2. Undiscovered
Dio, quanto mi girava la testa!
Le luci e la musica assordante del locale sembravano solamente far aumentare lo
stordimento che provavo in quel momento, per non parlare della vista che aveva
iniziato a diventarmi appannata, ma non me ne importava nulla. Volevo
continuare a ballare, con la testa altrove, completamente offuscata. Era come
se qualcuno avesse staccato la spina che alimentava il mio cervello. Le
inibizioni se ne erano andate allegramente a quel paese e con un bicchiere
ghiacciato, per metˆ ancora pieno di quel liquido celestino, mi muovevo sinuosa
tra la folla.
Ero rimasta sola, non sapevo dove si trovassero gli
altri, sapevo solo che ad un certo punto mi ero allontanata da tutti per
prendermi un ulteriore drink e che ora volevo ballare al centro della sala,
sentire il contatto con la gente che mi circondava.
Non si respirava e c'erano cos“ tante persone che ogni tanto andavo a sbattere
contro qualcuno, eppure questo non m'impediva di muovermi, scuotere il bacino
con movimenti lenti, ma a tempo con la musica elettronica, in modo sensuale.
Era un caldo assurdo, ogni tanto mi prendevo i lunghi capelli castani tra le
mani, cercando di farmi aria, senza smettere quella danza che il mio corpo
stava conducendo da solo. Abbandonai poi la testa all'indietro e lentamente
alzai le mani verso il soffitto. Mi trovavo come dentro una bolla, dove
esistevo solo io.
Appena
cominciai a sentirmi leggermente male, dopo che l'alcool bevuto e il fumo,
portato dal mio nuovo amico John, stavano iniziando a compiere il loro effetto,
mi avvicinai al bancone del bar, dando alcune spinte
qua e là. Pessima idea mischiarli, seriamente pessima!
Era sabato, il giorno successivo al nostro arrivo in città, ed io e Madeleine
eravamo state invitate a cena fuori proprio dal ragazzo appena conosciuto, che
ci aveva presentato ai suoi amici. Si era riso e scherzato fino a che non si
era deciso di andare in una nuova discoteca al centro di Londra che si sarebbe
inaugurata proprio quella sera. John ci aveva detto che in realtà era un evento
privato, su invito, ma era riuscito a trovare i pass, non so in quale modo
losco.
Mi appoggiai al bancone, stravolta, tirandomi indietro i capelli con una mano,
e posai il bicchiere con dentro il liquido schifata.
Improvvisamente aveva cominciato a schifarmi tutto e a dolermi lo stomaco.
«Salve», mi salutò una voce graffiante all'orecchio,
facendomi sobbalzare.
«Ci conosciamo?» biascicai. Non riuscivo nemmeno a
parlare, la lingua mi sembrava di pongo.
Un uomo molto più alto di me si parò davanti, appoggiandosi anche lui al
bancone e incrociando le braccia al petto.
«Non saprei», mi stava studiando con gli occhi. Due
fessure azzurre che mi mettevano in soggezione anche in quelle condizioni di
disinibizione.
«Ti sto vedendo triplo, secondo te va bene?» gli
domandai, provocando la sua risata, che udii nonostante la musica assordante. Non è che volessi fare la simpatica, però non riuscivo a
zittirmi, avrei detto tutto quello che mi passava per la testa.
Lo vidi mentre stava per aprire la bocca e dirmi qualcosa, ma lo bloccai,
alzando una mano e parlando di nuovo io, il più velocemente possibile.
«Mi piacerebbe molto rimanere qui a filtrare con un
ragazzo carino, sul serio, ma non mi sto sentendo molto bene», e detto così
fuggii, traballante sopra i miei amati tacchi, verso l'uscita per prendere una
boccata d'aria e cercare di calmarmi. O almeno ci provai perchè nelle
condizioni in cui mi trovavo anche la più semplice delle azioni
mi risultava difficilissima.
Trovata
l'uscita, feci vedere il timbro che avevo nella mano e mi trascinai fuori,
all'aperto. L'aria fresca fu un toccasana, mi sembrava di respirare nuovamente,
anche se il mondo non smetteva ancora di girarmi intorno, provocandomi la
nausea.
Mi appoggiai con la schiena al muro dell'edificio e provai a chiudere gli
occhi, ma fu proprio una cattiva idea perchè il senso di nausea aumentò. Mi
ritrovai a correre velocemente verso il primo cespuglio che vidi e a vomitare
appoggiata ad un palo.
Che tu sia benedetto, palo! Pensai, subito dopo essermi asciugata le
labbra con il dorso della mano.
«Ti serve aiuto?»
Cazzo, ci mancava solo che qualcuno mi avesse vista,
pensai ancora appoggiata al palo, piegata a metà verso il cespuglio, dando le
spalle a chi mi aveva appena parlato. Solo dopo mi venne in mente che non mi
trovavo più nella mia cittadina, dove una serata del genere sarebbe stata
ricordata ai posteri, fino a che i miei genitori non ne fossero
venuti a conoscenza, mettendomi in punizione.
Non riuscii a mettermi dritta, perchè sentii improvvisamente un altro conato di
vomito salirmi alla gola.
«'Fanculo, Ginevra!» imprecai in italiano.
«Come scusa?» chiese di nuovo la stessa voce, dietro
di me.
Feci un cenno con la mano e dissi solamente che non avevo bisogno di nessun
aiuto.
«Sicura? Neanche un fazzoletto?», ridacchiò quella
voce, mi stava palesemente prendendo in giro.
Ci mancava solamente qualcuno ficcanaso quella sera o che avesse voglia di
rimorchiare.
Con non so quale forza mi tirai diritta e mi voltai verso l'interlocutore.
«Senta, non ho bisogno di nessuna..», ma dovetti
bloccarmi, perchè la nausea colpì ancora. Non so come, ma riuscii a non
vomitargli addosso e a voltarmi per farlo, invece, verso il cespuglio,
tenendomi in piedi solo grazie al palo.
Che scena imbarazzante, mi stava venendo da piangere. In più per quale assurdo
motivo non riuscivo a smettere?
Rimasi per un po' nella stessa posizione, cercando di regolarizzare
il mio battito, senza pensare che stavo proprio a pecorina di fronte agli occhi
del ragazzo.
Quando mi sentii un po' meglio, mi accasciai sul muretto a fianco del palo e
poggiai la schiena, nuda per lo scollo posteriore del vestito.
Avevo bisogno d'acqua, ma ero così sconvolta, stordita e disorientata che non
sarei riuscita a fare un emerito nulla.
Appoggiai anche la testa sul mio amato palo, compagno della serata, e chiusi
gli occhi, per riaprirli poco dopo, appena percepii una giacca appoggiarsi
sulle mie braccia nude.
L'unico mio movimento fu quello di girare gli occhi
verso la figura che si era messa seduta di fianco a me.
«Perchè non sei dentro a divertirti?» chiesi con voce
impastata, dopo aver riconosciuto lo stesso uomo con cui avevo parlato dentro.
Lui alzò le spalle, «non lascio mai una donzella in
difficoltà da sola», provò a sdrammatizzare nel suo bellissimo accento inglese.
«No, tu vuoi solo portarmi a letto», e chiusi di nuovo
gli occhi. Ora il giramento di testa si era calmato, ma aveva iniziato a
pulsare, provocandomi quasi un'emicrania, per non parlare del mio stomaco che
mi stava chiedendo pietà.
«Sì, quella era stata la mia prima idea», io risi da
sola, pensando che stesse scherzando, ma il suo tono era fin troppo serio.
«E la seconda?» decisi di stare al
gioco.
Stette
zitto un secondo, mi guardò dritto nei miei occhi neri
come la notte, «mi hai fatto pena.»
Aprii
per un momento la bocca, sconvolta, ma la richiusi
subito e distolsi lo sguardo dal suo viso. Tanto non riuscivo nemmeno a
metterlo a fuoco.
Chi si credeva di essere per
parlarmi in quel modo?
«A guardarti hai l'aspetto di una
piccola donna di classe, non dovresti ridurti in queste condizioni», precisò.
«Puoi anche andartene, adesso sto bene»,
gli dissi acida e con un movimento di spalle feci cadere la sua giacca. No, non
stavo bene, per niente. Volevo la mia amica e tornarmene a casa immediatamente.
Tirai
su le gambe, portandomele al petto, e appoggiai la fronte sulle ginocchia. In
quella posizione mi si sarebbero viste le mutande, ma chi se ne fregava?
Tanto
facevo pena
già da sola.
Sentii un'altra volta la
giacca di quell'uomo sulle mie spalle.
«Prenderai freddo, siamo a Londra.»
Mi
voltai a guardarlo, anche se non volevo immaginare che razza di sguardo da
tossica dipendente potevo avere in quel momento, «mi dici che ti frega?»
Si
tirò su dritto imponente, nel mettermi la giacca si era piegato verso di me,
«hai ragione, niente», si guardò intorno prima di continuare, «allora ti lascio sola», il suo tono era risoluto.
«Ecco, bravo, vattene», e alzai la mano
in aria a mo' di saluto.
L'uomo
ridusse gli occhi in due fessure e serrò la mascella, «sei
proprio una piccola bimba.»
«E tu una testa di cazzo», soffiai, ma
probabilmente se ne era già andato, lasciandomi lì, sola col mio palo.
Non
lo so spiegare il motivo, ma scoppiai a piangere, prendendomi la testa, che
pulsava, tra le mani. Probabilmente ero troppo ubriaca,
ma per qualche strana ragione quell'uomo sconosciuto con i suoi occhi
indagatori era riuscito a mettermi in soggezione.
«Gin?! Gin, eccoti finalmente», udii la
voce affannata della mia amica in lontananza.
Si
accucciò subito vicino a me, che non mi ero mossa di un centimetro, stavo
ancora singhiozzando con il volto coperto e la fronte appoggiata alle
ginocchia.
«Ci
sono qui io ora», mi disse in modo amorevole, accarezzandomi i capelli, «smettila di piangere, dai, non è successo nulla.»
Con
foga le buttai le braccia intorno al collo e l'abbracciai,
mentre lei mi aiutò a tirarmi in piedi.
«Ti è capitato qualcosa? Qualcuno ti ha infastidita?»Scossi il capo, senza parlare. Nessuno mi aveva
infastidita,
avevo solo un'improvvisa voglia di piangere.
Sentii
una seconda voce, quella di John, chiedermi se andasse tutto bene. Assentii,
tirai su con il naso e mi asciugai le guance. «Mi
porti a casa?», la mia voce uscì come un miagolio, mi sentivo veramente una bambina.
«Subito»,
e senza dire altro mi caricò sulle spalle.
Un
aroma dolce di caffè mi arrivò alle narici,
inducendomi a svegliarmi dal sonno profondo in cui ero sprofondata.
Mi voltai, mettendomi con la pancia diretta verso il soffitto, e mi portai le
mani al viso, stropicciandomi gli occhi.
Che cavolo di giorno, mese, anno era? Dove mi trovavo?
Aprii gli occhi, guardandomi intorno e solo dopo alcuni secondi arrivai alla
risposta di quelle domande. Ero a Londra nel mio appartamento, ma non ricordavo
niente della serata trascorsa. Sapevo solo che avevo bevuto come una spugna dal
mal di testa che mi portavo dietro.
Il mio sguardo fu catturato da una giacca blu appoggiata sulla sedia della
scrivania. Che ci faceva una giacca da uomo nella mia stanza? Che avessi
invitato qualcuno qui? Che avessi fatto sesso con uno sconosciuto? L'avrei escluso,
dato che portavo il mio amato pigiama di pail coi pois anti-sesso.
Mi raccolsi i capelli in una coda, togliendomeli dal viso, giusto in tempo per
vedere Mad che entrava nella camera con una tazza
fumante di caffè tra le mani.
«Serata pesante?» mugugnai con voce roca.
«Non ricordi niente vero?» e si avvicinò al letto per
mettersi seduta di fianco a me.
Mi passò la tazza, che presi tra le mani con occhi
sognanti. Ero seriamente drogata di caffè.
«Poco.»
«Immaginavo,
quanto hai bevuto, scricciola?»
Storsi la bocca al solo pensiero dell'alcool tracannato la sera prima.
«Come minimo per due mesi non voglio sentire più la parola alcool»,
e bevvi un sorso di liquido nero, che mi riscaldò, portandomi la solita
sensazione di benessere che riusciva ad infondermi il caffè.
«Anch'io ho bevuto un po' troppo, non ricordo nemmeno come ti ho trovata e dove, ma è stata una bella serata comunque.»
Annuii. Peccato avessi i ricordi offuscati.
«Oggi riposati, io vado a fare un po' di spesa al
discount vicino. Domani incominciano le lezioni e ti
voglio al meglio», parlò la mia amica, prima di alzarsi e lasciarmi sola nella
stanza.
«Ah», fece di nuovo capolino la sua testa bionda dalla porta della camera da letto, «non ho proprio idea di chi sia quella
giacca.»
«Lo dici a me?»
E le nostre risate rimbombarono per tutta la stanza.