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Autore: Sara Saliman    03/03/2015    10 recensioni
Dopo un lungo silenzio, la fronte di Zeus si spianò.
-Sta bene, Ade. A me la Superficie, a Poseidone il Mare. A te, qualunque sia il motivo, il Sottosuolo.-
Così si ebbe la divisione del Mondo, come ancora lo conoscono gli umani.
E così ebbe inizio la mia storia, sebbene allora io non fossi ancora nata.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Bentornati o bentrovati :)
Come sempre, un grazie a Leda Swan per il betaggio!

 
§§§§
 
L'incontro con se stessi è una delle esperienze più sgradevoli,
alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante.
Chi è in condizione di vedere la propria Ombra e di sopportarne la conoscenza

ha già assolto una piccola parte del compito
Jung C.G., "Gli archetipi dell'inconscio collettivo"
 
-Tu sei Persefone- disse Ade, chinando la testa di lato. Le ciglia scurissime fremettero, socchiudendosi, e qualcosa passò in quegli occhi neri, rapidissimo.
Un brivido mi scosse la schiena. Ebbi l’impressione che il mio nome fosse una parte nascosta, intima di me: un segreto scritto nel rosso del mio sangue, nel bianco delle mie ossa, nel marrone delle mie iridi, e che gli occhi penetranti del dio lo avessero svelato e letto.
Arrossii e incrociai un braccio sul petto, premendo contro la pelle il corpino ricamato dell’abito. Ade colse il mio movimento: una strana voracità affiorò alla superficie immota del suo sguardo.
Con strisciante inquietudine mi resi conto di essere lontana da mia madre, lontana dalle mie ancelle, in compagnia del respiro irregolare e sempre più flebile di un umano moribondo, e di un dio che si stava lentamente alzando in piedi, torreggiando su di me e inghiottendomi nella sua ombra. Il mantello nero, chiuso sul davanti, celava ogni dettaglio della sua persona, trasformandolo in una figura oscura e spettrale.
Il volto di Ade si stagliava bianco contro il cielo, incorniciato dalla corona arruffata dei suoi capelli scuri; i suoi lineamenti erano immobili, simili a quelli di una maschera mortuaria, e non tradivano alcuna emozione.
Improvvisamente, il dio dell’Averno scattò verso di me. Il suo mantello si aprì e la tenebra dilagò tutt’intorno, immensa: ingoiò l’azzurro del cielo, la luce Sole, le ombre verdi e fruscianti degli alberi.
Lanciai un grido e mi rannicchiai nell’erba, premendo le mani sopra la testa.
Mi avrebbe rovesciata a terra con una spinta, mi avrebbe inchiodata al suolo col peso del suo bacino.
Si sarebbe chinato su di me, curvo, e l’oscurità del suo mantello si sarebbe chiusa sul mio capo come un sudario, come le acque torbide di un lago sotterraneo, mentre io rovesciavo il viso all’indietro e tendevo le braccia verso la luce, annaspando per respirare.
Non accadde nulla.
Riaprii cautamente gli occhi: ero sola nella radura.
L’umano ai miei piedi era morto e il dio dell’Averno era sparito, portando quella vita con sé.
Mi lasciai cadere nell’erba, tremando, il cuore che batteva all’impazzata.
Anche io, realizzai, scossa. Anche io l’ho chiamato per nome…
 
§§§§
 
Ci sono pezzi di questa storia che conosco pur non avendoli vissuti. Molti li ho scorti nei globi scintillanti di Oniro, il Sogno, o appresi dai racconti di Ecate ed Hermes. Altri me li ha sussurrati Estia al chiarore informe del fuoco.
Tuttavia, non ho bisogno che qualcuno mi dica cosa accadde quella notte: conosco il mio Sposo così profondamente da saperlo. Se chiudo gli occhi, rivivo i gesti di Ade: non come una spettatrice esterna, ma come se in quegli istanti, sotto la sua pelle, insieme a lui ci fossi anch’io.
Le porte di corno dell’Averno si schiusero silenziosamente e il sovrano del Sottosuolo risalì a cavallo dalle viscere di Gea. Gli zoccoli di Abaste sprizzavano scintille azzurre contro i pavimenti di roccia, ma il destriero spettrale, lanciato al galoppo, non faceva rumore.
Ade tese un braccio e il suolo si aprì con un boato. Il cielo stellato si riversò attraverso la fenditura, la luce opalina della Luna dilagò per le caverne sotterranee coperte di cristalli. Il dio socchiuse le palpebre ed emerse in Superficie, sotto il cielo immenso, nero come inchiostro, e le stelle fulgide come occhi spalancati. Tirò bruscamente le redini, e Abaste si impennò con un nitrito. Il dio dell’Averno accarezzò il collo del suo destriero: Abaste nitrì di nuovo, scalpitò, grattando il suolo fertile con la punta degli zoccoli, infine si quietò.
Ade rovesciò il capo all’indietro, il profilo bianco contro la scia farinosa della via lattea, il fiato che si rapprendeva in vapore nell’aria fredda. Contemplò il volto argenteo di Selene, la Luna, e lasciò che la sua luce gli sfiorasse gli zigomi come una timida carezza.
Il dio inspirò a fondo: la Superficie profumava di terra smossa e di erba fresca, appena tagliata. Il sentore degli agrumi che maturavano sugli alberi si mischiava all’essenza misteriosa del gelsomino e a quella calda e rassicurante del fieno, che veniva dalle case degli uomini.
Ade tallonò i fianchi snelli di Abaste e lo lanciò nuovamente al galoppo. Viaggiò invisibile sotto la Notte immensa; cavalcò per i campi e attraverso le valli, superò con un balzo fiumi e colline, curvo sul dorso dell’animale. La brezza notturna gli scompigliava i capelli corvini; un’esaltazione a stento trattenuta fioriva sotto il giustacuore. 
Risalì le pendici dell’Olimpo, e tirò le redini solo quando riconobbe il profumo di glicine dei giardini di Zeus.
Il padre degli dei era seduto sotto il chiostro, alla luce tenue di una lanterna. L’ultimo nato gli riposava in grembo. Zeus sollevò il capo nell’aria fredda e sorrise, gli occhi azzurri scintillanti di stelle.
-Cominciavo a pensare che non saresti venuto.-
-Non amo le feste.- rispose Ade, smontando da cavallo.-Ma desidero conoscere i miei nipoti.-
Zeus lo guardò avvicinarsi con una specie di rassegnazione, come si guarda qualcuno o qualcosa che si ama irrimediabilmente, ma non si comprende.
Ade chinò il viso sul bambino, avvolto in una coperta di lana.
-Ares.- soffiò contro la sua fronte, e il piccolo agitò le minuscole mani, come a cercare di catturare il suono sommesso della sua voce.
-Hai sempre avuto un talento speciale per i nomi.- disse Zeus, rimboccando la coperta del figlio.
Il dio dell’Averno scrutò il bambino addormentato, i piccoli pugni serrati nel sonno. Si raddrizzò.
-Dov’è Eris?-
-È in casa. Ho appena finito di allattarla.-
Sia Ade che Zeus rivolsero lo sguardo verso la vetrata, dov’era comparsa la figura di Era.
-Sorella.- Salutò il dio dell’Averno. -Come stai?-
-Mi sto riprendendo dalle fatiche del parto.- Era venne avanti, allacciando la vestaglia azzurra sotto il seno. I suoi occhi verdi, screziati d’oro e di blu come le piume di un pavone, erano insolitamente dolci. –Perché non entri, fratello?-
Ade scrollò le spalle, composto.
-Meglio di no.-
-Ci farebbe piacere,- insistette Zeus.
Il dio dell’Averno guardò il piccolo Ares, i pugni chiusi e le gambette scalcianti nel sonno. Tese una mano verso il capo del bimbo, ma la ritrasse senza toccarlo, le dita piegate come i petali di un fiore. Sollevò il volto bianco verso il cielo notturno.
-Le stelle non sono come le ricordavo.-
Zeus indicò la volta celeste.
-Guarda, quello è Orione, che fronteggia la carica del Toro. Poco più in là, Sirio lo segue, fedele nel cielo come lo è stato sulla terra. E quelle, invece, sono le Pleiadi.-
Ci fu un lungo silenzio, poi Era parlò:
-Perché sei qui, fratello? Non è solo per salutare i nostri figli.-
Ade contemplò l’immensità del cielo stellato, assaporando la pace del giardino. C’erano cose che doveva dire e fare, e sapeva che le avrebbe dette e fatte. Dopo, il Mondo non sarebbe più stato lo stesso, e nemmeno lui.
-È giunto il momento di completare il nostro accordo.- disse, il cuore perduto nelle profondità blu.
-Che bisogno ha, l’Averno, di ciò che chiedi?- sbottò Zeus.
Ade distolse lo sguardo dal cielo, riportandolo sul fratello minore.
-Stai parlando di cose che non conosci. E comunque, hai frainteso la mia premura: non sono qui per chiedere, ma per informarti. Prenderò ciò che mi spetta.-
Era si accostò al marito, poggiandogli una mano sulla spalla.
-Fratello, dimmi la verità: sei qui per togliermi Eris?-
-Eris?- l’oscurità negli occhi di Ade si addolcì. -No, sorella, cresci pure la tua bambina: non sono qui per privarti di lei.-
Era si nascose il viso tra le mani e vacillò per il sollievo.
-Chi prenderai, allora?- insistette Zeus.
-Ha importanza?- Ade gli diede le spalle, tagliente come selce. -Se anche scegliessi Afrodite in persona, non avresti il potere di negarmela.-
-Tu non sceglieresti mai Afrodite!- replicò Zeus ostilmente.
Ade rimontò a cavallo.
-No,- sussurrò nel vento. –Hai ragione.-
 
§§§§
 
Leucippe mi evitava da tre giorni, rivolgendomi a stento la parola: il mio comportamento alla festa l’aveva ferita e, se ne avesse avuto l’autorità, mi avrebbe di sicuro schiaffeggiata.
Così stavo seduta mestamente su una collinetta, sulla riva del lago Pergusa, le gambe piegate contro il petto e il mento sulle ginocchia. Osservavo Leucippe e le mie ancelle fare il bagno pochi metri sotto di me, e cercavo un modo per fare pace. L’aria risuonava del torpido frinire delle cicale e dei gridolini e delle risate delle ninfe, che giocavano in acqua lanciandosi a vicenda una palla di stracci.
Era mezzogiorno, l’ora in cui le selve erano battute da Pan e dal suo stuolo di fauni, e in cui il Sole era ben alto nel cielo della Sicilia. Non avevo più incontrato Helios dopo la festa, ma da allora cercavo con struggimento il suo calore sulle braccia e intrecciavo piccoli fiori color magenta tra i capelli, sperando che lui, sporgendosi dal suo carro, ogni tanto mi osservasse.
Il giorno della festa era impresso nella mia mente anche per l’altro incontro, di cui non avevo parlato a nessuno.
Non sta bene chiamare per nome poteri che non si comprendono, aveva detto Leucippe, e le sue parole suonavano come una chiave per una porta dimenticata.
All’improvviso percepii un cambiamento nell’aria intorno a me: le risate delle ninfe si spensero; il suono delle cicale rimase, ma come smorzato. Un velo scuro attenuò la luce del Sole e un refolo di gelo mi raggiunse fra le scapole, facendomi boccheggiare.
Abbassai lo sguardo: i fili d’erba ai miei piedi seccavano a vista d’occhio, i fiori reclinavano il capo e avvizzivano. Le mie ninfe, immerse nel lago, erano ammutolite e si stringevano le une alle altre, guardando con occhi terrorizzati qualcosa che stava alle mie spalle.
Mi alzai e mi voltai, in un unico movimento. Intuivo di chi potesse trattarsi, ma non capivo il senso: scrutai la campagna che avvizziva sotto i miei occhi, sperando di essere smentita. Lui non si vedeva da nessuna parte, ma la sua presenza era come una lente che deformasse la luce. Puntai gli occhi al centro della chiazza di erba piegata.
Una figura pallida si materializzò esattamente in quel punto, avvolta in un mantello color pece. Le mani affusolate stringevano l’elmo appena sfilato. Sentii le grida delle mie ancelle levarsi dal lago alle mie spalle, ma non vi badai.
-Ade.- constatai. La parola zio mi rimase incastrata in gola e non ci fu verso per me di pronunciarla.
Il dio aprì le mani bianche e l’elmo svanì in una vampata nera. Mi resi conto, in un istante di gelo, di essere lontana dall’Olimpo, lontana da mia madre e da chiunque potesse aiutarmi.
-Non ci sono umani,- continuai. - Non c’è niente che stia morendo. Che cosa ti porta qui?-
Ade avanzò verso di me con ampie falcate, scavalcando arbusti e fili d’erba che appassivano al suo passaggio: nella piega decisa della sua bocca, nell’oscurità addensata nei suoi occhi lessi la mia condanna.
Mi voltai di scatto per fuggire, ma lui mi si gettò addosso con un balzo. Rotolammo lungo il pendio erboso della collinetta, il mondo ridotto a una macchia confusa di verde e di azzurro.
Sentii le sue mani perdere la presa su di me e quando la caduta si arrestò mi ritrovai nell’erba, stesa bocconi. Affondai le dita nella terra umida e mi rimisi in piedi, incespicando per non cadere. Ade mi afferrò la vita con un braccio e mi sollevò da terra.
-Lasciami!- soffiai come un gatto.
Mi girai nella sua stretta con l’agilità di un animale selvatico. Gli tempestai il petto di pugni, graffiandomi le mani con la sua cappa di cuoio. Scalciai furiosamente, alla cieca, lacerandomi i piedi nudi e la gonna contro i suoi schinieri.
Il dio mi uncinò prima un polso, poi l’altro; mi strattonò entrambe le braccia, strappandomi un grido, e infine me le bloccò dietro la schiena con una sola mano. Mi ritrovai col seno schiacciato contro il suo petto e un velo di capelli biondi sugli occhi. Cercai di divincolare le braccia, ma provai un dolore atroce, come se la tensione stesse per disarticolarmi le spalle.
-Smettila,- disse Ade.
La sua calma era terrificante: i miei sforzi per liberarmi non bastavano nemmeno a incrinargli la voce. Mi scostò i capelli dal viso con la mano libera, poi le sue dita fredde mi scivolarono sotto il mento, stringendomi le guance e sollevandomi il viso. Serrai gli occhi per non guardarlo in faccia.
-Lasciami andare.- ansimai, il panico tenuto a stento a bada, il volto accartocciato in una smorfia. –Ti prego...!-
Lo sentii rimanere perfettamente immobile. Quando riaprii le palpebre, trovai i suoi occhi scuri fissi nei miei, come a chiedersi quale bizzarro animale selvatico avesse catturato. Come cedendo a un impulso proibito, abbassò il viso sui miei capelli, inalandone il profumo. Serrai di nuovo gli occhi, trattenendo il fiato.
Ti prego, ti prego, ti prego. Lasciami andare.
Con un’agilità che mi atterrì, Ade mi lasciò i polsi, passò un braccio attorno alla mia schiena e l’altro sotto le mie ginocchia e mi sollevò da terra. Gridai, ma il mio urlo si perse nel fragore del terreno che si spaccava. Ade mi strinse a sé e saltò dentro la fenditura: la sensazione di precipitare mi uncinò lo stomaco, trasformando le mie grida in un singhiozzo strozzato; mentre i capelli biondi mi schiaffeggiavano la faccia mi aggrappai alla casacca del mio rapitore.
Dopo un tempo interminabile, il dio dell’Averno atterrò senza sforzo e aprì le braccia, lasciandomi andare. Scattai immediatamente all’indietro, stringendo le braccia doloranti attorno al corpo. Avevo gli abiti in disordine, la veste lacera, le gambe e le mani piene di graffi. Continuai a indietreggiare, senza distogliere gli occhi da Ade nemmeno per un istante. Pareti di pietra ci circondavano da ogni parte: il cielo era una ferita azzurra decine di metri sopra le nostre teste.
Le mie spalle urtarono un muro di roccia, e le pupille si dilatarono per il panico e la comprensione improvvisa: non avevamo ancora raggiunto il fondo del baratro; ci trovavamo su una cengia lungo la parete del precipizio. Forse per timore che mi gettassi di sotto, il mio rapitore si era interposto tra me e il vuoto.
Pensai di lanciarmi su di lui con tutto il mio peso: mi chiesi se sarebbe bastato a spingerlo giù nella gola. Mi vidi: una ragazzina tutta ossa contro un uomo adulto.
Ade avanzò verso di me. Sentii il panico sfuggire al mio controllo: foglie verdi, tralci di vite e di rovi emersero dalla nuda roccia per sbarrargli la strada… ma bastò che lui si avvicinasse perché gli arbusti avvizzissero e divenissero cenere. Mi rannicchiai contro la parete rocciosa, proteggendomi il capo con le mani.
-No…-
 Lui mi afferrò di nuovo per la vita, sollevandomi da terra.
-Per favore… per favore… NO!-
 La caduta riprese.
 
§§§§
 
Mi irrigidii di nuovo, chiudendo gli occhi e premendo la fronte contro la sua casacca. Serravo i lembi così strettamente da avvertire fitte alle dita. Questa volta la caduta durò un’eternità, scandita dal suono tremante dei singhiozzi che mi rimanevano incastrati in gola, e dal fischio del vento nelle orecchie.
Atterrammo molto malamente: Ade sulla schiena, io su di lui.
Ebbi il tempo di pensare che, se fosse accaduto il contrario, mi sarei sfracellata, poi il corpo sotto il mio mi ribaltò con un colpo di reni: mi ritrovai con le spalle schiacciate al suolo e Ade a cavalcioni su di me, che mi bloccava col proprio peso.
Picchiai i palmi contro il suo petto, cercando di togliermelo di dosso e di strisciare via da sotto di lui.
-Smettila!- sibilò.
Per tutta risposta, sollevai le mani verso il suo viso e cercai di artigliargli la faccia.
Spazientito, Ade scostò il volto all’indietro: serrò nel pugno il corpino del mio abito e tirò. Un rumore di stoffa strappata lacerò la penombra, poi il rosa dei miei seni rimase esposto all’aria fredda e umida. Incrociai le braccia sul petto, cercando di nascondere la mia nudità. Non ero in grado di coprirmi e di lottare contemporaneamente, e compresi con orrore che Ade lo sapeva. Serrai gli occhi e voltai il capo di lato, sconfitta, scoppiando in lacrime con la schiena contro il terreno.
-Per favore… Per favore, lasciami andare…-
I singhiozzi mi squassavano il petto e il corpo sopra il mio mi comprimeva il diaframma, mandandomi fitte ad ogni atto del respiro.
Se continuo a cadere, pensai sconnessamente. Se continuo a cadere…
Con una smorfia di dolore, il dio si alzò in piedi, liberandomi dal proprio peso.
Sentivo il suo sguardo su di me, ma non avevo il coraggio di guardarlo a mia volta. Mi girai su un fianco e mi rannicchiai in posizione fetale. Le braccia incrociate sulla veste lacera, sporca di terra e di sangue; il corpo giovane e flessuoso esposto.
Sapevo cosa stava per accadere: ero una Kore, ma lo sapevo. Ero vissuta in superficie abbastanza da sapere cosa volessero gli dei dalle dee, la stessa cosa a cui Poseidone aveva costretto mia madre: vana era stata la sua fuga come giumenta in una mandria di cavalli, come vane sarebbero state le mie grida.
Qualcosa di nero e pesante calò sulle mie spalle nude: impiegai diversi istanti a capire che si trattava del mantello di Ade. Sollevai il capo tremando e incontrai la sua espressione imperscrutabile.
-Alzati.-
Rimasi immobile, come morta.
-Alzati, o dovrò tirarti su io.- Lo disse in tono incolore, come se, più che una minaccia, fosse un’ovvia conseguenza, ma il solo pensiero che potesse toccarmi di nuovo mi riscosse.
Appoggiai i palmi per terra e mi portai sulle ginocchia. Mi rialzai in piedi a fatica, sentendo fitte e scricchiolii dappertutto. Ade posò lo sguardo sui miei pugni chiusi e sulle lacrime che mi lasciavano strisce bianche sulle guance sporche, ma non commentò, e per questo lo odiai un po’ meno.
Scivolò alle mie spalle come un’ombra e io mi irrigidii, temendo che mi avrebbe afferrato di nuovo.
Non lo fece. Tese una mano bianchissima, indicandomi il paesaggio sottostante.
-Guarda.-
Man mano che i miei occhi si adattavano al buio, vidi.
Ci trovavamo su una collina sotterranea. Davanti e sotto di noi si apriva una grotta scintillante di calcare, talmente alta e ampia che i margini si perdevano nell’oscurità. Adagiati sul fondo, bianchi come le ossa di un morto, si estendevano i viali, i palazzi e i fiumi di una città sterminata. Al centro sorgeva un castello alto e sottile, nero come onice, e poco distante da esso due torri gemelle di alabastro rosa.
Un vento sotterraneo soffiava sulla città, sollevando un gemito che risuonava attraverso gallerie nascoste nella roccia. Sembrava il lamento sommesso di qualcuno.
Non di qualcuno, mi corressi, mentre la pelle mi si accapponava sulle braccia. Sembra il lamento sommesso di molti.
Mi voltai verso il mio rapitore, smarrita.
-Perché mi hai portata qui?-
-Perché mi appartieni.-
Era troppo.
Sollevai una mano e gli vibrai uno schiaffo secco, fortissimo, talmente fulmineo che –ne sono certa- non lo vide nemmeno arrivare.
Ade raddrizzò la testa. Si umettò le labbra esangui, e per un istante vidi del rosso sulla punta della sua lingua. Tremai fino al midollo quando realizzai di averlo appena picchiato, addirittura ferito, e che il suo sangue era rosso come il mio. Ade fissò freddamente il mio viso graffiato: solo allora mi resi conto che anch’io mi ero ferita alla bocca durante lotta, in posizione esattamente speculare alla sua.
-Non farlo mai più.- disse con terrificante gentilezza.
Lo guardai con odio e disperazione.
-Quando scoprirà che mi hai rapita, mio padre ti punirà!-
-Ma davvero?-
Mi voltò le spalle e cominciò a scendere lungo il pendio della collina.
-Cosa fai?- strillai con voce acuta e spaventata da bambina.
-Vuoi rimanere lì?-
L’ululato del vento mi terrorizzava e l’oscurità della grotta mi circondava da ogni parte, così mi affrettai a corrergli dietro. Lo seguii a debita distanza fino a un basso monolite, a cui era legata una spettrale giumenta grigia. Ade mi porse una mano, e istintivamente mi ritrassi.
-Non riusciresti a salirci da sola.- fece notare in tono neutro.
-Non salirò lì sopra con te!-
Il dio parve riflettere un istante.
-Allora andremo entrambi a piedi.-
Sciolse le briglie e guidò l’animale lungo il pendio, come se gli importasse poco di cosa avrei fatto. Dopo un’ultima occhiata inquieta alla tenebra alle mie spalle, mi strinsi il suo mantello addosso e lo seguii.
 
§§§§
 
Note dell’autrice (altrimenti dette “Ho creato l’Ade più amimico di sempre!”):
Insomma, questo capitolo è stato parecchio travagliato e sono contenta di essermelo tolto dal groppone. La parte sul rapimento, che di sicuro è la più cruenta, mi suscita sentimenti contrastanti.
Voi cosa avete provato nel leggere? che emozioni vi ha suscitato?
Siete in tanti a leggere, ma quasi nessuno commenta. Io invece tengo molto a sapere cosa pensate.

Grazie a tutti.
   
 
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