tipo.
-Uhm, ok. Senti, cosa ne pensi di
queste stelle?
Leah non capiva. Non capiva il suo
comportamento, la
sua domanda. Non capiva quale risposta desiderasse. Avrebbe dovuto
rispondere
semplicemente con un “sono bellissime” o qualcosa
di più profondo? Insomma,
avrebbe dovuto fare la superficiale o cercare di colpirlo, catturare la
sua
attenzione? Per qualche strano motivo, quel ragazzo la intrigava. Non
per
l’aspetto fisico, ma per il suo modo di approcciarsi. Voleva
scoprire altro di
lui, conoscerlo meglio. Così, sparò la prima cosa
che le venne in mente.
-Penso che si sentano osservate.
Penso che debba
essere difficile essere una stella. Insomma, essere costretti a
brillare,
cercare di essere la più luminosa, sperare di essere notata
per prima,
diventare la stella di qualche coppia, essere dedicata ad una persona.
E poi,
sbam, spegnersi. Svanire nel nulla. E nessuno ti ricorderà,
perché verrai
scambiata con un’altra e sarai rimpiazzata. Dopotutto, sono
tutte uguali viste
da qua.
-Beh Leah, io non sono
d’accordo. Ogni stella viene
ricordata per quello che era. È inutile cercare di brillare,
sperare di essere
notate. Così si rischia solo di essere circondate da sguardi
inopportuni. Una
stella poco luminosa invece, sarà sicura di ottenere
l’attenzione giusta, dalle
persone giuste. Perché per loro sarà la
più brillante, la più bella. È
sbagliato sforzarsi di essere ciò che non siamo, bisogna
sempre mostrare la
propria vera essenza. Dopotutto, non dobbiamo piacere a tutti.
Detto questo, restarono entrambi in
silenzio.
Meditarono su quanto era stato detto. Con la scusa delle stelle, quel
ragazzo
era riuscito a far esprimere i pensieri di Leah, mascherandoli con un
argomento
banale. Una stella era diventata la metafora della vita. Una stella era
diventata un consiglio indiretto. È sempre più
facile parlare di se stessi
attraverso un oggetto, un esempio. Se la domanda fosse stata chiara e
diretta,
Leah, così come qualsiasi persona, avrebbe risposto
diversamente. Ad ogni modo,
lei non staccò gli occhi dal cielo. Sapeva benissimo che il
discorso di lui era
giusto, ma sapeva anche che era impossibile essere una stella del
genere,
contenta del proprio aspetto. Era facile parlare per lui, dopotutto era
un bel
ragazzo. Cosa ne poteva sapere lui di stare nell’ombra?
Sicuro di sé,
sfacciato. Tratti caratteriali che a lei mancavano. Ma questo, era
solamente
ciò che lui dava a vedere, probabilmente anche lui cercava
di essere chi non
era in realtà. Perché diciamocela tutta, nessuno
di noi non ha mai portato una
maschera o si è sforzato di essere diverso. Fa parte della
natura umana, Leah
ne sapeva qualcosa. Il ragazzo scattò in piedi.
-Credo sia finalmente finita la
festa.
-Menomale.
Leah rinchiuse nuovamente quei
poveri piedi nelle
scarpe col tacco. Sospirò e si alzò. Vide la
gente salutare, allontanarsi, cercare
le chiavi dell’auto nelle borse e tasche. Si incamminarono
verso la folla e
senza dirsi niente, si separarono, prendendo direzioni opposte. I suoi
genitori
stavano bisticciando su qualcosa, qualcosa di sicuramente futile. I
nonni,
invece, cercavano di ricordare se avevano preso o meno le pasticche.
Senza
degnarsi di lei, la famiglia raggiunse l’auto. Leah
aprì lo sportello, fece
salire per primi i nonni, e si apprestò ad entrarvi, quando
udì una voce in
lontananza. Le parve di sentire il proprio nome, qualcuno la stava
chiamando.
Si voltò velocemente, senza mollare la maniglia
dell’auto.
-Ah Leah, eccoti. –
riprese fiato, ponendo le mani sui
fianchi. – Mi ero dimenticato di dirti che mi chiamo Noah,
che non so cosa
significa il mio nome e che ti trovo bellissima. Detto questo, spero di
rivederti un giorno. A presto.
Lui sorrise, spostandosi il ciuffo
che gli aveva
coperto un occhio. Lei, pietrificata, si limitò a guardarlo
voltarsi e
andarsene. Le parole si erano bloccate, ostruendo la gola. Un nodo. Il
cervello
era andato in standby. Non riusciva a crederci, Noah non poteva averlo
detto.
Dallo stupore iniziale, Leah tornò con i piedi per terra. L’avrà detto giusto per
provarci, sa di essere bello. Non lo pensava
davvero. Mah, che tipo ho incontrato. Pensò.
-Tesoro, chi era quel bel ragazzo..
un amico? – disse
la madre sporgendosi dal finestrino.
-Diciamo di sì.
Giunti a destinazioni e
parcheggiata la macchina,
Leah, ancora sconvolta, quasi inciampò in qualcosa. Un
miagolio stridulo si
elevò.
-Meeeow!
-Attenta al gatto Leah, con quei
trampoli sei
pericolosa. – urlò il padre.
Moka purtroppo aveva il viziaccio
di infilarsi fra i
piedi, era difficile non pestargli una zampa o inciampare. Ma Leah non
l’aveva
pestato, quel miagolio era solo un richiamo d’attenzione. Era
felice di vedere
la sua padroncina. L’aveva aspettata a lungo davanti la
soglia di casa. Leah
scosse la testa, suo padre era un burbero. Giunta in camera, si
spogliò,
gettando l’abito sulla sedia. Indossò una camicia
da notte bianca, con la
stampa dello ying e yang. Moka si lanciò su una pantofola,
spingendo con le
zampe posteriori. I suoi affilati dentini penetrarono la stoffa. I suoi
occhi
erano diventati tutti neri. Bene, gli
è
preso il ruzzo. Stanotte non si dorme. Il micio
abbandonò la preda e si
infilò sotto il letto, tendendo un agguato. Dopo pochi
secondi, saltò
nuovamente su quell’innocente ciabatta, che se ne stava
lì, immobile. Leah
sorrise, pensava quanto fosse sciocco. In quel momento, si
ricordò di non aver
più guardato il cellulare. Infatti, era presente un
messaggio in chat, sempre
da parte di Megan.
Fatti
coraggio,
non durerà ancora a lungo. Derek?
Derek. Sprofondò nel
cuscino, fissando il soffitto.
Derek non si faceva sentire da giorni.
Eh
ancora
niente.
Ma
come, non si
è nemmeno presentato là? Replicò
l’amica.
Proprio
così..
Leah
lo amava, con tutta se stessa. Uscivano da pochi mesi, è
vero, ma erano stati
giorni intensi. Era riuscito a darle emozioni e sensazioni che nemmeno
poteva
immaginare, era riuscito a renderla felice, o meglio, a farla sentire
bene, a
posto, quando era al suo fianco. Era riuscito a farla sentire viva, a
donarle
un senso. Non erano ancora ufficialmente fidanzati, Leah attendeva con
ansia
quel giorno. Sapeva che prima o poi glielo avrebbe chiesto. Erano molto
affiatati, perciò tutto lasciava pensare che presto
avrebbero formato una
coppia. Ma allora perché tutti questi giorni di silenzio?
Sola,
abbandonata. Si sentiva così, dimenticata. Si portava dietro
questa strana
sensazione, la quale non svaniva nemmeno quando qualcuno le stava
vicino.
Perché non bastava rivolgerle parola o farle un sorriso, lei
aveva bisogno di
attenzioni, aveva la necessità di essere importante per
qualcuno. Quel qualcuno
però, non era rintracciabile.
Io
l’avrei già
mandato a quel paese, Leah.
Megan aveva un carattere
più aggressivo. Era tenace,
estroversa e non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Loro
due erano
l’opposto, ciò che mancava ad una era presente
nell’altra, si completavano.
Io non
ci
riesco.. non riesco nemmeno ad essere arrabbiata, so solo che mi manca.
Le
mancava eccome. Le mancava da morire. Le giornate sembravano sprecate,
inutili.
Tutto le appariva futile senza di lui. Si sarebbe accontentata di un
suo
messaggio, di una sua chiamata. Avrebbe fatto a meno anche di vederlo,
ma
odiava questo silenzio. La stava uccidendo, le parlava di troppe cose.
Salutò
Meg, e attaccò il cellulare in carica. Si strinse nel
lenzuolo, assumendo la
così detta posizione fetale. Secondo il
linguaggio del corpo, ciò è segno
di una personalità un po’ fragile, dal punto di
vista
emotivo, e insicura, la quale sente la costante necessità di
protezione. La
posizione fetale dice,
inoltre, che la persona è generalmente molto coscienziosa,
ordinata,e che tende
a preoccuparsi eccessivamente, rimuginando spesso sulle cose.
Le
persone che assumono questa posizione appaiono forti
all’esterno, ma sono
in
realtà molto sensibili. Leah era esattamente
così. Ogni notte, infatti, non si
addormentava subito, ma passava almeno un’ora a riflettere
sulla giornata
vissuta, sulle persone incontrate, sulle sue azioni. Domandandosi anche
se
avesse potuto cambiare qualcosa. Ogni
nostra azione comporta una conseguenza. È il principio
del meccanicismo, non esiste un effetto senza una causa. Ogni nostra
scelta
produce quindi una possibilità differente, una variante
della stessa giornata.
Spesso perciò, si trovava a pensare quante cose avrebbe
voluto cambiare, quante
cose avrebbero potuto essere diverse. Se solo avesse ascoltato un
consiglio o
se fosse uscita quel giorno, cose così insomma. Magari,
adesso la sua vita
sarebbe stata completamente diversa, migliore o chissà,
ancora peggiore. Ma
queste, purtroppo, sono cose che nessuno potrebbe mai sapere. A lei,
però,
piaceva crogiolarsi nei se e nei ma, fantasticando. Viveva
nell’oblio, incastrata fra i sogni e la realtà,
fra i pensieri e le azioni.
Viveva nell’indecisione costante, temendo sempre
d’esser più nel torto che nel
giusto, perché dopotutto, lei era un errore.
Mentre la mente viaggiava, un’immagine la colpì.
Noah.
Chissà chi era, da dove veniva, quanti anni avesse, cosa
facesse nella vita.
Non sapeva niente di lui, eppure le aveva lasciato qualcosa. Moka si
arrampicò
sul letto, si stiracchiò e si posizionò lungo
l’addome della ragazza. Così,
entrambi si addormentarono.