Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: ShioriKitsune    19/01/2015    4 recensioni
[AU!,Riren, in cui Levi ed Eren hanno solo 7 anni di differenza]
Dal primo capitolo:
"Il freddo arrivò tutto insieme, così come la sensazione di dita che mi tastavano il polso, probabilmente alla ricerca del battito. Quella voce parlò ancora, ma le sue parole erano senza senso. Mi fu puntata una luce agli occhi e nonostante il fastidio ne fui grato, perché riuscii finalmente a socchiudere le palpebre.
La prima cosa di cui mi resi conto, fu di essere steso sull'asfalto nel bel mezzo del nulla.
La seconda, furono due grandi occhi verdi che mi fissavano".
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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nda: le frasi in corsivo sono in francese. Non mi andava di metterle davvero in francese per non rendere la lettura difficile!
 

Capitolo due – Ninna nanna

 

(Una settimana dopo)

 

Due colpi alla porta. «Levi!»

Roteai gli occhi, rimanendo steso a letto, lo sguardo verso il muro spoglio.

Sapevo che il moccioso non si sarebbe arreso.

«Levi, la mamma ha detto che il cibo è pronto!».

Cibo era una delle poche parole che avevo memorizzato in quella che si era rivelata la settimana più strana della mia vita.

 

Dopo essermi risvegliato nel letto di un ospedale, due giorni dopo l'overdose, pensavo che sarei semplicemente tornato a fare ciò che avevo sempre fatto: vagare, guadagnare qualcosa illegalmente, drogarmi e poi daccapo.

Ma il signor Jaeger, l'uomo che mi aveva trovato assieme al bambino, sembrava avere altri piani per me.

Mi trovavo a Berlino – non sapevo precisamente come: ricordavo di aver preso un treno, ma non pensavo di aver cambiato stato – e non sapevo assultamente nulla di tedesco. Non sapevo come comunicare, come dir loro che stavo bene. Non che stessi bene davvero, ma avevo bisogno di evadere: troppa gente mi aveva notato e non potevo permettere che qualcuno risalisse alla mia vera identità.

«Ehi», borbottai, attirando l'attenzione dell'infermiera. Questa mi guardò con aria confusa, forse sorpresa che fossi già sveglio, e dopo qualche parola lasciò la stanza. «Che cazzo?»

Ma non rimasi solo a lungo: il signor Jaeger – Grisha – entrò e si sedette ai piedi del mio letto. «Ciao, uhm, Rivaille?», domandò in un francese non molto fluente, sbagliando ovviamente la pronuncia del mio nome.

Mi trattenni dallo sbuffare solo perché dovevo la vita a questo tizio e, nonostante le mie azioni dicessero il contrario, non ero ancora pronto a morire. «Rivaille», lo corressi, ma non ci speravo. Dovevo trovare qualcosa di più semplice, anche se per poco, perché proprio non potevo sopportare che storpiassero il mio nome in quel modo. «Chiamami semplicemente Levi».

Grisha sorrise. «Levi, è più facile. Allora, uhm, Levi. Non parlo molto bene il francese, ma lo capisco discretamente. Ti va di... raccontarmi cosa ti è successo? Dall'inizio».

Sospirai.

In realtà non c'era molto da raccontare, e nemmeno mi andava di farlo. In fondo, era uno sconosciuto: chi diceva che potevo fidarmi di lui?

«Non ho nulla da dire».

L'uomo strinse le labbra. «Quanti anni hai? Come ti trovi a Berlino? Non voglio essere... invadente, ma se vuoi che io ti aiuti-».

«No», lo bloccai. «non voglio il tuo aiuto, né quello di nessun altro. Fatemi uscire di qui e basta».

Mi fissò per un momento che parve infinito, e dentro di me sperai che il messaggio fosse stato recepito: non ero alla ricerca di un'ancora, potevo cavarmela benissimo da solo.

«Mi dispiace, ma non posso lasciarti tornare per strada. Sono un dottore, tu hai problemi con la droga e a quanto pare né soldi né un posto in cui stare. Quindi, finché non deciderai di aprirti e chiedere aiuto, starai a casa mia. In modo che io possa tenerti sotto controllo».

Se fossi stato in un cartone animato, probabilmente la mia mascella sarebbe arrivata al pavimento. Quale persona sana di mente sarebbe stata disposta ad ospitare un ragazzino drogato e sconosciuto? Sarei potuto essere un serial killer o chissà cosa. E aveva un figlio e una moglie di cui preoccuparsi, no?

Lo fissai con sospetto crescente, affilando lo sguardo.

Lui parve accorgersene. «Lo so che ti sembrerà strano, ma non lo è. Non è la prima volta che raccatto ragazzini per la strada. Posso dire che casa mia è una specie di... orfanotrofio».

Sollevai un sopracciglio. Per nessuna ragione al mondo sarei finito in un posto del genere. «Non ho bisogno di-».

Sollevò una mano, bloccando le mie parole. «Mi dispiace Levi, ma non accetterò un "no" come risposta. Ho già firmato i moduli, d'ora in avanti sei sotto la mia responsabilità. Ti porterò a casa domani».

In quel momento mille emozioni contrastanti m'invasero. La prima, e maggiore, fu la rabbia: cos'ero, una specie di cagnolino da adottare? Chi dava il permesso a quest uomo di decidere della mia vita?

Non avevo mai avuto bisogno di nessuno, e questa volta non sarebbe stato diverso.

Ma poi, un'altra parte di me, era quasi... lusingata. Nessuno aveva mai dimostrato tanto interesse per me, da quando la mamma era morta.

Spostai lo sguardo fuori dalla finestra, combattendo internamente con i vari me stesso. Non avevo ragioni per accettare la sua offerta – che non era una vera offerta, ma un obbligo – ma neanche per rifiutarla: in fondo, avrei avuto un tetto e del cibo.

E sarei stato lontano dalla droga.

Sospirai.

«Va bene».

 

Così, mi ero ritrovato a vivere in casa Jeager.

Non era confusionaria come mi ero aspettato quando avevo sentito la parola "orfanotrofio": in effetti, c'erano soltanto pochi altri bambini e due ragazzi più o meno della mia età.

Avevo associato i loro nomi a delle immagini, per memorizzarli in caso di necessità: c'era la bambina con la sciarpa rossa, Mikasa, taciturna, non invadente, ma dall'aria minacciosa... mi ricordava me stesso.

Poi c'era il fungo biondo, Armin, e faccia da cavallo, Jean. In realtà non ero stato io a dargli quel soprannome, ma il moccioso Eren, che si era preso la briga di farmi tradurre l'offesa da suo padre, sghignazzando. C'era Annie, una biondina altrettanto silenziosa e poi Hanji ed Erwin, che erano un anno più grandi di me ma che non avevo ancora conosciuto. Meglio così, non avevo nessuna intenzione di fare amicizia.

Nessuno dei marmocchi mi aveva infastidito eccetto uno, che proprio non voleva saperne di scollarsi e lasciarmi in pace.

Lo stesso marmocchio che continuava a bussare alla mia porta.

«Levi, sto entrando».

Prima o poi se ne andrà, pensai, ma il momento dopo avvertii un peso indesiderato ai piedi del mio letto.

Uccidetemi, ora.

«Ehi, Levi, guarda cosa mi ha comprato papà!», annunciò tutto felice, facendo oscillare una specie di libro davanti ai miei occhi. Era un dizionario?

Oh, no, non avevo bisogno di comunicare con lui. Con tutti, ma non con lui.

Si sedette a gambe incrociate sul materasso, sfogliando le pagine con il cipiglio che adottava ogni volta che si concentrava. «Io... sono... Eren. Tu... sei... Levi. Andare... bene?».

Sospirai. «Non sapevo che un moccioso idiota come te sapesse leggere», borbottai, conscio del fatto che non avrebbe capito. Eppure si sforzò, senza risultato, di cercare ogni parola.

Sospirò affranto. «Comunque», iniziò, schiarendosi la voce e ricominciando a sfogliare il dizionario. «Cibo... tavola... tu... fame?».

Rotolai su un fianco, tirandomi le coperte e facendolo cadere per terra. Non l'avevo fatto di proposito, ma il broncio offeso che si dipinse sul suo volto fu abbastanza soddisfacente da rubarmi un ghigno. «...Cattivo», brontolò.

 

Alla fine, decisi di scendere per cena. Non avevo molta fame, ma liberarmi della sola compagnia del moccioso era cosa ben gradita. Inoltre, i pasti della signora Jeager – Carla – erano davvero deliziosi.

«Levi, caro, come stai oggi?», domandò, con quel suo modo di fare esageratamente gentile.

Mi limitai ad annuire. Anche lei sapeva qualcosa di francese: a quanto avevo capito, lei e Grisha si erano conosciuti proprio a Parigi, durante una vacanza-studio.

Eren era seduto di fronte a me. Mi fissava continuamente ma, non appena alzavo lo sguardo, lui sembrava preso da altro. Era così fastidioso che avrei potuto lanciargli del cibo per farlo smettere, se non fosse stato così buono.

Ad un certo punto si avvicinò a Carla, chiedendole di porgerle l'orecchio. Lei mi guardò, sorridendo. «Eren vuole sapere quanti anni hai».

Che moccioso invadente.

Da quando ero lì non avevo parlato poi molto, almeno non con chi poteva capirmi. Mi divertivo a insultare Eren, che tanto non aveva idea di cosa io stessi dicendo, ma niente di più. Così, dover rispondere a quella domanda – solo perché posta, indirettamente, da Carla – mi provocò un enorme sforzo. «Diciassette».

Dopo un attimo di sorpresa, la donna tradusse la risposta al marmocchio, la cui bocca assunse la classica forma ad "O" per i successivi trenta secondi.

Lo fissai a mia volta, occhi stretti.

«Pensavo fosse più piccolo, visto che è così basso!»

Carla sgranò gli occhi, tirandogli un pizzicotto «Eren Jeager!».

Improvvisamente, morivo dalla voglia di sapere cos'avesse detto quel cosetto su di me. La donna sembrò imbarazzata, e si schiarì la voce. «Beh, devi scusarlo, non è molto educato. Ha detto che sei... basso, per la tua età. Non dargli retta!».

Ouch.

Lo trapassai con uno sguardo.

 

Ah, moccioso, sei decisamente sulla mia lista nera.

 

 

Quella notte l'astinenza iniziò a farsi sentire.

Iniziai a sudare freddo, mentre crampi e spasmi prendevano possesso del mio corpo, e non avevo la più pallida idea di come riprendere il controllo di me stesso.

Cadere nella droga era stato il mio errore più grande: amavo avere il controllo su ogni cosa, avevo bisogno di avere controllo su ogni cosa, e questo era l'unico caso in cui il controllo mi veniva sottratto. Non potevo sopportarlo, eppure ero tanto stupido da ricaderci ogni volta.

Ma no, questa volta sarebbe stato diverso.

Strinsi i denti, stringendo i pugni e cercando di regolare il respiro. Non sarebbe stato facile.

E proprio quando pensavo di aver ricominciato a respirare regolarmente, tutto tornò al punto di partenza.

E, in quel momento, una figura sgusciò nella mia camera.

Mi fissò ed io fissai quegli occhi, l'unica cosa che riuscivo chiaramente a distinguere nel buio.

La sua voce mi arrivò ovattata, distante. «Levi... stai bene?».

Non risposi, non ne avevo la forza, ma continuai a fissarlo. Lui sembrò agitarsi e, riconobbi la parola "padre" in una sua frase sconnessa. Gli afferrai il polso con le poche forze che mi restavano. «No».

Non c'era bisogno di svegliare Grisha, non c'era molto che lui potesse fare. Mi aveva avvertito, sapevo cosa sarebbe successo e sarei stato abbastanza forte da affrontarlo da solo.

Le mie dita erano ancora allacciate intorno al suo braccio, ma la presa divenne talmente debole da non potersi nemmeno più definire tale.

Dopo qualche attimo di titubanza, Eren prese posto sul letto, sedendosi al mio fianco.

 

Che diavolo vuoi, moccioso? Va' via.

 

Non si mosse per diversi minuti, limitandosi ad osservare impotente il mio corpo in preda agli spasmi.

Poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, iniziò ad intonare una melodia.

M'immobilizzai

Cosa stava facendo, mi stava davvero cantando una ninna nanna?

Lo fissai, il sudore che mi rigava la fronte, e cercai di concentrarmi su quelle note malinconiche, seppur dolci allo stesso tempo.

Lo feci fin quando non mi accorsi che il respiro era tornato normale.

Lo feci fin quando le mie palpebre non si chiusero.

 

La mattina dopo, quando mi svegliai, Eren era ancora accovacciato al mio fianco.




nda:
Eccomi qui con il secondo capitolo, spero sia valso l'attesa!
Avrei aggiornato prima, ma oltre ad avere problemi di fuso orario (sette ore avanti non sono facili da gestire <_<) ho avuto un sacco di impegni!
Cercherò di aggiornare prima, promesso u.u
In ogni caso, grazie a tutti coloro che stanno leggendo questa storia, spero possa continuare a piacervi! :)
   
 
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