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Autore: yourkittyness    18/01/2015    3 recensioni
ovvero:
Come innamorarsi del proprio vicino di casa.
Le storie di sei ragazzi universitari alle prese con il loro primo amore.
{Aokise - Kagakuro - Midotaka}
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il destino ha molta più fantasia di noi
ovvero:
Come innamorarsi del proprio vicino di casa.
(3)


 
Quando Aomine quella mattina si era svegliato aveva trovato una spiacevola sorpresa ad attenderlo: il suo vicino di casa in boxer sul suo divano; i ricordi e il suo intimo sembravano averlo momentaneamente abbandonato. Il panico era stato immediato; cosa aveva fatto in quel lasso di tempo che aveva apparentemente dimenticato? Ricordava tutti i drink, il vuoto, loro due che camminavano per strada cantando le canzoni di Frozen, il vuoto, la toppa della porta che sembrava essere diventata storta e piccola, il vuoto, il ricordo di uno spiacevole dolore al fondoschiena e poi di nuovo il vuoto.
Dopo che il suo vicino – in boxer – gli aveva detto con del sarcasmo non proprio celato «Pensavo che ti fossi rivestito dopo ieri sera.» la sconvolgente realtà aveva colpito in faccia Daiki come se fosse stato una mollica di pane circondata da piccioni. Si era chiuso in camera e si era messo a pensare a cosa avessero potuto fare – rivestendosi nel frattempo – ed era arrivato ad un’unica, traumatizzante, conclusione. Fino a qualche anno fa, Aomine avrebbe potuto andare in giro ad urlare con fierezza che era un etero convinto e che nulla – nulla – avrebbe potuto distrarlo da un paio di bellissime tette. Poi però, qualche giorno prima di partire per l’università, Momoi lo aveva trascinato, per vendetta, in un gay club ed erano successe cose. Dopo certe nefandezze, Aomine aveva cominciato a dubitare di tutto ciò che credeva certo – “Sono etero? Il cielo è blu? Voldemort è morto? Sono un figo della madonna?” – e, una volta trasferitosi all’università, aveva chiuso quei ricordi in un cassetto della sua memoria.
Stava camminando per la camera cercando di darsi delle risposte, quando sentì bussare alla porta.
«Sono dieci minuti che sei là dentro» stava trattenendo a stento una risata. «Capisco che ritrovarsi nudo con un tizio in boxer nel soggiorno possa creare molti equivoci, ma ti giuro che non è andata come pensi» Aomine tirò un sospiro di sollievo e aprì la porta della stanza.
«Potevi dirlo prima invece di farmi penare per dieci minuti.»
«La tua espressione scioccata era così divertente!» Kise si sedette – ancora in boxer – di nuovo sul divano. «Non è difficile intuire quel che hai pensato» Aomine prese una sedia dalla cucina e la portò in soggiorno, sedendosi . L’ultima cosa che voleva era sedersi accanto a quello che pensava di essersi fatto (anche se dai dolori al fondoschiena doveva essere stato il biondo a farsi lui).
«Tutti avrebbero pensato una cosa del genere» tentò di giustificarsi cercando, invano, di non arrossire.
«Lo avrebbero pensato solo quelli che sanno di poter dire al proprio vicino di casa che è “tremendamente sexy” e che vuole avere “una notte di fuoco” con lui» Aomine spalancò la bocca. Poi la richiuse. Poi la riaprì di nuovo. Probabilmente la sua faccia si stava tingendo di tutti i colori dell’arcobaleno.
-
Dopo essere scappato a vomitare – perché sì, il suo corpo aveva deciso di espellere tutto quell’alcol in un momento così delicato – la conversazione sembrava essere tornata normale ma Daiki non risuciva a togliersi dalla mente le parole di Kise. Possibile che in quel momento di perdizione avesse potuto dire quelle cose? Non che non potesse succedere, dopotutto Kise era un ragazzo davvero attraente. Si prese di coraggio e chiese.
«Ho detto davvero quelle cose?» Kise rimase un po’ perplesso e non sembrò arrivarci subito, stavano parlando di non sapeva neanche lui bene cosa, forse del fatto che Ryouta volesse un gatto?
«Stai parlando delle avance che mi hai fatto ieri sera quando eri ubriaco?» Aomine si coprì la faccia con le mani, alla fine era vero.
«Ti prego di perdonarmi, non ero in me-»
«Gli ubriachi dicono la verità, quindi posso supporre che mi trovi davvero dannatamente sexy e che vorresti passare una notte di fuoco con me» Daiki si scoprì il viso e arcuò le sopracciglia.
«Mo’ non ti allargare però» Kise sorrise.
«Aominecchi ha una cotta per me» cominciò a canticchiare e il soggetto della canzoncina non potè far altro che alzare gli occhi al cielo. “Ma cos’è? Un bambino delle elementari?”.
Improvvisamente Kise smise di canticchiare e si avvicinò di colpo.
«Se vuoi il mio letto è quasi sempre libero» gli fece un occhiolino e Aomine lo spinse via mettendogli una mano in faccia.
«Ancora non mi hai detto che cos’è successo davvero» incrociò le braccia e si lasciò scivolare sulla sedia. Perché se quella era casa sua doveva stare su una sedia, poi?
«Uh, sì!» Kise unì le mani, come se gli servisse per concentrarsi. «Dopo esserti scolato un ultimo drink – lo sai che lo reggi proprio male l’alcol? – ti ho dovuto trascinare fino alla metro più vicina – non la smettevi più di cantare le canzoni di Frozen,  non pensavo riuscissi a cantare bene l’acuto di Elsa! – sulla metro sei caduto in una sottospecie di stato comatoso, quando siamo arrivati ti ho dovuto trascinare per un pezzo perché non ti svegliavi più. Comunque, ci hai impiegato un secolo e mezzo per mettere la chiave nella toppa, hai fatto cadere quella statuina di legno inquietante a forma di scimmia che hai all’ingresso –devi decisamente buttarla, è oscena – e ci sei caduto sopra.» Aomine aveva le mani sulla faccia, aveva assimilato ogni parola soffrendo come se stesse mandando giù uno sciroppo disgustoso; più si andava avanti, più la situazione si faceva imbarazzante. «Dopo aver urlato cose come “ahi,  mi ha fatto male come quando quel tizio” e ora non riesco ad andare avanti… perché davvero hai fatto del sadomaso?! Ommioddio» Aomine spalancò gli occhi e si gettò in avanti.
«Posso spiegare, lo giuro!»
«Non c’è niente da spiegare, sei stato contagiato anche tu dalla trilogia di Cinquanta Sfumature?»
«Non dire fesserie! Ero solo molto ubriaco e quei tipo era molto convincente!» Kise si portò una mano sulla faccia.
«Rabbrividisco dall’orrore.» dopo una ventina di secondi, durante i quali Aomine era incerto se chiedere a Kise di continuare o no, decise che era meglio sapere tutto quel che aveva combinato quella sera cosicché potesse almeno spiegare.
«Ti prego, va’ avanti.»
«Allora, dicevo, dopo avermi detto tale orrore,  hai cominciato a spogliarti incitandomi a spogliarmi – adesso capisco perché ti sei ritrovato a fare cose del genere – ovviamente ho cercato di calmarti ma mi hai vomitato addosso – ecco perché non ho vestiti. Dopodiché sono rimasto mezzo nudo e hai cercato di assalirmi, hai cominciato a farmi strane proposte – tra cui mangiare dei popcorn con indosso solo una foglia di fico – e poi sei collassato a letto» Aomine era scioccato. La mascella probabilmente gli era già arrivata al suolo e non riusciva a pensare a nient’altro se non ha “figura di merda”, che poi dire che aveva fatto una figura di merda era un eufemismo; più che altro era come se una montagna di sterco di vacca fosse caduto addosso a lui e alla sua dignità.
«Posso spiegare» la risata cristallina di Ryouta gli rimbombò nelle orecchie, gli sembrò che ogni fibra del suo corpo stesse vibrando al suono di quella risata.
«Capita di fare cose del genere quando si è ubriachi» stava per allungare una mano verso i suoi capelli ma si ritrasse di colpo, come se si fosse bruciato la punta dei polpastrelli. Tossicchiò un attimo. «Be’, sono le dieci e trenta, ti va di fare colazione?»
-
Di comune accordo avevano deciso che, con Aomine in quelle condizioni, fare colazione fuori sarebbe stato un suicidio, dunque optarono per arrangiarsi e inventarsi qualcosa mettendo insieme la poca roba che avevano in casa per sfamarsi come meglio potevano. Inizialmente Ryouta voleva cucinare dei pancakes, resosi conto che né lui tantomeno Daiki avevano la minima idea di come si facessero, decise che sarebbe stato meglio non tentare alcun tipo di esperimento – tutto questo ovviamente lo fece lamentandosi.
«Chissà se qualche nostro vicino di casa cucina bene» Daiki scrollò le spalle, continuando a spalmare il burro sulla sua fetta biscottata.
«Può darsi» rispose mentre Kise addentava la sua fetta coperta da uno strato alto almeno un centimetro di marmellata di limone.
«In questo condominio non sono molto socievoli, vero?»
«Diciamo che sono tutti impegnati a studiare, o almeno fanno finta di esserlo.»
Stava spalmando la marmellata di mirtilli quando Kise esclamò: «Devo chiederti una cosa.» Aomine alzò un attimo lo sguardo, interrogativo.
«Sì?»
«Se te lo chiedo devi giurarmi che non mi caccerai di nuovo fuori di casa» Aomine sbattè le ciglia, perplesso, mordendo  la fetta biscottata. Cosa voleva chiedergli?
«Uhm, okay?» Ryouta chiuse un attimo gli occhi, unendo le mani, quasi come se stesse cercando le parole giuste.
«Perché l’altro giorno hai reagito così male? Forse non dovevo menzionare il basket?» Aomine deglutì, spostando lo sguardo verso il basso. Non sapeva come rispondere a una domanda così diretta. Il suo battito cardiaco era così accellerato da far male, le mani avevano cominciato a tremare così tanto che il coltello che aveva in mano scivolò sul tavolo producendo il suono cupo del metallo.
«Aomine? Ehi, Aomine?» Kise gli prese delicatamente il viso tra le mani. «Calmati, tranquillo, respira lentamente. Lo facciamo insieme, ti va?» Aomine annuì, sentiva gli arti bloccati ma continuavano a tremare, voleva scappare via da lì, non avrebbe mai più potuto giocare a basket mai, mai, mai, mai.
Guardò in alto, c’era Kise che gli diceva di respirare. «Inspiriamo con il naso ed espiriamo con la bocca, come quando gonfi un palloncino, insieme» inspirare espirare inspirare «Non pensare alla paura, io sono con te. » Aomine si sentiva come se stesse svanendo, esisteva davvero? Tutto quello che stava succedendo era reale? Forse stava morendo.
L’ansia era tornata a tormentarlo, quel piccolo verme nascosto nel suo petto era cresciuto ed era pronto a divorarlo. Guardò Kise, gli stava parlando ma non riusciva a capire le sue parole, gli accarezzava i capelli, gli teneva le mani, forse gli stava dicendo di respirare o forse no, però era lì, e non lo stava lasciando solo.  Aomine chiuse gli occhi, concentrandosi sui suoi polmoni, respira, respira, respira.
«Riesci a parlare?» Aomine disse di “sì” ma non riconobbe la sua voce, gli occhi ancora chiusi, concentrato sul suo battito e sul suo respiro. Non c’era nulla di cui aver paura, non era solo, ci sarebbe stato Kise, Kise sarebbe stato lì con lui. «Non voglio che tu stia male» la voce di Kise tremava. «Ti aiuterò a stare meglio. Hai visto? Non tremi più come prima. Dai, continua, inspira, espira».
Il ritmo del respiro di Daiki si stava regolarizzando, la sensazione d’ansia continuava ad essere lì, ma la sua presa su Aomine si stava allentando. Era riuscito a risalire a galla grazie a Kise. Continuava ad accarezzargli i capelli, con mano ferma. Quando Aomine aprì gli occhi, gli sembrò di non essere stato lì in quei minuti interminabili. Le sensazioni erano ancora vivide e l’ansia era ancora lì, pronta a saltargli addosso. Ma c’era Kise. Alzò lo sguardo e lo trovò con le mani alla bocca e il viso rigato dalle lacrime.
«Va tutto bene» sussurrò Aomine, incapace di respingere l’abbraccio di Kise.
Kuroko non poteva negare di essere andato all’università, quella mattina, nel vano tentativo di incrontrare di nuovo il suo vicino di casa. Doveva rendersi conto che quella del giorno prima non era stata che una mera coincidenza che non si sarebbe mai più ripresentata. Ma, come si dice, la speranza è l’ultima a morire.
Speranza o no, Testuya sapeva solo che: 1) non aveva completamente voglia di andare a frequentare i corsi di quella mattina, ma si era convinto ad andare seguendo il desiderio di rivedere Kagami; 2) un ragazzo gli si era seduto di sopra non notandolo e non aveva smesso di scusarsi fino a quando non l’aveva perso di vista (ovvero dopo meno di un minuto).
Kuroko non era il tipo di persona che si arrabbiava facilmente e pensò che, dopotutto, tutta la rabbia che aveva accumulato in quegli anni, prima o poi e in qualche modo, sarebbe dovuta uscire.
Chiuse la porta di casa, esausto, e posò la borsa a terra. Non ebbe neanche il tempo di togliersi il pesante giaccone che il suo cellulare cominciò a suonare.
“Pronto? Tetsu-chan?” la voce di sua madre gli arrivò limpida all’orecchio. Da quant’era che non si sentivano?
«Ciao mamma» sentì qualcuno borbottare, probabilmente era suo padre che si lamentava delle sue poche telefonate.
“Oh, sono così felice di sentirti! So che sei impegnato ma dovresti chiamarci più spesso!”
«Mi dispiace» sentì sua madre sospirare per telefono.
“Purtroppo non ti ho chiamato solo per dirti questo” sentì sua madre sospirare di nuovo. “Sai, da quando sei partito per l’università, Nigou mi sembra un po’ giù. Non fa altro che dormire e non mangia più come prima.” Kuroko spalancò gli occhi.
«Oh» si portò una mano tra i capelli. Guardò il cellulare. «Domani passo e lo porto qui, ok?»
“Vieni a trovarci? Quando arrivi? Ti fermi per cena?” ed ecco che sua madre partiva con una raffica di domande.
«Non mi fermerò molto» sentì sua madre sbuffare.
“Tetsu-chan! Non ti fermi mai! Non pensi a come si debba sentire tua madre? Qui, tutta sola?” gli parve di sentire suo padre dire in sottofondo “io non valgo nulla?”. Probabilmente sua madre l’aveva liquidato con un gesto della mano.
«Sai che sono impegnato. Passo a prendere Nigou e basta.»
“Va bene, tanto è inutile contrattare con te” sentì ancora un mormorio in sottofondo. “Oh, devo andare o si brucerà la torta! Ci vediamo domani! Ah, e ricorda che mamma e papà ti vogliono tanto bene!”
Kuroko non ebbe neanche il tempo di ricambiare il saluto che sua mamma aveva interrotto la chiamata.
Era davvero preoccupato per Nigou, sapeva che avrebbe sentito la sua mancanza ma non che sarebbe arrivato a stare così male. In fondo non gli sarebbe dispiaciuto tenerlo nel suo appartamento, certi giorni si sentiva così solo e, francamente, durante le superiori era stata quell’adorabile palla di pelo a tenerlo su di morale. Accennò un sorriso e pensò a sua madre. Una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco aveva iniziato a tormentarlo. Aveva specificato che non si sarebbe fermato per molto ma, come minimo, sua madre (e suo padre, anche se lui l’avrebbe fatto passivamente) l’avrebbe costretto a rimanere almeno per pranzo e, prima di partire, gli avrebbe dato cinquanta scatole di plastica con dentro i più disparati tipi di cibo. Se la torta a cui aveva accennato non fosse già stata in forno, Kuroko avrebbe sospettato che fosse per lui. E se… sua madre avesse già previsto la sua visita?
A quel punto si era perso a rimuginare da quale membro della famiglia avesse potuto prendere il carattere – sua madre era stata esclusa in partenza – quando sentì suonare alla porta.
Senza rifletterci troppo, andò ad aprire trovandosi davanti il ragazzo che aveva tanto sperato di incontrare quella mattina in metro. Dire che Kuroko era scioccato era un eufemismo.
«Ciao» Tetsuya capì che stava parlando con lui solo dopo un paio di secondi, chiuse di scatto la bocca e balbettò una risposta. “Patetico”.
«Può sembrarti una cosa stupida ma non sono riuscito a regolarmi e ho fatto troppo caffè, ti andrebbe di-» la domanda rimase in sospeso perché Kuroko disse – fin troppo velocemente – “sì”.
-
Kuroko sentiva il cuore a mille, non riusciva a capire se fosse un sogno – o un incubo, data la precedente figura di merda. L’unica cosa che gli sembrava chiara era che il batticuore era causato dalla presenza dell’altro. Poi a lui neanche piaceva il caffè.
Prese la tazza con entrambe le mani, sopra la sua vi era raffigurata la bandiera dell’America, su quella di Kagami… dei gattini? Kuroko nascose il piccolo sorriso che gli si era formato in viso con quella tazza enorme, tentando di mandar giù quel liquido amaro, e a parer suo disgustoso, immaginando che fosse uno dei milkshake di Maji Burger (tentativo fallito miseramente).
Nella stanza il silenzio regnava assoluto, Kuroko non osava aprir bocca e tantomeno alzare lo sguardo. Immaginò come potesse sentirsi a disagio Kagami, probabilmente non l’avrebbe più invitato a casa sua. Inaspettatamente, l’altro ruppe quell’atmosfera così tesa.
«Mi dispiace per questo invito improvviso» si grattò la testa imbarazzato. «Deve essere stato strano, vero? Ci conosciamo da malapena due giorni e ti invito all’improvviso per un caffè.»
«Già.» “Tetsuya cosa diamine stai dicendo?”.
«Però, dopotutto siamo vicini, no? Mi sembra ancora strano non averti mai visto prima.»
«Cose che capitano.»
«Sarà» rispose stravaccandosi sulla sedia. Intanto Kuroko si stava maledicendo: non solo stava risultandopiù asociale di quanto avesse voluto, ma non riusciva neanche a mandar giù il caffè. Credeva di essere una persona abbastanza educata, ma in quel momento avrebbe pure potuto scoprire di esser stato cresciuto dai lumpi e ci avrebbe creduto subito. «Ehi, ma sai che non ci siamo ancora presentati?» disse all’improvviso ridendo.
Tetsuya ci pensò su, solo perché lui era uno stalker non voleva dire che l’altro avesse dovuto conoscere qualcosa di lui.
«Io mi chiamo Kuroko Tetsuya» “ed è da un po’ che sono cotto di te”, si ritrovò a pensare.
«Allora, piacere Kuroko» detto da lui, il suo nome sembrava così bello. «Io mi chiamo Kagami Taiga». Kuroko si chiese come mai non si fosse ancora sciolto dopo il sorriso che gli aveva regalato. Di nuovo, nascose il viso con la tazza di caffè, tentando di mandar giù qualcosa. «Certo che il caffè non ti piace molto» disse, poggiando il viso sul palmo della mano. Era stato sgamato.
«Preferisco i milkshake.»
«Milkshake?» alzò un sopracciglio.
«Quelli di Maji Burger» si sentì in dovere di precisare. Quello di Maji Burger non era un milkshake, ma il milkshake.
«Io ci vado un sacco di volte» Kuroko restò sorpreso, possibile che non lo sapesse? «I loro hamburger sono fantastici» sembrò pensarci per qualche secondo. «Un giorno di questi, possiamo andarci insieme.»
Il cervello di Kuroko andò in blackout. Chi era? Come si chiamava? Come era finito in questa situazione? Taiga gli aveva appena proposto di andare da Maji Burger insieme? Ok, non era un appuntamento e sicuramente non era il posto più romantico del mondo ma… era già qualcosa. Si sentì realizzato come una protagonista di uno shojo manga, possibile che dietro Kagami non si fossero ancora materializzate delle rose scintillanti di rugiada?
«Sì, perché no» si limitò a dire, nascondendosi, ancora, dietro la tazza del caffè.
«Domani è Sabato, giusto? Potremmo pranzare lì» tutta le felicità di Tetsuya fu spazzata via dal ricordo della telefonata con sua mamma. Avrebbe mangiato così tanto che già si sentiva morire.
«Purtroppo domani sono impegnato» Taiga sembrava deluso? «Forse però mi libero per cena» Kuroko si sentiva già male al pensiero di andar prima a mangiare da sua madre e poi fare un salto da Maji Burger.
«Fantastico!» si alzò per andare a posare le tazze nel lavello. Forse era ora di andarsene? «Comunque, non so se già lo sai, ma si vocifera che domani ci sarà uno sciopero dei mezzi pubblici» Kuroko si ritrovò ad insultare tutti i suoi connazionali, “non fanno mai scioperi e decidono di protestare quando io devo andare a prendere Nigou”. «Non so se hai una macchina, ma se hai bisogno di aiuto posso chiedere la macchina ad un mio amico» scrollò le spalle.
«Sei molto gentile, Kagami-kun» si vergognò a dire il suo nome ma cercò di reprimere l’imbarazzo. «Purtroppo il viaggio è abbastanza lungo e dovrei portare con me il mio cane». Kagami stava per risedersi quando si bloccò.
«Hai detto cane
«Sì.»
«Ah» fece una risatina nervosa.
«Kagami-kun ha paura dei cani?» Kagami sussultò.
«Ma chi? Io?» Kuroko pensò che Taiga fosse davvero adorabile. «In ogni caso, anche se i cani… non sono esattamente i miei animali preferiti, se hai bisogno di aiuto domani puoi farmi tranquillamente uno squillo e ti porto io.»
Kuroko era decisamente al settimo cielo per la felicità, sapeva che erano semplici cortesie che un conoscente avrebbe fatto tranquillamente, ma anche il solo fatto che fosse stato Kagami a chiederglielo lo mandava in visibilio. Pensò che, con lui, andare dai suoi genitori sarebbe stato meno trauma… tico. Se Taiga l’avesse accompagnato avrebbe conosciuto sua madre. E se sua madre lo avesse visto in compagnia di un altro essere vivente si sarebbe messa a ballare, sarebbe svenuta, poi avrebbe fatto partire Candyman di Christina Aguilera e avrebbe cantato con lei. Quell’idea l’aveva sconvolto così tanto che non era neanche più sicuro sul da farsi. Godersi un viaggio di quattro ore – andata e ritorno – con la persona che gli piaceva e subire lo sclero di sua madre, o andare da solo e subire lo stesso lo sclero di sua madre – anche se di portata minore? La risposta gli sembrava più che scontata. Stava per rispondergli di sì quando il suo stomaco cominciò a brontolare, cosa aveva fatto per meritarsi questo?
-
Per sfortuna – o fortuna? Non sapeva scegliere – si era ritrovato, ancora, a casa di Kagami con davanti un piatto di gyoza semplicemente deliziosi. Si sentiva davvero uno stupido ma tra la chiamata di sua madre e l’improvviso invito di Kagami si era scordato di pranzare, perciò si era ritrovato alle tre del pomeriggio a mangiare i gyoza più buoni del mondo. Tetsuya non pensava che sarebbe mai stato capace di mangiare qualcosa così in fretta, ma dopo circa cinque minuti aveva spazzolato il piatto, senza lasciare neanche una briciola. Kagami, dal canto suo, sembrava abbastanza compiaciuto.
«Non pensavo ti sarebbe piaciuti così tanto» Kuroko arrossì. «Sono felice che siano stati di tuo gradimento» Tetsuya giurò che se non avesse smesso di fare quei sorrisi mozzafiato l’avrebbe preso a pallonate in faccia.
Prima che potesse rispondere, un motivetto familiare si diffuse per l’aria. Possibile che..?
Taiga arrossì di colpo e spense la sveglia che aveva impostato nel cellulare.
«È la theme song dell’NBA?» chiese Kuroko sorpreso. Possibile che anche a lui piacesse il basket? Effettivamente, con la sua altezza, giocare a basket doveva essere per lui qualcosa di naturale.
«Conosci l’NBA?» ma per che razza di ignorante l’aveva preso?
«Certo» gli occhi di Kagami cominciarono a luccicare.
«Qui in Giappone non è molto popolare, ma è lo sport più bello del mondo» Kuroko annuì. «Però sai, giocarci è ancor più bello di guardar solo le partite.»
«È vero. Giocarci è molto divertente» Kagami rimase immobile per qualche minuto.
«Tu… giocavi?»
«Sì» Kagami si grattò una guancia, imbarazzato.
«Sai, sei così basso che non avrei mai pensato… Sei davvero una persona interessante» Kuroko si sentì le guance in fiamme. «Che ne dici se domani, al ritorno da Maji Burger, ci fermiamo ad un campetto lì vicino?»
«Va bene.»
Kuroko stava esplodendo di felicità.

Midorima non era riuscito a dormire quella notte ed, inutile dirlo, aveva delle orribili occhiaie sotto gli occhi. Normalmente, sarabbe andato comunque ai corsi universitari, in qualche modo, sarebbe riuscito a rimanere sveglio e, a mali estremi, sarebbe caduto in uno stato comatoso solo una volta tornato a casa. Purtroppo per lui era rimasto particolarmente sconvolto dai pensieri della notte passata in bianco. Tutti sapevano che, in tarda notte, le idee peggiori sembrano le migliori ma non concepiva come lui, Shintaro Midorima, studente universitario con ancora un po’ di senno, avesse potuto pensare di andare a scusarsi con Takao, per il comportamento irrispettoso avuto nei suoi confronti i mesi precedenti, e subito dopo di insultarlo per avergli dato buca.
Si stropicciò gli occhi, riempiendo di caffè la sua tazza di latte e si ricordò del suo appuntamento quotidiano con Oha Asa. Purtroppo, il Cancro non era tra i segni più fortunati – per non dire che era tra i più sfortunati – e, neanche a farlo apposta, l’oggetto fortunato del giorno sarebbe stata una pallina per gatti. La cosa che lo aveva turbato di più, però, era stato il breve consiglio dell’astrologa: “se c’è un problema che vi attanaglia, non rimuginateci troppo ma affrontate la faccenza seguendo il vostro istinto”.
 Stava cercando di autoconvincersi che il suddetto problema non fosse Takao ma più ci pensava, più gli sembrava l’unica soluzione probabile. Oha Asa non sbagliava mai, ma il fatto che non sbagliasse mai, non voleva dire che doveva seguire necessariamente i suoi consigli, oggetto fortunato a parte. Non aveva specificato quali ripercussioni che ci sarebbero state se non avesse risolto subito il problema, quindi perché preoccuparsi? Sarebbe stata una giornata tranquillissima come le altre: sarebbe uscito a comprare la palla per il gatto, sarebbe tornato a casa come sempre e avrebbe ripreso a studiare.
Fu riportato alla realtà dai miagolii del gatto che, a proposito, non sapeva ancora come chiamare. Trovargli un nome gli sembrava la cosa più opportuna da fare, dato che chiamarlo continuamente “il gatto” sarebbe stato scomodo. Fece vagare lo sguardo sulla libreria poco lontana dal tavolo della cucina e gli saltò all’occhio il famoso dramma di Shakespeare, Macbeth. Be’, non era male come nome.
«Tu ti chiamerai Macbeth, ok?» si sentiva stupido a parlare con quel micio, ma dopotutto Takao parlava sempre con quella palla arancione che si chiamava come lui. Si accorse di star pensando a Takao e si diede dell’idiota anche se, dopotutto, era stato lui a dargli consigli su come tenere Macbeth. Prese il micio in braccio, oltre alle informazioni apprese da Takao, era andato anche a fare una ricerca su internet e doveva andare a fargli il vaccino il prima possibile. Si tirò su gli occhiali con la mano fasciata, se quell’idiota non gli avesse dato buca all’ultimo minuto, probabilmente non avrebbe avuto tutti questi problemi.
Probabilmente quella piccola bestiola aveva fame ma, purtroppo per lui non aveva comprato ancora il latte in polvere, aveva fatto affidamento sul fatto che Kazunari ne aveva un bel po’ a casa – perché, poi? – e non aveva pensato di acquistarlo. Il suo orgoglio, però, gli vietava di andare a bussare alla sua porta, soprattutto dopo che gli aveva dato buca senza dargli neanche una spiegazione.
Sospirò e, scusandosi col gatto, decise di vestirsi il più in fretta possibile per andare nel negozio di animali più vicino. Altro piccolo problema: non sapeva dove trovare un negozio di animali dato che l’ultima cosa che si aspettava da se stesso era di adottare un gatto randagio. Di nuovo, l’idea di farsi aiutare da Takao gli passò per la mente ma tanto velocemente era apparsa quanto scomparsa. Lui non aveva bisogno di Kazunari.
-
Dopo una piccola ricerca online, era riuscito a trovare il negozio di animali più vicino possibile che era distante due fermate d’autobus da lì – come aveva detto Oha Asa questo non era un giorno fortunato per il Cancro. Si sentiva abbastanza in colpa per aver lasciato Macbeth a casa, da solo, morto di fame ma portarlo con sé sarebbe stato un errore peggiore: non avrebbe sopportato i suoi miagolii.
Come previsto, poi, l’autobus era arrivato con dieci minuti di ritardo – si vedeva che Midorima non portava con sè il suo oggetto fortunato – e il tragitto verso il negozio di animali era stato tutt’altro che piacevole: si sentiva teletrasportato in una commedia tutt’altro che divertente, neanche nella peggiore delle sitcom una vecchietta avrebbe fatto delle avance a qualcuno, su un autobus. Midorima aveva cercato di chiarire le idee all’anziana signora, cercando di allontanarla in tutti i modi possibili. Dato che però quest’ultima era irrimovibile – e in più affermava che stare con lei avrebbe portato molti vantaggi – Shintaro si ritrovò ad urlare di essere omosessuale. Se da un lato la signora si era alzata in fretta ed era andata a molestare il povero autista, dall’altro le persone sull’autobus erano rimaste innanzitutto traumatizzate e aveva iniziato a guardarlo più che male.
Quella mattina era iniziata male e sembrava sarebbe andata anche peggio col passare delle ore. Mai in vita sua, anche se il suo segno zodiacale era quello più sfortunato del giorno, aveva passato dei momenti tanto infernali; sperò solo che con la conquista del tanto agoniato oggetto fortunato tutta quella sfiga sarebbe andata scemando.
Fu ridestato dai suoi pensieri una volta che l’autobus si fu fermato e non perse tempo a scendere, voleva andarsene da lì al più presto. Se non avesse avuto un essere vivente in casa che richiedeva urgentemente di essere nutrito, probabilmente non avrebbe preso l’autobus per il ritorno ma se la sarebbe fatta a piedi. Si augurò soltanto di non incontrare di nuovo quella signora o probabilmente avrebbe tentato il suicidio con le tendine scolorite dell’automezzo.
Dopo cinque minuti di strada in più, finalmente si trovò davanti quel benedetto negozio. Dall’esterno non sembrava particolarmente inquietante, ma una volta entrato si ritrovò in un’atmosfera dove cuccioli e accessori per animali di un’orribile tonalità di rosa regnavano sovrani. Shintaro si fece forza, autoconvincendosi che avrebbe preso in un attimo quel che gli serviva e avrebbe pagato subito, tornandosene in fretta a casa quando un commesso pochi centimetri più basso di lui – e con delle mani assurdamente grandi – , cominciò a illustrargli le più svariate promozioni se acquistava due collari anziché uno e tante altre informazioni che a Midorima non interessavano affatto.
In conclusione, Shintaro uscì da lì con non solo una pallina per gatti e il latte in polvere, ma anche con una cuccia, vari giocattoli e un collare per gatti color rosa pastello – che il commesso trovava “semplicemente adorabile”. Midorima non sapeva come fosse riuscito a fargli comprare tutta quella roba, sapeva solo che pesavano un sacco e che aveva speso più soldi del dovuto. Sperava soltanto di tornara a casa il più in fretta possibile.
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Fu accolto a casa dai miagolii e dalle fusa di Macbeth e per un attimo pensò che, dopotutto, avere un gatto non era male.  Si tirò su gli occhiali con le dita fasciate e iniziò a riscaldare l’acqua per il latte di quel povero micio. Quando, però, lanciò un’occhiata all’orologio rimase pietrificato: quel viaggio sarebbe dovuto durare al massimo quaranta minuti e invece era rimastio fuori un’ora e mezza. Quel commesso gliel’avrebbe pagata cara, lui e quei collari rosa confetto. Il suo desiderio di vendetta gli fece anche ricordare di tutti gli affari inutili che aveva comprato a quel micio e che quindi, l’unica cosa che gli restava da fare, era scartare tutto e far felice almeno il suo gatto. Non pensava che avere un gatto fosse così stressante e si sentì ancora più male pensando al costo dei vaccini. Gli sarebbe toccato mangiare crackers e maionese per un intero mese.
Dopo aver nutrito per bene Macbeth e averlo lasciato nell’altra stanza a giocare, Midorima si sedette al tavolo della cucina esausto, come se avesse partecipato alla maratona di New York. In quei giorni si sentiva particolarmente stressato e pensò che fosse stato proprio questo stress a non lasciarlo dormire. Tornando indietro con la memoria, cercò di trovare la causa di questo suo malessere e la risposta gli arrivò sotto forma di gatto: Shintaro, ovvero la palla di pelo arancione, era saltato nel suo balcone e stava miagolando fastidiosamente. Finamente era riuscito a far star zitto il suo, di gatto, che arrivava quello di Kazunari a dare il colpo finale al suo autocontrollo. Sbuffando, aprì la porta-finestra che portava al balcone e non appena prese il gatto in braccio, questo cominciò a fare le fusa. Cosa volesse era un mistero e, sinceramente, non gli interessava neanche. L’unica cosa che voleva fare era andare da Takao, mollargli il gatto e tornarsene a casa a dormire.
Si trovava, quindi, con il gatto obeso in braccio aspettando che Takao aprisse la porta. Sperò vivamente che fosse in casa o avrebbe davvero dato di matto. Il rumore di alcuni passi lo rassicurarono e tempo pochi secondi il viso di Kazunari era davanti a lui.
«Che diavolo..?» si ritrovò a dire il ragazzo, vedendo il suo vicino di casa con in mano il suo gatto.
«Non so come e perché sia arrivato sul mio balcone, riprenditelo» appoggiò il gatto a terra e subito questo tornò a casa del suo padrone. Takao guardò un attimo Shintaro e gli chiuse la porta in faccia. Il ragazzo con gli occhiali rimase un attimo fermo davanti alla porta e, il tempo di assimilare gli inesistenti ringraziamenti di Takao, risuonò il campanello pronto a insultarlo dalla testa ai piedi. Takao riaprì la porta, abbastanza scocciato.
«Che vuoi?»
«Potresti almeno ringraziarmi per averti portato il gatto.»
«Grazie. Sei contento?» Midorima si sentiva preso in giro, che diavolo aveva?
«No, dato che ieri mi hai dato buca senza neanche un preavviso» Kazunari stava per chiudergli di nuovo la porta in faccia ma Shintaro lo bloccò. «Si tratta di essere educati, se non puoi mantenere la parola data, non dare appuntamenti alle persone, così, a caso» Midorima era a dir poco sconvolto da quel che stava dicendo. Che diavolo gli era saltato in mente? Fare una sfuriata del genere, sul pianerottolo poi. Si era lasciato traspostare dall’istinto, cosa insolita, e si ricordò del consiglio ricevuto quella mattina: Oha Asa parlava di affrontare un problema, ma Shintaro si era ripromesso di lasciar perdere, e allora perché si stava comportando così? Quasi come fosse stato deluso da una persona importante?
La risata amara di Takao raggiunse le sue orecchie facendogli stringere il cuore.
«Proprio tu parli di educazione? Per non so quanti mesi ho insistito nel salutarti, nell’essere gentile e mi vieni a dire che io sono maleducato? Ti prego, lasciami in pace.»
«Perché dovrei lasciarti in pace?» Midorima sapeva di dover stare zitto ma era più forte di lui, non riusciva a tapparsi la bocca. «Se c’è una cosa che ho imparato dai tuoi continui tentativi di approcciarti a me, è che non bisogna mai lasciar perdere qualcuno.»
«Che diavolo stai dicendo?»
«Tu sei l’unica persona che nonostante la mia indifferenza ha continuato, imperterrito, a costruire un legame con me» si sentiva un completo idiota. Che razza di frasi stava dicendo? Kazunari aveva la bocca aperta e gli tremavano le labbra. Shintaro voleva prendere a testate lo spigolo della porta, che diavolo gli era saltato in mente? Dire delle cose talmente imbarazzanti a qualcuno come Takao era la cosa più ridicola che potesse fare. Non si conoscevano e probabilmente l’altro lo odiava ma sapeva che quel che aveva detto non era una bugia. Era come se se ne fosse accorto fin dall’inizio ma non avesse mai voluto ammetterlo a se stesso. Non era di certo innamorato di Takao, neanche per sogno, lo vedeva semplicemente come una persona che voleva diventasse sua amica: era stato persistente con lui, non si era arreso per tanto tempo e, anche quando aveva gettato la spugna e lui si era ripresentato da lui, alla ricerca di un aiuto, non l’aveva respinto, non l’aveva insultato e non gli aveva chiuso la porta in faccia.
«Se… Se è questo il messaggio che ti è arrivato» fece una pausa, lo stava guardando negli occhi ma abbassò subito lo sguardo. «Hai completamente frainteso». Takao gli sbattè la porta in faccia e Midorima non rimase deluso, sentì solo la rabbia montargli dentro. Non era di certo un idiota e non si sarebbe arreso così facilmente.





 
Salve a tutti! ଘ(੭*ˊᵕˋ)੭* ̀ˋ
Mi dispiace davvero molto per il ritardo (non vado d'accordo con la puntualità), purtroppo però i banner per me sono importantissimi e trovare del cibo verde è stato... impossibile °□°

Ad ogni modo, a inizio capitolo vi ho chiesto di leggere l'angolo autrice per il semplice fatto che il quarto capitolo non è ancora pronto e, sebbene io abbia già in mente qualche idea, non so ancora come metterle insieme per creare qualcosa di decente. Purtroppo, quindi, non posso neanche calcolare minimamente il tempo che ci impiegherò. (っ- ‸ - ς)

Spero di aver reso adeguatamente la parte che riguarda Aomine e di non averla resa inverosimile o banale, sono molto preoccupata a dire il vero ლ(ಠ益ಠლ)
E ne approfitto per ringraziare Martuccia (♥) che mi ha fatto da Beta!

Leggere le vostre recensioni mi renderebbe davvero molto felice e mi inciterebbe a scrivere il prima possibile il prossimo capitolo༼ つ ◕◡◕ ༽つ

Anyway, mi impegnerò il più possibile. Non abbandonatemi! ᕙ( ͡° ͜ʖ ͡°)ᕗ♥
  
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