~l’incubo
rosso~
parte
uno
A
nessuno piace morire, sceriffo, ma chi ha paura muore un po’
tante volte,
mentre chi non ha paura, muore una volta sola.
April
ormai non correva più.
Si
limitava a vagare rassegnata per le stanze, sentendosi comunque
diventare
sempre più folle per la paura.
I
soffitti erano bassi.
Ovunque
ristagnava odore di fogna e di chiuso, la sporcizia invadeva gli angoli
delle
camere.
Quel
posto era enorme, non sapeva come ambientarsi e come ci fosse arrivata.
Il
senso dell’orientamento lo aveva perso già da un
pezzo.
Aveva
rinunciato a ricordarsi di quella brandina arrugginita o di quella
finestrella
che lasciava intravedere il grande disco pallido e inespressivo della
luna.
Tutto
si replicava.
April
iniziò a pensare di essere in un bunker.
Magari
della Seconda Guerra Mondiale, sì.
Probabilmente
nell’area dell’ospedale.
In
alcuni corridoi trovava sui muri ampi schizzi rosati; ormai il sangue
dei
pazienti operati doveva essere scomparso.
Di
tanto in tanto sentiva il lento strascichio del suo corpo, oppure
il suo
respiro roco dai condotti dell’aria.
April
rabbrividiva.
Sentiva
tutti i peli presenti sul proprio corpo drizzarsi per la paura.
Correva,
correva.
A
volte inciampava.
Si
rialzava, e continuava a correre, senza fiato.
April
non sapeva da quanto era lì.
Erano
giorni, ore o minuti che era lì?
Pazza,
pazza, pazza!
April ridacchiò internamente, sentendo i propri nervi
collassare.
Era
troppo.
Sapeva
che la seguiva, l’aveva sempre saputo.
La luna si rifletteva sull’acqua che sgocciolava con piccoli pigri ticchettii sul pavimento di cemento,
e
lui
continuava ad aspettare April negli angoli, sorridendo nella sua camicia di
forza.
Erano
giorni, ore o minuti che era lì?
April
non sentiva più il tempo scorrere né prendeva
come riferimento la luna, che non
si era mai spostata.
Sentiva
solo lui
che la chiamava: “Igrushka...
Igrushka…
Igrushka…”.
Centinaia
e centinaia di volte.
April
non capiva come mai non la chiamasse con il suo nome.
Ma
ormai, non le importava più di niente.
Si
sentiva rassegnata, rassegnata nella sua pazzia.
A
volte le veniva voglia di correre.
E,
per Dio, April correva.
Ma,
di tanto in tanto, inciampava.
Rimaneva
lì, stesa a terra, per un bel po’ di tempo,
avvertendo una mano muschiata accarezzarle la
caviglia scoperta.
E, quando si rialzava, continuava a camminare.
La
sua gola era così arida…
April
provò a cercare un lavandino che funzionasse, ma
l’acqua che ne usciva era
talmente ferrosa da essere rossa.
“Igrushka…”.
Lui
era lì, rannicchiato sotto al lavandino, che le mostrava i
denti piccoli e
grigi, brillanti come scarafaggi.
April
provò a cercare un tubo che perdesse.
Ne
aveva visti tanti, ma adesso non li trovava più.
Lui
la guardava, dondolando i piedi seduto sui bordi stretti delle grate.
Canticchiava
qualcosa, ma April sentiva solo ‘Igrushka’.
Dopo
forse due giorni, April si sentiva delirare.
Lo
stomaco le si era gonfiato.
La
sua mente era diventata come una pagina bianca.
Tutta
da riscrivere.
E
la sua gola… Faceva così male.
April
si avvicinò ad un muro.
Lo
sfiorò con il palmo della mano, sorridendo piano.
Era così ruvido.
Appoggiò
tutte le dita.
E
iniziò a grattare.
Le
unghie si consumavano piano.
April
grattò.
Le
unghie si spezzavano.
Ormai
non ne rimanevano.
Lui
era lì.
Lo
sentiva, accucciato ai suoi piedi.
April
ignorò la sensazione nera e turbinosa che la faceva prendere
dal panico.
Grattò,
grattò e grattò.
La
prima pelle veniva via.
Un
lieve pizzicore iniziò a prenderle la prima pelle.
April
grattò.
Sentiva
che lui
approvava.
Si
appoggiava al muro, sotto alle sue mani in movimento, e rideva
sbavando,
contento.
April piangeva.
La
pelle stava venendo via.
Quel
muro era come una grattugia.
Una
grattugia, sì.
Una
grattugia per April!
April
rise, divertita.
Rise
tanto che si dovette fermare.
Infine
guardò il muro.
Il
sangue sgocciolava, le sue dita erano a pezzi.
Finalmente,
avrebbe avuto qualcosa da bere.
Con
un lieve singhiozzo, accostò la bocca alla parete, e
April
si svegliò con un grido.
Si
sentiva fredda, freddissima.
E
ricoperta di sudore. Ansimò per alcuni minuti, cercando
di calmarsi.
“Santo
cielo, santo cielo!”.
Cercò,
con colpi secchi e febbrili delle mani,
l’interruttore.
La
luce si accese.
April
guardò il soffitto, respirando più piano.
Fantastica,
normalissima luce neon.
Non
c’era il riverbero della luna ovunque.
Non
c’erano macchie d’ombra nella sua stanza.
Aprì
la finestra, quasi dimenticandosi del sogno.
Il
sole illuminava tutto.
Le
strade, la sua stanza.
Tutto
era luminosissimo.
Sospirò
contenta, girandosi per prendere il suo
telefono.
Lo
trovò sul comodino, e sbloccò lo schermo.
Cancellò
le notifiche di Twitter e di Facebook (sul
serio, ma tutta quella gente non faceva altro che scrivere status e
tweet per
tutto il giorno?), ma una parola le venne in mente.
I... Igrushka?
Poteva darsi. Cos’era?
Un
brivido freddo le attraversò la schiena come se
fosse stata una scarica di corrente.
Tutto
l’incubo le tornò alla mente.
Non sentiva più tanto la voglia di cercare cosa fosse ‘igrushka’, ma lo cercò su Google lo stesso.
Mentre
lo scriveva, iniziarono ad apparire dei risultati:
‘igrushka film’,
‘igrushka
pierre richard’.
Dubitava
che quella cosa l’avesse ossessionata solo
con il nome di un film.
Quando
vide comparire ‘igrushka
significato’,
cliccò.
Dal
russo, ‘giocattolo’,
‘giocattolino’.
April
spalancò la bocca.
Accidenti,
era davvero inquietante.
Grazie
a Dio, era solo un incubo.
L’angelo
dell’autrice
Oh,
la la.
Salve!
Inizio
con il dire che è la prima storia che scrivo
nella sezione ‘horror’, quindi abbiate
pietà, ma se c’è qualcosa che non va,
ditelo pure.
Ho
messo la storia nelle arancioni, ma se c’è
qualcuno che pensa che il fatto delle mani e del sangue sia troppo
cruento, me
lo dica pure.
Beh,
io non so che dire oltre a ‘spero che vi
piaccia’.
Well,
me ne vado.
Un
saluto <3