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Autore: Pwhore    27/01/2015    1 recensioni
A volte ci penso, a cosa succederebbe se la band finisse e Alex cominciasse a vedermi come un vecchio compagno di avventure da esporre assieme agli altri trofei. A volte vorrei fossimo su un treno ma non credo di avere abbastanza controllo su me stesso da non incrinarmi in caso non fossi l'ultima fermata. In caso fossi a metà strada. [...] Non ho mai le parole giuste e sono ancora più impacciato coi gesti ma spero sappia che i miei sguardi sono veri; che penso davvero ciò che dico, dice, diciamo- ogni parola, ogni accenno, ogni volta che le sue labbra si dividono, quello che ci riempie non finisce mai nel cestino; aspetto che se ne vada o chiuda le palpebre e lo raccolgo, lo nascondo nella tasca piccola dello zaino, nel portafoglio tra la nostra foto e gli scontrini del reparto dischi; mi aggrappo a quell'essenza di lui con tutto me stesso e faccio di tutto per tenerla viva, accesa, luminosa come la prima volta che l'ho visto. [...] Benedetto tutto quello che l'ha portato qui.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alex Gaskarth, Jack Barakat
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dicono che i fiori fioriscano una volta sola. Appassiscono o si piegano al vento e all'improvviso sembrano più vivaci, certo, ma per rinascere devono morire, e una volta morti non sono mai più gli stessi. Alex non è così. Alex sembra sbocciare ogni secondo, ogni centimetro della sua pelle diafana abbraccia e ricambia il sorriso del sole e ogni ciuffo nocciola che gli nasconde la fronte ha le stesse sfumature del legno più pregiato, così bello e raro che solo i suoi oceani d'occhi riescono ad ammaliarti maggiormente. E non bisognerebbe neanche chiamarli oceani, sono deserti dove le tempeste sono ricordi e le rocce i punti fermi che hai sempre cercato, sabbie mobili che ti fanno tremare le caviglie e ti cingono la vita in un abbraccio che ti catapulta nell'ignoto, una dimensione che altrimenti non avresti neanche mai immaginato. Alex è qualcos'altro, un essere che dovrebbe e fa del suo meglio per essere umano ma che in realtà ha una natura e un'origine tutte sue, un tocco che ricuce ma sfiora, a metà tra un soffio e un pensiero; che ogni volta che schiude le labbra ti fa venir voglia di essere sperduto sulle cime di una montagna giusto per osservare il contrasto tra il suo calore e la neve, per poterlo sfiorare in tutti i suoi strati e vedere se sarebbe uguale al tatto, se ora stia fingendo o se lo farebbe allora, avvolto in tutta la piuma e la stoffa che ha trovato nell'armadio e si è gettato addosso senza accertarsi che gli stesse bene. Gli sta tutto bene. Potrei ricoprirlo di fango e la gente penserebbe che si sia sporcato coprendo dei ragazzi da un fuoristrada troppo veloce. E la cosa è che potrebbe perfettamente accadere, sarebbe da lui provarci.
Credo che Alex abbia un dono. E non lo dico come intendono gli altri, solo perché è bello come una divinità greca o radioso i ogni luce; mi riferisco più a come scrive, come il suo magnetismo attiri tutti i fenomeni più eccezionali dell'universo, come qualunque cosa faccia la faccia quasi nessuno l'avesse anche solo mai concepita prima d'ora. Ogni cosa che passa per le sue dita lunghe e attente diventa ate, scompare dal pianeta per riapparire al suo vero posto quasi si fosse creata da sola. Mi riferisco più a come dedica la sua vita alla dimensione a cui appartiene, a come sembra essere nato per essere la persona che è. E Dio, non so spiegarmi perché sia in una band con me ma a volte quando sfioro una corda riesco a sentire l'elettricità che lo caratterizza corrermi lungo le vene e urlare, cantare, gridare a squarciagola, perché non c'è niente al mondo di più bello di una persona come Alex.
E tutte le frasi già dette, i libri già scritti e i poemi già dedicati, è come se esistessero per lui, come se gli altri riuscissero a percepirlo pur senza averlo mai incontrato e cercassero di comunicare a un mondo non abbastanza attento il miracolo che si sentono in petto e che ora cammina lungo Baltimora, un ritornello fra i denti e la pelle di qualcun altro tra le dita. A volte mi chiedo se siamo tutti sintonizzati sullo stesso canale, se le onde radio passino e si riproducano attraverso i nostri midolli ossei piuttosto che grazie a lavoratori appositi. O forse è capace di parlare senza parole, senza note, senza pennelli e onde d'urto; senza silenzio e senza rivolte, senza sguardi e senza intrappolare istanti. Forse basta il suo respiro, l'abbassarsi e l'alzarsi regolari del suo petto, a mandarci un brivido lungo la colonna vertebrale e a farci lottare per qualcosa d'indefinito che non sappiamo dove ma sappiamo che c'è. E forse è questo, la pelle d'oca: il nostro organismo che arriva a capirlo, che rimbomba all'interno della sua cassa toracica e per qualche secondo ha la possibilità di esplorare l'universo.
Non credo sarei lo stesso senza Alex. Non credo sarei o saremmo, se fossi interessato al rapporto che ha con gli altri, oltre a quello che ha con me. Ma sono egocentrico e egoista e l'unica cosa a cui riesco a pensare è che ora la sua mano è al sicuro nella mia, non cinta attorno alla vita di qualcuna che se vuole capirlo sinceramente non lo conosce abbastanza dal principio, perché una persona come Alex lo senti dal primo momento, non potrai mai rivelarla interamente. E invece lei prova e prova, trasforma la sua magia in formule matematiche e le incognite del suo carattere in scarabocchi che crede la porteranno alla fine del tunnel; solo che sbaglia, perché Alex è una stella e lei sta cercando di schiarirlo con una torcia usa-e-getta, e non basterebbe tutto il carbone del mondo per far apparire una macchia sulle sue dita perfette.
Ma alla fine che vuoi che ne sappia io, sono solo un ragazzino innamorato che sente la vita scorrergli in corpo solo quando il suo cantante lo riconosce e brilla per lui, non è come se conoscessi la galassia e le sue leggi e avessi anche solo la più pallida idea di tutti i grandi eventi che hanno scolpito l'umanità. Però conosco tutte le sue catastrofi, tutte le buche in cui è inciampato negli anni cosa lo fa fingere e cosa lo scaraventa in un'altra dimensione. Non so niente eppure so tutto, e per quanto Rian mi lasci in giro giornali, novelle e accenni alla fine sono in pace così. Voglio dire, non so neanche se sia un modo di dire corretto ma se ha oltrepassato le labbra di velluto di Alex è un termine più che valido per me. Nell'uragano d'incertezze in cui vortico lui è l'occhio del ciclone e non si rifiuta la terraferma quando si affoga, specialmente se è ciò che hai sempre sognato.
«Jack, ti voglio bene» sorride, spostandomi i capelli dal viso con la mano libera. Siamo a casa sua, sdraiati sul divano, e una delle nostre serie preferite riempie il silenzio altrimenti colmo dei nostri respiri. Non sapevo gli piacesse ma in questo momento sembra che non potesse essere altrimenti.
«Anch'io Lex» mormoro in risposta. La coperta che mi ha regalato per Natale perché la circolazione mi abbandona troppo facilmente in inverno ci ricopre e sembra allo stesso tempo leggera come l'aria e tiepida come una pelliccia, eccetto che so che è il calore di Alex a tenerci coloriti. La mia testa è sulla sua spalla e la sua sulla mia fronte, come mi ha sistemato lui. All'inizio ha giocherellato con la mia mano sinistra ma ora le nostre dita sono a metà intrecciate e strette attorno ai nostri palmi. Mi guarda e sorride, ignaro di come la luce fioca bloccata dalle tende gli faccia brillare le iridi quasi le stesse ridipingendo. Come se avesse bisogno di diventare ancora più fuori dal mondo.
Il suo petto si alza e abbassa quasi impercettibilmente, incastrato al ritmo del mio respiro. Il suo battito è ipnotico, mi trascina lontano da casa sua e mi spinge lungo uno scivolo al buio, dove ogni giro è una contrazione del suo cuore, ogni lampo di coscienza un rilassamento. Darei qualsiasi cosa perché questo stato di quiete durasse per sempre; invece prima che possa controbattere il mio collo cede e in pilota automatico gli poso la testa in grembo, vicino allo stomaco. Abbassa gli occhi per sorridermi e mi accoccolo più vicino a lui, cercando lo sguardo di uno degli attori. Potrei dire qualcosa ma non ne ho bisogno. Mi accarezza i capelli e lasciamo che le urla dallo schermo piatto non rimangano inascoltate.

Dicono che quando riesci a stare in silenzio con qualcuno senza sentirti a disagio è perché tra voi due c'è un rapporto profondo. Questo è se non ti senti fuori posto o non stai meramente ignorando e venendo ignorato, certo. Se il silenzio è pieno di colori e sembra accarezzarti appena, ti riempie lo stomaco di scintille e allo stesso tempo ti culla, allora la persona che ti respira accanto è radicata a fondo nelle tue vene. A questo dò ragione. Passo così tanto tempo con Alex e mi affido così tanto a lui che non sono più così sicuro di dove i nostri confini di stato si separino e guardo ai nostri perimetri come uno solo, quasi lui fosse la terraferma e io un'isola ma una striscia netta ma invisibile ci tenesse l'uno attaccato all'altro senza possibilità di distacco senza frane o esplosioni, e sebbene lui non abbia bisogno di una penisola per sopravvivere un'onda anomala tra noi cambierebbe molto più di quel passaggio e di un'ecosistema.
A volte ci penso, a cosa succederebbe se la band finisse e Alex cominciasse a vedermi come un vecchio compagno di avventure da esporre assieme agli altri trofei. A volte vorrei fossimo su un treno ma non credo di avere abbastanza controllo su me stesso da non incrinarmi in caso non fossi l'ultima fermata. In caso fossi a metà strada. In realtà Alex non mi sta dando molti segnali, credo una persona qualunque non gli darebbe il minimo peso, ma né io né lui siamo qualcun altro e a volte questo mi paralizza. Non ho mai le parole giuste e sono ancora più impacciato coi gesti ma spero sappia che i miei sguardi sono veri; che penso davvero ciò che dico, dice, diciamo — ogni parola, ogni accenno, ogni volta che le sue labbra si dividono, quello che ci riempie non finisce mai nel cestino; aspetto che se ne vada o chiuda le palpebre e lo raccolgo, lo nascondo nella tasca piccola dello zaino, nel portafoglio tra la nostra foto e gli scontrini del reparto dischi; mi aggrappo a quell'essenza di lui con tutto me stesso e faccio di tutto per tenerla viva, accesa, luminosa come la prima volta che l'ho visto.
Benedetti aerei. Benedette barche, macchine, agenzie per traslochi; benedetto tutto quello che l'ha portato qui. Quando è arrivato non conosceva nessuno, ora tutte le strade gridano il suo nome. E la mia anima si accartoccia, si apre, si tende verso di lui, esita e ritrae la mano; urla sott'acqua, brucia nell'artico, scala la fossa delle Marianne e sprofonda nell'Everest; si contorce in nuvole di colore e cerca di dare un senso a tutto quanto, mai davvero concentrata abbastanza su qualcosa che non sia la maniera in cui il suo viso riflette i raggi del sole, come ogni lembo della sua pelle chiara sembri abbracciarlo e accarezzarlo. Solo che sono solo un altro eco in una caverna, non può sentire il tremore del mio silenzio quando le mille sfumature delle rocce gli riempiono persino i polmoni.
Per questo trovo strano che durante i concerti riesca a vedermi. Quando chiunque dubiterebbe di lui, butta al vento tutte le scuse che gli offrono e si sporge nell'abisso dei miei occhi per una, due, cento manciate di secondi, quasi stesse cercando di vedere il fondo prima di tuffarsi. In questi momenti mi sento come un buco nero, divoro e non restituisco la luce perché la mia forza di gravità non è abbastanza decisa da attrarre lui. Però mi sorride, tasta il terreno, fa capolino nella mia testa e non ne sembra dispiaciuto.
Forse è questa una delle cose più belle. Non è mai dispiaciuto, non di come ho disposto i miei mattoni, non di come la mia pittura si stia screpolando davanti alle intemperie e non di come i fiori nei miei vasi fatichino a sopravvivere nei mesi estivi; mi guarda e vede le mie fondamenta, i miei progetti, le centinaia di cartacce e le lattine vuote che cerco con tutto me stesso di evitare si accascino contro il mio portone. Mi vede per quello che voglio e cerco di essere, non per il modo goffo e gli errori che commetto nel tentativo di solcare il mio traguardo. Per quanto ne so, potrei rovinare tutto quello che ho costruito finora provando a ricucire un dettaglio poco importante e lui mi presenterebbe ancora come se fossi la persona più spettacolare del mondo.
Salto il più in alto possibile e roteo su me stesso, stringendo gli occhi quando atterro. Le luci dello stage e quelle alla fine della sala mi abbagliano, vivide e accese come solo ai concerti è permesso. Mi sposto il ciuffo dagli occhi scuotendo la testa e un po' del mio sudore atterra sulla guancia di Alex, che sta camminando verso di me, labbra schiuse e microfono in mano. Il pubblico urla, canta, balla e salta a ogni incrinatura, ogni sfumatura nel timbro della sua voce, e per qualche frazione di secondo sembriamo parte della stessa creatura, come se questa venue fosse un grembo e noi fossimo tante piccole cellule, rinchiusi nello stesso organismo e intenti a cercare di farlo esistere nel modo migliore possibile, diversi e uguali allo stesso tempo. Le nostre casse toraciche sprofondano tutte sotto il tocco di Zack sul suo basso, le nostre gole bruciano tutte mentre cerchiamo di sradicare e urlare via tutto il dolore e la paura, la rabbia e la disperazione, mentre cristo, diamo del nostro meglio per incendiare tutto quello che ci avvelena e divora da dentro, per cui non veniamo trattati come alto che merda; la batteria di Rian ci rimbomba in ogni organo, non solo nelle orecchie, e se anche non sono la ciliegina sulla torta per molta gente, ogni volta che sfioro la chitarra raccolgo il mio cuore dal selciato, e qualsiasi cosa dicano gli altri è molto più di quanto possa suggerire. Cristo, quando siamo lì e suoniamo è tutto al meglio, la realtà non potrebbe essere più perfetta.
Alex appoggia il gomito sulla mia spalla e continua a soffiare la sua vita nel microfono, il manico della mia chitarra a pochi centimetri dalla sua pelle accaldata. Se perdessi anche solo un po' la presa rischierei di farlo sanguinare; ma li continua a cantare e le mie dita stringono forte le corde. Alex mi guarda e ricambio, inclinando il viso per vedere oltre le luci riflesse nel suo sguardo. Lui si sporge e mi bacia, piano e lentamente ma con l'effetto di mille uragani; e quando ci stacchiamo non distogliamo lo sguardo, tra le migliaia di urla tutt'attorno. Sento un vetro frantumarsi e cadere attorno a noi ma so che non è reale. E' la mia tristezza che se ne va, i miei pensieri che crollano spezzati dalla brezza soffice che è il suo respiro. Mi guarda ancora e riprende a cantare, e so che mi chiederebbe di unirmi a lui se solo fossi meno stonato. Non che sia senza speranza, è solo che preferisco colorarmi della sua voce e lui lo accetta, senza rendere il mondo partecipe della nostra complicità. Siamo complici di molte cose, noi.
«...And I'm the pen». Improvvisamente tutto finisce e rimaniamo in piedi nel silenzio di mille cuori urlanti, le note perse a mezz'aria e i nostri respiri che continuano a spezzarsi e ricostruirsi senza tregua. Scintille metaforiche e reali sbocciano tutt'intorno, mentre c'inchiniamo e sorridiamo finché le guance non sfuggono al nostro controllo. Alex è di nuovo accanto a me e so che è come dovrebbe essere.

«Ehi Lex» la mia voce sembra sfuggire dalle labbra di qualcun altro ma lui si gira lo stesso, il beanie tra le dita affusolate e i capelli scompigliati.
«Jackie» esclama, lo stesso soprannome da quando è entrato nella mia vita, tra cumuli di scatoloni, "eppure ero sicuro che fosse qui" e detti mai immaginati. Respiro a fondo e mi sembra di sentire l'odore muschiato dell'Essex riempirmi i polmoni.
«Mi chiedevo se ti andasse di fare un giro» mormoro, appoggiandomi allo stipite della porta. Lui ride tra sé e sé, guarda il beanie poi me e poi sorride di nuovo, infilandoselo in testa. Pochi secondi dopo i nostri passi si confondono con gli altri mille delle folle diurne, ora al sicuro tra le braccia di qualcosa che raramente meritano, e le sfumature della notte si fanno più intense, quasi ogni dettaglio insistesse gridasse per essere guardato. Consciamente non conosco Ashville, mi fulminino se l'abbia mai anche solo sentita nominare o scorta su qualche mappa geografica, eppure ora i miei piedi si muovono come se fosse casa, e tra i vicoli e i condomini abbandonati mi sembra di trovare un filo, quasi io e Alex fossimo Arianna e Teseo, eccetto che non fuggiremo l'uno all'altro appena messo alle spalle il nemico.
«Che cristo di notte» commenta, il mento elevato verso il cielo. Ma che nemico? La vita frenetica dei tour? Le case discografiche troppo esose, le fidanzate troppo egocentriche? O sono le cose di tutti i giorni, i pensieri di tutte le notti, che ci paralizzano e rinchiudono nell'armadio coi nostri scheletri?
«A volte mi chiedo cosa ti abbia spinto per questa strada» mormoro la normalità, la ripetuta domanda a cui non manca mai risposta; eppure mi guarda come se fossero parole che non ha mai sentito. So che io le mie paure non le saprei affrontare altrimenti. «A parte l'ovvio, certo. O anche con l'ovvio, alla fine è sempre tutto buio».
«Francamente non ne ho idea. Voglio dire, non so perché voglio che sappiano. Perché voglio che le mie parole siano respirate e assaporate, invece che solo intrappolate nell'inchiostro o sullo schermo del computer di qualcun altro. A volte mi dico che voglio impedirmi di cadere a pezzi, ma cantare non significa esorcizzare i tuoi demoni delle tre di notte; è dipingerli attraverso la loro ombra a mezzogiorno, quando sei forte e deciso e ti sembra che potresti abbatterli a mani nude, illeso come fossi appena nato. Eppure quando nasci c'è quel periodo di terrore in cui non respiri, non sei ancora pronto ad afferrare l'ossigeno che ti circonda e collassi su te stesso; e tutti sembrano dimenticare o tralasciare, perché nascere è bello, nascere è poesia. Ma in tutto questo sono intrappolato nel panico che sale, nei "cristo non so cosa fare", nei "cazzo sto morendo". E lo so che non sto morendo, lo so che fra un po' respirerò e acquisirò colore, ma in questo momento sono seppellito vivo dentro me stesso, a vivere e rivivere il primo istante sulla terra, il terrore che ci abbraccia dal principio». Fa una pausa. «Forse voglio essere ascoltato perché sto cercando risposte. E' più semplice se guardi gli altri, è così che la maggior parte delle idee emerge. O lo è? O sono solo immerse in un calderone bollente e vedono la superficie solo quando son pronte? Forse cerco in loro quello che non faccio, cerco d'individuare le loro basi perché invece di costruirmi ho scavato tunnel. Forse voglio illudermi di non essere solo, forse voglio illudermi di esserlo. A volte ho paura che sia tutto solo un mucchio di forse, l'ouroboros che si morde la coda ma non è in grado di rinascere o abbandonare definitivamente né il futuro né il passato, soffocando nel presente». La sua voce non trema ma la mia cassa toracica sta pugnalando tutto ciò che dovrebbe proteggere. Rifiuta lo sguardo all'orizzonte e attraversa i miei zigomi, planando nei miei occhi. Non si sforza di sorridere; sa che se avessi le parole sarei io a parlarne. Non so perché sono qui, non perché non ci sono. Ma so che il mio universo si rompe senza di lui, e questo mi basta.
«A volte penso di portarti in Belgio. Pagare un biglietto qualunque e sederci su un treno, quasi fossimo parte di un quadro animato, una storia che si avvera. Ti regalerei un bloc-notes e giocheresti con la penna assorto nei tuoi pensieri, e io mi troverei dilaniato tra quale opera d'arte guardare. Sceglierei te e dopo un po' sorrideresti, senza mai dirmi cosa ti ha fatto brillare il volto ma senza mai far aumentare la distanza tra di noi».
Lui sorride al mio fianco e io alzo lo sguardo alla luna, chiudendo poco una palpebra per sfuggire ai lampioni.
«Altre volte invece penso che sia stupido che possa farlo, che il fatto che tu sia confinato in poco più di duecento ossa sia inaccettabile e che ci debba essere stato un errore enorme da qualche parte, perché una creatura come te è ovunque e da nessuna parte, abbraccia tutto e niente. A volte mi chiedo come funzioni tutto questo, a volte mi rattrista vederti sulla prima linea con tutte le tue toppe e le tue cicatrici sapendo che se tornassi indietro te le faresti di nuovo per proteggermi. A volte mi sembra di poter stringere tutto, a volte sprofondo e non so più se sono nella tua anima o dentro me stesso. A volte non so nemmeno cos'è, me stesso».
Il ciuffo dorato gli scivola sugli occhi e lui lo sposta voltandosi a guardarmi. «Sapere in che oceano stai sprofondando non aiuta a ritrovare la superficie» commenta in un soffio, rivolgendolo forse un po' più a sé stesso che a me. Esita, mordendosi il labbro inferiore. «Ma se ti trovi in una vasca, essere cosciente del fondale aiuta a rispingerti verso l'alto» espira, centrando appieno il mio problema con le metafore. Più con la vita, in realtà. Vivere in tour è una rappresentazione della mia vita emotiva - è tutto in movimento, necessità frenetiche a cui da solo non posso provvedere e intoppi cui da solo non avrei mai pensato; un giorno sei in un posto e un altro sei perso nel nulla circondato da segni che non capisci. Esci dal guscio per cercare di dare un senso a tutto, partendo anche solo dalle basi, e ti ritrovi in ginocchio in un angolo a vomitare l'anima abbracciato a una bottiglia neanche un'ora più tardi, una paura martellante che ti corrode dalle viscere ai capelli e ti mozza il respiro che non sei neanche poi così sicuro di meritare.
«A volte non riesco a smettere di pensare che vivere sul fondo del mare sarebbe la scelta migliore. Mi decomporrei e aiuterei nuove creature a nutrirsi, crescere più robuste. Sarebbe qualcosa di concreto, per una volta».
Alex non risponde. Nessuno ne parla mai apertamente ma giriamo attorno alla fine di tutto quello che c'infesta piuttosto spesso. E' più un avvicinarsi in punta di piedi fino a stringere tra le mani il metallo delle barricate, spingersi il cuore di nuovo in fondo alla gabbia toracica e scivolare davanti al parapetto, esitando nel reggersi o meno. A volte lui è dall'altra parte, a volte lo sono io; più spesso però siamo insieme sull'orlo del cornicione, aggrappati solo ai nostri respiri e senza uno straccio d'idea sul perché non dovremmo avvolgerci nelle nuvole e lasciare che questo sia il nostro everything better plan. Siamo davvero liberi solo quando siamo insieme, e anche se sembra stupido quando proiettiamo i nostri corpi nel vuoto che ci precede il mondo alle nostre spalle non è che una cella, l'aria davanti la nostra vera patria. E non intendo la caduta, il momento in cui solo le mani dell'altro saranno più un abbraccio; non intendo la morte, o il coma o l'incoscienza, intendo semplicemente quello che ho detto. Seduto sul bilico ho più spazio vitale di quanto ne avrei mai nel mondo reale, e dividerlo con Alex lo rende ancora più enorme. A volte credo che parlarne direttamente permetterebbe alle infezioni, ai gas di scarico e agli errori esterni d'inquinare questo spazio, strapparmelo via e rinchiudermi nella mia vita, costringendomi ad affrontare il fantasma che spero di non essere; altre mi rendo conto che a forza di danzare sulla lama di un coltello qualcosa potrebbe sfilacciarsi. Ho paura che quello possa essere la mia amicizia con Alex. Ma quando sei conscio che più spesso di quanto vorresti ammettere sei tentato dal cingerti il collo e dare un calcio alla sedia, come fai a dire alla persona più importante della tua vita che c'è qualcosa di più oltre al silenzio eterno? Come puoi sperare di convincerla di ciò a cui non credi neanche tu?
«Credo che ci sia qualcosa di astratto nella tua concezione di concreto. Diventar cibo per pesci - poetico certo, ma altereresti il loro ecosistema. Qualcuno di loro abbasserebbe la guardia e sarebbe mangiato da un altro pesce. Un progredirsi della legge del più forte, o del più crudele, se preferisci. L'interno concetto del crescere più robusto e vivere meglio è astrazione prima che vita».
«Penso solo che questo non sia il mondo adatto a me»; la mia voce resiste alla pressione ma il mio battito è sotto lo zero. Alex non può rispondere; in tutto il suo splendore sa che non può rinascere dentro di me per far sì che vada tutto bene. Mi mordo il labbro e continuiamo a camminare.
«Se può essere d'aiuto puoi venire a vivere nel mio mondo - magari all'inizio avrai qualche problema ad ambientarti ma ti assicuro che tutto qui è più che abbastanza, dato che il mio mondo sei tu» mormora sofficemente dopo un po', guardandomi coi suoi occhi chiari come il cristallo e scuri come l'ombra. Sorrido piano e lui ricambia, le sue dita improvvisamente intercalate con le mie. «Penso faccia schifo non sapere chi, cosa o perché sono» ammette, «ma alla fine della giostra sono felice di esser perso nel nostro caos». Mi stringe la mano dolcemente e con vigore, come se ne avesse un bisogno primitivo, viscerale. «Non credo vorrei essere risolto se tu stessi ancora lavorando sui tuoi problemi».
La notte ci ha ricoperti, portandosi via piccoli dettagli e mozziconi di sigaretta dal letto di ciottoli, ma la luce tremolante delle stelle è ancora abbastanza per guardarlo in faccia e innamorarsi di tutto ciò che è. Mi ritrovo avvinghiato a lui in una cinta che è nata da sola, le mie dita fra i suoi capelli e le sue labbra fine pressate contro il mio petto. Spero che il battito del mio cuore non lo assordi, che tutte le esplosioni nel mo stomaco non arrivino a ferirlo. E' impossibile da esprimere ma appena il suo calore diventa mio il respiro nei miei polmoni cessa di essere scarti e mi riempie le arterie, colorando tutto con pennellate brillanti e sensazioni straniere; appena il suo corpo s'intreccia al mio mi rendo conto di quanto stessi morendo per un abbraccio. Credo di star piangendo ma spero di no, le mie lacrime sarebbero catrame e vetri rotti e la pelle perfetta di Alex non andrebbe sfiorata neanche con le parole.
«Passerei la mia vita a cercare di liberarti dalle catene della tua mente Lex» sussurro. Non è abbastanza, niente è abbastanza. Le parole scappano e si rintanano dietro ai mobili, sculture di polvere e frammenti fuori dal tempo, facendo capolino fra pensieri annebbiati, da qualche parte tra fantasia e realtà - o sono mai esistite? «Vorrei ci fosse un modo per mostrarti che sei l'ago nel mio pagliaio, il fiore che ha salvato e continua a salvare la mia landa desolata ogni volta che penso che nemmeno un secondo diluvio universale potrebbe aiutarmi. Sei una persona così speciale che non sei neanche una persona. Sei le luci del nord, la linea di ghiaccio che separa il mondo dal bruito esterno, l'unico sentimento che davvero non si potrà mai spiegare». Sorride sotto le mie dita e la sua bocca accende un incendio nella savana di sterpi e cartacce che mi ritrovo in petto. «Cristo Alex, sei la cosa più bella della mia vita, sei l'unica persona per cui vivrei mille e mille volte senza mai una tregua. Rinascerei durante la fine dell'universo pur di sapere che non sei lì abbandonato a te stesso mentre l'apocalisse si scatena. Sarei migliore solo per riportarti in piedi».
Il pianeta è immobile attorno a noi ma i capelli di Alex sono un tornado e le detonazioni nel mio sangue mi fanno girare la testa. Mi stringe più forte, come se fosse in bilico e avesse bisogno di affidarsi completamente a qualcosa per non affondare, e lo cingo con più decisione che posso, strizzando le palpebre per vedere solo lui. Come se vedessi mai qualcos'altro.
«Ti voglio bene Jack» mormora. Il mio petto è umido ma potrebbe essere la nebbia.
«Ti voglio bene Alex». Mi stringe a sua volta e qualcosa scatta dentro di me, qualcosa che so si batte in tutti e due da quando ci siamo incrociati anni fa, due ragazzini con l'universo nelle vene e sanguisughe su ogni centimetro di pelle libera. Mi ricordo di averlo incontrato e di aver letto nei suoi occhi la stessa paura e lo stesso bisogno di spezzarsi la schiena per ciò che credeva giusto, la stessa voglia di sputare in faccia a tutto lo schifo del mondo senza però arrivare mai a odiarlo; mi ricordo di aver sfiorato il suo sguardo e prima che me ne fossi accorto la mia mano aveva già stretto la sua, solo che invece di osservarci sbigottiti e imbarazzati lui aveva ricambiato la stretta con ancora più decisione e aveva lasciato che le nostre dita si intrecciassero in un saluto nato da solo. Mi ricordo di aver sorriso, e che per la prima volta sono stato sincero. E quella è stata la prima volta che il mio cuore ha battuto davvero.

Dicono che Parigi valga bene una messa — non so come mi senta al riguardo ma so che Alex val bene una vita. Siamo qui abbracciati in una città che è arte a sé stante e se scattasse un allarme sarebbe perché il dipinto più bello del mondo sta piangendo tra le mie braccia, intrappolato in quell'attimo tra la caduta e la mano che ti cinge il polso per trarti lontano dalle spine, anche se nella spirale siamo intrappolati in due e non ci siamo mai lasciati andare dall'istante in cui siamo emersi dal nostro niente. Non so riguardo Parigi, ma Alex vale molto più di una vita. Alex val bene qualsiasi tortura.




Dedicata a Marta, perché dopo tutto quello che è successo in quest'anno due giorni fa ho sognato di abbracciarti un'altra volta e mi sono svegliata piangendo. Mi manchi. Guardo il tuo braccialetto tutti i giorni, e tutti i giorni mi ricordo di quello che hai fatto per me quando nient'altro sembrava funzionare. Sei ogni canzone dolce dei Brand New, e Josie dei blink non fa che urlare il tuo nome.
I hope for your sake I miss you more than you miss me.
   
 
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