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Autore: VaVa_95    05/03/2015    1 recensioni
Le persone sono complicate. E tutti, ad un certo punto della loro vita, riescono a creare dei demoni che non riescono a domare, neanche per sbaglio.
Questo Matt lo sa bene.
E lo sa bene anche Liz.
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"- Sai, si dice che le storie portino demoni. -
Non aveva ben capito perché aveva detto proprio quella parola. Lui in fondo non la usava. Pensava che essi fossero semplicemente dei brutti pensieri, che prendevano forma solo quando la propria mente lo permetteva. Come diceva sempre a Matt, ogni persona aveva i propri demoni con cui fare i conti".
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Matthew Shadows, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.

 

CAP. 5

 


“Yesterday is a memory, another page of history
You save yourself on hopes and dreams that leave you feeling sideways”
Bon Jovi – Story Of My Life
 
“Looking back I clearly see
What it is that's killing me”
Alter Bridge – Open Your Eyes
 
 

Novembre 1999
Huntington Beach, California


 
I classici “giorni sì” e “giorni no” esistevano per tutti. In fondo si è esseri umani e di certo non si è perfetti.
Eppure, quando Matt aveva dei giorni no tutti sapevano che dovevano preoccuparsi, specialmente i suoi migliori amici. Avevano imparato, nel corso degli anni, che spesso erano proprio quelle giornate a far uscire il peggio di lui e che no, loro non avrebbero dovuto permetterlo. Quando erano ragazzini, intorno ai dodici, forse tredici anni, pensavano che fosse divertente vedere Matt arrabbiato, perché voleva dire in automatico che avrebbe combinato qualcosa. Una volta era lo scatto dell’allarme anti-incendio, un’altra bucare i palloni da basket in palestra, l’altra ancora incendiare il campus (e provocare la morte accidentale del preside, ma quelli erano dettagli a cui nessuno – o forse no? – badava). Man mano che crescevano, però, si rendevano conto che quelli del ragazzo non erano semplici giornate dove si poteva combinare casini. Era qualcosa di serio. I “giorni no” di Matt lo erano per davvero, e lui stava male.
Lui descriveva ogni sua sensazione indicandosi con l’indice e il medio della mano destra la bocca dello stomaco, dicendo che era lì che faceva male. Come se ci fosse un buco, o una ferita aperta, che faceva entrare in lui di tutto e di più. Demoni, li chiamava, e loro preferivano dargli del paranoico piuttosto che affrontare direttamente la cosa. La verità era che di “demoni”, come amava tanto chiamarli lui, ne avevano tutti. Non capivano però come mai lui non sapesse gestirli.
In genere, quando c’era un giorno no, lo si capiva dagli occhi affaticati e, eventualmente, dalle occhiaie violacee sotto di essi. Perché quando Matt attivava le rotelline che aveva in testa e si ritrovava a pensare, non dormiva, non dormiva per niente. Passava le notti insonni semplicemente a guardare il soffitto, in preda a chissà quale mostriciattolo nero.
Più crescevano loro, più crescevano i giorni no e le notti insonni. Da quando avevano fondato la band esse erano produttive, in quanto spesso il cantante prendeva un foglio e una penna cominciando a scribacchiare qualcosa. Alla fine però si trattava sempre del solito messaggio: rabbia. Nei confronti di qualcosa che non comprendeva appieno, fra l’altro.
Avevano cercato di aiutarlo il più possibile, ma non serviva a niente. Se Matt aveva un giorno no significava che lui pensava, e se pensava i demoni che già aveva nella sua mente crescevano sempre di più. Spesso, si raggiungeva una situazione quasi estenuante, con il ragazzo completamente esausto e loro che non avevano la più pallida idea di come fare non per farlo sentire meglio, ma per obbligarlo a dormire. Proprio per quel motivo, erano contenti che, da qualche settimana, il ragazzo di “giorni no” non ne aveva più. Aveva i suoi momenti, come tutti, ma la situazione era nettamente migliorata e loro non potevano esserne che sollevati. Se non… no, non capivano. Non capivano come fosse successo, anche perché il ragazzo non ne aveva idea.
Johnny e Zacky avevano cominciato a farsi un’idea o due, Brian si impegnava a smontarle mentre Jimmy si limitava a stare zitto e ad osservare. Ciò che si chiedeva il batterista in realtà era una cosa sola: perché loro, in anni e anni di amicizia e affetto incondizionato, non erano riusciti a fare nulla per Matt mentre lei sì?
E a lui piaceva Liz. La considerava una persona speciale, una confidente, un’amica. Ma non poteva fare a meno di esserne un poco invidioso, perché qualsiasi cosa oscura ci fosse nella mente di Matt lei era riuscita a spazzarla via.
- Programmi per la giornata? – domandò Johnny, mettendosi improvvisamente in posizione seduta.
Si trovavano stesi sul pavimento del garage di casa Sanders, dove avrebbero di lì a poco cominciato a registrare qualche demo, in quanto era l’ambiente ideale, adatto al lavoro vero. A casa di Jimmy ci si divertiva e, di fatto, non si riusciva mai a combinare niente di serio. Quel giorno, però, era particolarmente pigro: il sabato nessuno aveva voglia di fare niente, tantomeno ce l’avevano loro. Quella sera non avrebbero avuto esibizioni, cosa rara, dato che praticamente si esibivano ogni sabato sera in un locale di zona. Quando non ottenevano ingaggi cominciavano tutti e cinque ad irritarsi, ma sapevano che anche quello faceva parte del mestiere.
- Devo assistere agli allenamenti di mio fratello, poi penso che finirò per fare il baby-sitter – esclamò Brian, in tono aspro, facendo ridacchiare gli altri.
Avere una sorellina di appena tre anni non era poi così divertente come il chitarrista aveva pensato, almeno all’inizio.
- Io devo aiutare in azienda, sperando solo che non finisca con il litigare con qualcuno – lo seguì a ruota Zacky, alzandosi in piedi e stiracchiandosi.
Erano lì da ore. Chissà perché quel sabato si erano svegliati presto e avevano tutti deciso di recarsi a casa Sanders. Avevano guardato alcuni testi e provato alcuni arrangiamenti, avevano pranzato velocemente e poi si erano stesi lì, senza fare più nulla, a tratti senza dare segni di vita.
- Uh, non lo so, penso farò qualsiasi cosa facciano Eleanor e Phoebe questo pomeriggio – esclamò Jimmy, facendo ridere gli altri.
Per lui le due ragazze erano come sorelle. Peccato che lui ne aveva già due, ma Kelly era al college e Katie era nella classica fase nella quale odiava tutto e tutti, in special modo i membri della sua famiglia. “Adolescenza”, borbottava suo padre, alzando gli occhi al cielo.
- Penso mi aggregherò a te, non ho niente da fare questo pomeriggio – disse Johnny, sbadigliando.
- Certo, dì piuttosto che vuoi venire perché vuoi vedere Phoebe, non ti prendiamo in giro, davvero. -
Il bassista incrociò le braccia al petto e mise il broncio, mentre Brian gli tirava delle piccole gomitatine. Avrebbe voluto volentieri dargli una pacca sulla spalla, in fondo anche lui era caduto nella trappole delle sorelle Rigby. Ma cercare di farglielo ammettere non serviva. Avrebbe dovuto arrivarci da solo.
- Matt? – domandò Zacky, punzecchiandolo con il piede – tu che fai oggi? -
Il cantante era rimasto sdraiato a terra e non aveva parlato per tutto quel tempo.
- Uh, io e Liz dobbiamo andare in spiaggia. -
Gli altri si scambiarono uno sguardo d’intesa.
- Avete mai parlato dei vostri… - cominciò Brian, venendo immediatamente interrotto.
- No. -
- Andiamo, è sottinteso che stanno insieme. -
- Non stiamo insieme, Zack. Non siamo niente. -
- Certo, non siete niente ma uscite e vi comportate da coppietta – esclamò Jimmy, ridacchiando.
Cercava di essere spontaneo, ma era proprio quello che non capiva. Liz lo faceva sentire bene, in un modo tutto diverso da come lo facevano stare bene lui e gli altri ragazzi. Quindi doveva smetterla di negare.
Non che fosse una cosa nuova: quando si affezionava a qualcuno, cercava in tutti i modi di non darlo a vedere.
- Sono uscite fra amici. -
- No. Se uno di noi esce con lei è fra amici. Tu puoi essere davvero tutto, ma non quello. -
Ed era vero. Matt avrebbe potuto essere definito in qualsiasi modo, ma non “amico”. E nemmeno “amico con benefici”. In un certo senso, pensava Brian, il cantante si stava comportando un po’ come si era comportato agli inizi con Valary. Era vero, a lui non importava molto, quel genere di cose gli scivolavano addosso come acqua, ma era anche vero che lui era un buon osservatore e, soprattutto, capiva, capiva sempre.
- Non puoi nemmeno essere etichettato come scopa-amico, perché di fatto non scopate… - considerò Zacky, ridendo appena.
Il diretto interessato alzò gli occhi al cielo, per poi prendere la giacca di pelle, alzarsi e indossarla, camminando verso la porta del garage.
Un sonoro “oh, piantatela”, fu l’unica cosa che i quattro riuscirono ad ottenere.


 
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Liz non sapeva perché si era praticamente messa in ghingheri. In fondo, non ne aveva bisogno: si trattava di una semplice uscita in spiaggia ma, cosa più importante, si trattava di Matt. Perché aveva bisogno di sentirsi bella, quando era presente? Probabilmente, lui non avrebbe notato i suoi sforzi di apparire migliore ai suoi occhi. Al contrario, avrebbe notato le sue labbra. Che, ultimamente, amava far accidentalmente scontrare con le sue. Scosse energicamente la testa, scacciando il pensiero. Non che a lei non piacesse, anzi, tutto il contrario. Ma la cosa le suonava persino strana.
Probabilmente era perché non avevano ancora definito niente. Eleanor e Phoebe non capivano, ma mentre la prima si limitava ad alzare gli occhi al cielo e a chiedere che accidenti stesse facendo la seconda le ricordava ogni volta che ne aveva l’occasione che i due non potevano rimanere in quella situazione per sempre. Era come, diceva lei, se fossero appesi al filo sottile che c’era fra amicizia e amore, e non sapessero da che parte cadere. Dal canto suo, la ragazza non voleva precipitare da nessuna delle parti: erano troppo intimi per essere amici ma al contempo si frequentavano da troppo poco per considerare la loro… relazione, o quello che era, come “amore”.
Lei non ci credeva neanche, nell’amore.
- Sta aspettando qualcuno? – domandò Chelsea, una donna di mezz’età che viveva nel condominio lì vicino e che quel pomeriggio era una delle prime ad avere l’appuntamento.
Come parrucchiera in proprio, ultimamente, la madre lavorava sempre meno. Diceva che a fare la barista guadagnava di più perché le mance contavano, ma d’altra parte non avrebbe rinunciato facilmente alla sua piccola attività, anche perché era un lavoro che adorava, nonostante tutto. E poi, ci aveva sempre saputo fare con le forbici. Nei weekend aveva l’attività sempre aperta, compresa la domenica, mentre durante la settimana erano diventate rare le volte che aveva gente in casa, ma forse era meglio così per tutti.
- Oh sì – esclamò la madre, prendendo il phon dalla postazione – un ragazzo. -
La giovane alzò gli occhi al cielo: era normale che la madre fosse diffidente, considerando il fatto che appena aveva sentito il nome e il cognome del giovane le aveva urlato qualcosa sul fatto che avrebbe preferito che uscisse con uno dei ragazzi appartenenti alle gang di quartiere, perché sicuramente sarebbero stati più innocui di lui. Lì si era resa conto di due cose: la prima era che quando Matt diceva che la sua reputazione lo precedeva, essa lo faceva davvero e anche di chilometri (insomma, non sapeva nemmeno che la madre lo conoscesse, anche se di fama), la seconda era che la donna avrebbe sicuramente preferito segregarla in casa o mandarla a suora che farla uscire con uno dei ragazzi delle gang.
Nonostante a volte avesse dei gravi momenti di sconforto, la prima cosa a cui Katherine Dixon pensava era la figlia. Sempre e comunque. Era una brava madre, quando voleva.
Già, quando voleva.
- Oh, ora si capisce! Te l’ho sempre detto che sarebbe diventata una rubacuori! -
Le due cominciarono a chiacchierare e, anche se l’oggetto della conversazione era proprio lei, la ragazza preferiva non starle a sentire. Si era seduta sul divano e aveva cominciato a studiare un po’, anche perché non ne avrebbe più avuto occasione fino a quella sera. Di solito, quando usciva con Matt, non si trattava mai di un paio d’ore, ma di interi pomeriggi passati insieme, spesso anche a non fare niente.
 
A parte accidentalmente trovare la sua lingua nella tua bocca?
 
Ma accidenti alla sua coscienza.
Sentì qualcuno suonare il campanello, cosa che la autorizzò ad alzarsi dalla sua postazione e ad andare ad aprire. Matt era appoggiato al muro laterale, vicino alle scale, con le braccia incrociate al petto. Indossava la sua solita giacca di pelle e una maglia dei Megadeth che, aveva intuito la ragazza, doveva essere una delle sue band preferite considerando la frequenza con cui gliela vedeva addosso. Indossava anche dei jeans neri stracciati e scarpe dello stesso colore, che completavano il perfetto look da classico cattivo ragazzo.
Peccato che, con quelle fossette, non sarebbe riuscito ad ingannare nemmeno un bambino.
- Ehi – lo salutò, sorridendogli – prendo la borsa e sono da te. Intanto vieni, entra. -
Il ragazzo sembrò esitare un attimo, ma poi varcò la soglia di casa sua e cominciò a guardarsi intorno, curioso. Liz non sapeva se stesse semplicemente osservando oppure se stesse esaminando l’ambiente circostante, come se avesse dovuto trovare qualcosa o… scosse di nuovo la testa: paranoica, ecco che cos’era.
- Oh, guarda, è il primo ragazzo che porta in casa – disse la madre abbassandosi verso la sua cliente, come a sussurrarglielo, anche se ovviamente quella era una frecciatina e tutti i presenti avevano sentito benissimo.
Chelsea ridacchiò, senza però dire nulla, cosa strana visto che aveva la lingua lunga.
Il diretto interessato sorrise, porgendo la mano alla donna che aveva lasciato tutti gli aggeggi che usava per tagliare i capelli nella sua postazione e si era avvicinata al ragazzo, con uno dei suoi sorrisi migliori stampati sul volto.
- Katherine, ma puoi chiamarmi Kat. -
Liz alzò di nuovo gli occhi al cielo. Sua madre non era gentile con nessuno, specialmente se si trattava di una persona come Matt. Solo il giorno prima le aveva detto che una persona del genere sarebbe dovuta essere rinchiusa in un riformatorio (o spedita alla scuola militare, cosa che ultimamente sembrava andare di moda).
- Salve signora Dixon, è un piacere conoscerla. -
La ragazza non poté fare a meno di ridere pensando a come fosse stato cordiale. Prese velocemente la borsa, per poi andare in soccorso del giovane, prendendolo per un braccio e trascinandolo verso la porta.
- Beh… noi andiamo, ciao mamma, ciao Chelsea, non vedo l’ora di vedere il nuovo taglio! – esclamò, per poi chiudersi velocemente la porta alle sue spalle e guardare il giovane di sbieco – mai fraternizzare con il nemico. Mai. -
Il cantante scoppiò a ridere, poi i due si avviarono tranquillamente verso la spiaggia. Avrebbero dovuto girare quasi tutta la periferia per il lungo, per poi costeggiare il lungomare e finalmente scendere in spiaggia e fare una passeggiata. Anche se era novembre, il sabato pomeriggio quel luogo era sempre affollato. Non sapeva perché Matt amasse portarla lì. C’erano luoghi più tranquilli, come i parchi, che in genere nei weekend erano popolati dalle famiglie con bambini, oppure c’era qualche Caffè, anche se lì avrebbero potuto incappare nei loro compagni di scuola molto più facilmente. Di luoghi come lo skate-park non se ne parlava nemmeno poi. Si sapeva in fondo chi girava in quei posti e no, gli skaters c’entravano ben poco.
- Simpatica – commentò il ragazzo, riferendosi alla madre di lei.
Era stato in silenzio per un bel po’, camminando accanto a lei. Avevano costeggiato le villette basse vicino al parco di periferia e per un attimo Liz si era chiesta se Zacky fosse in casa, ma dato che il giovane non aveva lanciato nemmeno un’occhiata all’abitazione quando ci erano passati davanti evidentemente doveva significare che no, non era lì. Probabilmente avevano anche passato la mattina insieme. Era una delle cose che invidiava di più del loro rapporto: i ragazzi dovevano passare almeno un’ora al giorno insieme. Fra tutti gli impegni, dovevano trovare sempre del tempo per la loro amicizia. Non capiva da dove venisse fuori tutto quell’affetto.
Forse non voleva… anzi, credeva non volesse nemmeno ammettere che fosse possibile, avere un’amicizia così forte con qualcuno.
- No, non lo è. -
- Non mi pare poi così male. Non hai mai visto la mia, di madre. -
La ragazza scoppiò a ridere, per poi tornare a guardare il paesaggio, come se non lo conoscesse. La verità era che era imbarazzata, come sempre quando stava con lui.
- Non vi somigliate molto. Anzi, direi per niente. -
Liz si ritrovò ad annuire.
La madre non era molto alta, a stento arrivava al metro e sessantacinque, era una donna tutte curve, dai lunghi e ricci capelli castano scuro che contornavano un viso dai lineamenti marcati sul quale risaltavano gli occhi scuri. Era il suo completo opposto, poco ma sicuro.
Ridacchiò.
- Penso che sia così quando non si condivide il DNA. -
Le parole le erano uscire di bocca così, senza che lo volesse. Non se ne pentì, ma si chiese che accidenti avesse detto. Anzi, come mai l’avesse detto.
Matt la guardò con aria interrogativa, cosa che la fece ridere un’altra volta. Evidentemente non aveva capito.
- Sono stata adottata – spiegò.
Se avesse avuto una bibita fra le mani, il cantante si sarebbe ritrovato a mandarsela di traverso e a strozzarsi, esattamente come aveva fatto quando si erano conosciuti.
- Tu… eh? – domandò, leggermente sorpreso.
- Già, è… una storia complicata. Non so bene come spiegartela. -
- Beh. Io direi di provarci. Non puoi tirarti indietro ormai, hai detto una cosa importante che non posso ignorare. -
Lei lo sapeva che il ragazzo era passato oltre a molte, molte cose. Osservazioni, considerazioni ad alta voce che faceva, piccoli gesti o modi di fare che lei aveva e sui quali lui avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma si era sempre trattenuto. Certe volte apriva la bocca per chiedere, ma poi la richiudeva, come se le parole gli fossero morte in gola.
Ma quello era importante. E, forse, avrebbe potuto provare, ma no, non sarebbe riuscito ad ignorare la cosa.
- Beh, è… complicato. -
- Ci so fare, con le complicazioni. -
Anche quello era vero.
Liz aveva sospirato un’altra volta, poi si era lasciata cadere su una delle panchine poco lontane dalla pista ciclabile che avevano fatto vicino al lungomare. Si sentiva il brusio della gente, si vedevano persone fare jogging o andare in bicicletta, piccoli gruppetti di amici che si godevano il sabato pomeriggio, bambini che rincorrevano i gabbiani e coppiette che andavano sul molo ad osservare l’orizzonte. Lì per lì, capiva perché Matt amava tanto quel posto.
Si era girata verso di lui, che si era seduto accanto a lei, poi aveva cominciato a raccontare. Non sapeva nemmeno come ci era riuscita, in quanto la sua storia non l’aveva mai raccontata a nessuno. Non aveva mai parlato in un modo così sincero, non aveva mai espresso i suoi sentimenti riguardo a tutto ciò che era successo, non aveva mai narrato il corso degli avvenimenti per intero. Ma con lui ci era riuscita, perché chissà come riusciva ad infonderle un grande senso di protezione: con Matt lei era al sicuro e lo sarebbe sempre stata.
“Per fartela breve: adozione chiusa, catapultata in una delle famiglie più ricche di Newport Beach e no, non è un eufemismo, se dico più ricche intendo più ricche, padre adottivo morto e, improvvisamente, come in una strana soap-opera, mi ritrovo nel quartiere popolare della città vicina”. L’aveva riassunta così, ma alla fine aveva dovuto spiegare tutto nei dettagli e il ragazzo aveva ascoltato ogni singola parola senza giudicare neanche per un secondo.
Gli aveva parlato del fatto che i genitori erano membri dell’alta società di Newport Beach e che, come da copione, non riuscendo ad avere un figlio si erano rivolti al servizio di adozione. Avevano aspettato a lungo ma, alla fine, erano riusciti ad ottenere quel bambino, anzi, quella bambina, ovvero lei. Non si ricordava molto della vita che aveva lì, non si ricordava molto della sua infanzia, tranne un particolare evento che, inevitabilmente, l’aveva segnata.
Uno dei costumi dell’alta società della cittadina era quella di organizzare, per occasioni speciali, party maestosi che, in realtà, nascondevano l’intento di mostrare ai vicini che loro erano più ricchi ma, soprattutto, più bravi a fare affari. Perché di quello si trattava. Quella sera il suo padre adottivo e il fratello di lui erano ad una di quelle feste. La madre non era andata, in quanto era rimasta a casa ad occuparsi di lei. Sulla via del ritorno, era successo un incidente a dir poco disastroso.
“Era su tutti i giornali, ne hanno parlato per un po’”, gli aveva detto, come a rendere meglio il concetto. Lei non ne aveva mai voluto sapere molto, ma di fatto in quello scontro fra veicoli avevano perso la vita suo padre, suo zio e anche l’autista dell’altro mezzo. Tutto andato letteralmente in fiamme.
Matt aveva abbassato lo sguardo non appena la giovane si era voltata verso di lui, come se non riuscisse a reggerlo. Per lui era incredibile come una persona che, a quattro anni, aveva dovuto fare i conti con la morte del padre, riuscisse a non fare una piega e ad essere così ferma quando ne parlava.
“Io non capivo”, aveva cominciato, quando lui le aveva chiesto che cosa era successo dopo, perché voleva sapere, non voleva che lasciasse la storia a metà (in fondo, aveva immediatamente pensato, come avevano fatto lei e la madre a finire lì?), “non capivo che cosa fosse successo. Volevo solo il mio papà, che all’epoca era una specie di eroe. Nessuno sapeva cosa dirmi. Insomma, pensaci: come fai a spiegare la morte ad un bambino?”.
Quella domanda lo aveva fatto riflettere, molto anche. Alla fine però la risposta era stata una sola: no, non si poteva spiegare la morte ad un bambino che pensa a vivere la vita al massimo. Anzi, non si rende nemmeno conto che, un giorno, essa finirà. Perché di fatto si è piccoli, innocenti, e a cose del genere non si dovrebbe nemmeno lontanamente pensare. Eppure, lei ci era stata catapultata dentro, senza che lo volesse. Aveva dovuto scoprire che si moriva, anche se non sapeva bene che cosa volesse dire. In fondo, nemmeno gli adulti la capivano, la morte. Aveva dato voce a quei suoi pensieri, così Liz aveva annuito più volte, facendogli capire che era esattamente ciò che pensava lei. Ma, ovviamente, non l’aveva capito subito.
“Sai che cosa pensa, chi è nell’alta società?”, gli aveva domandato poi, tornando al discorso principale, “ai soldi”, aveva continuato, senza lasciarlo nemmeno rispondere. E così gli aveva raccontato per filo e per segno ciò che era successo poco dopo i funerali. La fidanzata dello zio non si era vista, lei all’epoca non aveva pensato a niente ma lì per lì era praticamente certa che non le avessero permesso di venire. Per quanto riguardava loro, invece, avevano avuto diritto solo alla parte dell’assicurazione sulla vita, ovviamente divisa in parti uguali fra i parenti del defunto, ovvero i genitori di lui e la moglie. Ciò che in realtà non sapeva Liz era che nel mondo affaristico non si giocava sempre bene, e spesso si finiva con il fare debiti. In pochissimo tempo, tutta la loro quota era andata, fra pagamenti di debiti e altro, e loro si erano ritrovate praticamente senza niente, in quanto la madre non lavorava e di conseguenza non avevano nessuna entrata. Avevano chiesto aiuto alle uniche persone che le erano rimaste. “Mia madre non aveva nessuno, se non mio padre e me”, gli aveva spiegato, anche se lui non aveva chiesto della famiglia della donna. Si erano rivolti ai suoi nonni paterni, ma questi ultimi avevano voltato loro le spalle.
“Ecco, questa è una storia buffa, una storia degna di soap-opera direi io”, aveva esclamato la ragazza, non potendo fare a meno di ridacchiare, “ho scoperto di essere stata adottata una sera di quelle, quando mia madre era lì a chiedere aiuto ai genitori della persona che aveva amato di più al mondo. Non riuscivo a dormire e, dopo essere passata per la camera di mia madre e non avendola trovata lì, sono scesa al piano inferiore della casa, vedendo poi la luce uscire dalla porta della cucina. Mi sono appena affacciata, non volevo entrare perché stavano litigando e, lo ammetto, i miei nonni paterni… o quello che sono, non sono mai state persone particolarmente dolci. Anzi, mi facevano paura la maggior parte delle volte. Per fartela breve, hanno detto che non dovevano niente a nessuno, specialmente a me, perché non ero loro nipote, ero stata adottata. Ora, ci ho messo un po’ per capire che cosa significasse, avevo quattro anni. Mia madre ne è a conoscenza, che io sono consapevole della situazione dico, ma non ne parla mai. Forse per paura, chi lo sa”.
Gli aveva raccontato che non sapeva come fosse finita nel quartiere popolare di Huntington Beach. Erano cose che non si ricordava, era piccola. L’unico ricordo che aveva veramente impresso nella mente della sua infanzia erano quelle settimane successive alla morte del padre, poi più nulla. Aveva detto che era meglio così, che se la sua mente aveva voluto rimuovere probabilmente c’era un motivo e, ne era più che sicura, qualsiasi esso fosse era molto, molto buono. Gli aveva anche parlato degli episodi depressivi della madre. L’aveva riassunto con un “a volte sta bene, ma altre non riesci nemmeno a tirarla su dal letto”.
In tutto quello, Matt aveva provato a confortarla come poteva, anche se con sua grande sorpresa la ragazza sembrava non aver bisogno di alcun tipo di consolazione. Aveva raccontato tutto con fermezza, senza che la sua voce si incrinasse, senza che si tradisse, neanche una volta. Neanche quando gli aveva parlato del funerale. Niente di niente. Era come se gli stesse raccontando un film, uno di quelli drammatici e commuoventi, ma inverosimili, di conseguenza dei quali nessuno prova dispiacere nel parlarne.
Forse non si sarebbe mai mostrata debole. Aveva imparato… sì, aveva imparato ad essere un soldato, esattamente come aveva detto Eleanor. E come tutti i soldati, non mostrava le sue emozioni.
Erano rimasti in silenzio per un po’. Matt aveva puntato gli occhi sul mare, mentre la ragazza aveva preso la macchina fotografica in mano e aveva cominciato a fare fotografie. Non si sentiva tranquillo. Quel discorso non era ancora chiuso, lo sapevano entrambi. Al ragazzo non bastava, mentre la giovane aveva bisogno di sfogarsi.
Le aveva domandato se c’era altro. Non sapeva perché, sentiva che fosse giusto. E probabilmente avrebbe ringraziato in eterno la sua mente per aver formulato quella domanda perché, per la prima volta, l’aveva vista debole.
Liz aveva abbassato lo sguardo e si era morsa il labbro inferiore, mentre la gamba destra faceva dei piccoli movimenti su e giù, come se fosse un tic.
“A volte… a volte ho paura di dimenticarmi di lui”, gli aveva detto, con voce flebile, tenendo gli occhi bassi “a volte guardo le sue foto e non… non me lo ricordo. Come se fosse un estraneo. Non mi ricordo niente di quello che ho fatto con lui. A stento ricordo la sua faccia. Non dovrebbe essere così, quando una persona muore… giusto?”.
La sua era una vera domanda. Probabilmente, più cresceva più si chiedeva delle cose e sicuramente aveva dato risposta a gran parte di esse. Ma… c’erano altre domande cui risposta non era poi così spontanea. Come quella. Lui non sapeva bene che cosa dirle. Pensava che all’epoca era piccola e che era normale, dimenticare alcune cose, alcuni gesti, persino alcuni volti. I bambini non pensano a ricordare. Non aveva detto niente del genere, al contrario l’aveva presa per un braccio e l’aveva portata in spiaggia.
Avevano passato ore intere a passeggiare, erano giunti fino ai confini di Newport Beach e poi erano tornati indietro, sempre camminando sulla sabbia. Si erano lasciati cadere su di essa quando erano tornati nei pressi del molo, noncuranti dei vestiti che si sarebbero riempiti di tutti quei granellini. Avevano guardato la gente passare, i bambini giocare nella sabbia o a saltare le onde, avevano osservato il cielo e i primi surfisti che arrivavano accompagnati dagli allenatori per prepararsi alla gara. Avevano assistito da lontano ad una lezione di windsurf, ridendo a vedere tutti quei ragazzini che cadevano e l’istruttore che si passava una mano sulla faccia e scuoteva energicamente la testa, ma che poi ricominciava a spiegare.
C’erano stati i baci, perché ormai non c’era giorno nel quale le loro labbra non si scontrassero neanche una volta.
Era riuscito a distrarla nel modo migliore e, in qualche modo, Matt era fiero di lui. Alla fine, la ragazza si era divertita, ed era ciò che per lui realmente contava.
- Penso invece che sia normale. -
- Come? – domandò Liz, confusa.
Erano ancora seduti sulla sabbia. Stavano osservando il tramonto e, a tratti, i surfisti che cercavano di prendere le onde migliori. C’era poca gente.
La ragazza era fra le sue braccia, con la testa appoggiata sul suo petto. Aveva la macchina fotografica fra le mani ma non sembrava voler scattare qualche foto. Gli aveva spiegato che quella era la sua passione e che, quando poteva, cercava di farne il più possibile. Quella sera non ne aveva voglia però, e il cantante ne era grato, perché così poteva stringerla, e a lui sembrava che fosse suo dovere farlo.
- Sai… non ricordarsi di qualcosa che si è vissuto, o di una persona. Eri piccola e non potevi certo sapere che sarebbe morto. -
La giovane si ritrovò ad annuire, anche se aveva gli occhi lucidi. Matt la strinse ancora più forte, per poi inclinare leggermente la testa in modo da riuscire a darle un bacio sulla guancia.
- Non dovresti pensare a queste cose. Dovresti solo essere serena. Provaci. -
Liz annuì di nuovo, per poi tornare a guardare il tramonto.
Tornò a regnare il silenzio. Stava calando la notte e le poche persone che c’erano cominciavano ad andare via, persino i surfisti. Loro invece volevano rimanere. Sapevano entrambi che nel luogo in cui sarebbero tornati ci sarebbe stata fin troppa confusione e loro volevano rimanere tranquilli, ancora per un po’, immersi in quel silenzio che valeva più di mille parole.
- Ammettilo, però. La mia storia è da soap-opera. -
Matt scoppiò a ridere, seguito a ruota dalla ragazza. E forse, per la prima volta, i due si resero conto che quello era il perfetto luogo in cui dovevano essere, con la persona con cui dovevano stare. E, per la prima volta, sembrò giusto a tutti e due.


 
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Brian era uscito di casa sbattendo energicamente la porta. Se ne era pentito qualche secondo dopo, ma tornare indietro con la coda fra le gambe non era da lui. Quando le cose si facevano complicate, lui sapeva sempre dove andare. Aveva percorso velocemente il lungomare di Huntington Beach, per poi svoltare in una traversa e giungere in una via chiusa, che lui conosceva fin troppo bene. Si era fermato di fronte alla classica villetta americana, dalle pareti bianche con l’intonaco leggermente scrostato (dicevano sempre che dovevano rifarlo ma poi erano sempre troppo pigri per mettersi al lavoro). Aveva esitato solo per un secondo, poi aveva aperto il cancelletto esterno, aveva attraversato il piccolo sentierino di ghiaia che lo separava dal portico e aveva bussato alla porta di casa Sullivan, energicamente. Meno di due secondi dopo, si era trovato di fronte a Joe, che l’aveva guardato dall’alto in basso e poi si era scostato per farlo entrare.
“Jimmy!” aveva gridato, “c’è Brian!”.
Per lui, quell’uomo era come un secondo padre. Spesso pensava che lo capisse meglio di lui. Gli era bastato uno sguardo per capire che non doveva fermarsi ai convenevoli, che non doveva chiedergli come stava o che cosa ci facesse lì a quell’ora (anche se sull’ultimo punto ci era abituato, aveva sempre avuto un via e vai di gente in casa) o che cosa fosse successo. Sapeva che aveva bisogno di Jimmy.
Il batterista aveva fatto capolino dal garage, con le bacchette della batteria in mano. I loro sguardi si erano incrociati aveva capito tutto. L’aveva preso per un braccio, per poi bofonchiare un “vieni con me”. Brian riuscì a malapena a salutare di sfuggita Barbara e Katie Sullivan, per poi essere trascinato nel garage, dove probabilmente il ragazzo si stava esercitando con la batteria. L’aveva fatto sedere ma, come suo solito, non aveva detto niente. Voleva aspettare che fosse lui, a parlare. Nel garage aveva trovato le sorelle Rigby e, di fatto, avrebbe dovuto immaginarselo, dato che erano in quella casa tanto quanto lui e gli altri ragazzi. Nessuna delle due aveva chiesto niente, si erano limitate a continuare la loro conversazione. Conoscevano bene Brian e sapevano che, quando era sottoposto a pressioni, non parlava tanto facilmente.
Jimmy aveva ripreso a suonare e, prima che il chitarrista aprisse bocca, erano passati circa venti minuti.
“Indovinate con chi ho avuto occasione di litigare”, aveva detto, certo che tutti conoscessero la risposta. E loro la sapevano davvero. Brian aveva raccontato del fatto che quando era tornato a casa, quella sera, insieme al fratello, aveva trovato la tavola letteralmente imbandita, il che voleva dire solo una cosa. Un’occasione che veniva definita particolare, almeno in casa sua, era il ritorno del padre dal tour, o come accidenti si chiamava. Brian Elwin Haner Senior era un chitarrista di professione. A parte le esibizioni locali e in giro per la California da solista, lavorava ad ingaggi, cosa che però non gli conferiva notorietà. Per quanto stimasse suo padre e il suo lavoro, non voleva diventare come lui, non più almeno. Non si era mai visto in una band, non prima degli Avenged Sevenfold, ma quando quel sogno di cinque ragazzini in un garage si era trasformato in realtà, tutto ciò che voleva era girare il mondo per concerti. Non voleva che gli altri gli commissionassero qualcosa per poi dare solo un piccolo spazio nei titoli di coda. Lui era destinato ad altro, lui era destinato ad essere grande.
Brian Senior aveva un macabro senso dell’umorismo, cosa che lo rendeva un comico non proprio apprezzato. Possedeva un alto livello di sarcasmo, anche se non sempre sapeva usarlo nel modo opportuno.
Nonostante tutto, i due avevano un bel rapporto, che molti gli invidiavano, anche se Brian era piuttosto sicuro di somigliare di più alla madre. Non lo sapeva, non con esattezza perlomeno. Per molto tempo, per lui c’era stato solo suo padre. Si era sposato giovane con una ragazza altrettanto giovane conosciuta in un bar. Le cose fra loro non avevano funzionato e lei se ne era andata, lasciando suo padre solo con lui e con suo fratello minore, Brent. Non sapeva molto di sua madre, a parte il fatto che viveva da qualche parte in Colorado con suo marito e con un altro figlio. Non sapeva nemmeno se avercela con lei o meno: il padre era una persona difficile da sopportare, lei era giovane e dopo la nascita di suo fratello in preda ad una potente depressione post-partum. Forse andarsene era l’unica soluzione che era riuscita a trovare. Era la via più facile, in fondo. Forse l’avrebbe scelta anche lui. Brian non ci stava poi così male, in fondo la donna non era come una madre, era più una conoscente per lui. Suo fratello era un po’ diverso, invece. Per molto tempo, quando era bambino, aveva pensato che fosse colpa sua, cosa che con gli anni si era fortunatamente sradicata dalla sua mente. Restava il fatto che Brent Haner rimaneva una persona diffidente, che non faceva entrare facilmente le persone nella sua vita. A parte quel piccolo particolare però, era una brava persona. Un ragazzo normale, che andava bene a scuola, una persona simpatica e dotata di buon senso dell’umorismo, a differenza del padre. Era una persona allegra e, come tutti di famiglia, amava la musica. Aveva suonato la batteria per molti anni, ma non la usava da anni. Aveva altri progetti per la testa e Brian era sicuro che li avrebbe realizzati tutti quanti. Erano persone completamente diverse, ma erano fratelli e in qualche modo riuscivano a trovare sempre un punto di incontro.
Il problema che era sorto in famiglia, durante la cena, riguardava proprio la madre dei due fratelli Haner. Da quando si era rifatta viva, e si parlava di anni prima, loro non avevano avuto molte occasioni per vederla, fatta eccezione di qualche suo viaggio in California. Per quanto non fosse stata una madre esemplare per i loro primi anni di vita, ci stava provando, nonostante i due non condividessero la sua severità e alcuni suoi metodi educativi. Ma non condividevano neanche la scelta del padre di non fargliela frequentare. Brent aveva compiuto da poco sedici anni, cosa che l’aveva spinto a chiedere se fosse possibile fare un viaggio in Colorado, cosa che aveva fatto andare il padre su tutte le furie. Ma accidenti a lui. Alla fine, Brian si era sentito in dovere di intervenire, anche perché la matrigna e la sorella minore non potevano fare molto, la prima perché la cosa non la riguardava, non direttamente almeno, la seconda perché aveva appena tre anni e di conseguenza non capiva nemmeno di che cosa si stesse parlando.
Nonostante Suzy avesse provato più volte a cambiare argomento, si erano ritrovati a litigare, come sempre quando si toccava quell’argomento.
Suzy Haner era entrata nella famiglia più o meno quando lui aveva sette, massimo otto anni. Era una donna pacata, molto intelligente, allegra al punto giusto. Era la persona perfetta per suo padre, a detta sua. Si erano sposati qualche anno dopo. Suzy era, sostanzialmente, tutto ciò che Brian e Brent cercavano in una figura materna. Per loro era la madre esemplare. Un po’ apprensiva e ansiosa, certo, ma faceva parte del mestiere. Tre anni prima era nata McKenna, la loro sorella minore, che aveva portato un’ondata di spensieratezza che solo i bambini potevano possedere nella casa. Anche in quell’occasione, la donna si era dimostrata la madre esemplare. Di tutti e tre, l’unica che era veramente figlia sua era la bambina, ma a lei non importava e li trattava tutti allo stesso modo. Erano fortunati, i fratelli Haner, senza ombra di dubbio. Ma questo, a detta sua, non doveva significare che i due non dovessero frequentare la propria madre. A dire la verità, a Brian non importava poi quel granché, ma a suo fratello sì e si sentiva in dovere di prendere le sue posizioni.
Non era finita bene. E, alla fine, la cosa si era risolta con la sua uscita dalla casa. Probabilmente non ci sarebbe tornato, avrebbe passato la notte lì per schiarirsi le idee. In fondo, era sempre il benvenuto, in casa Sullivan.
- Secondo me tuo padre deve capire che non esiste più solo lui – esclamò Jimmy, sedendosi accanto a lui e dargli una pacca confortante sulla spalla – non ci pensare. Se lo ficcherà in testa, vedrai. -
Non era poi così ottimista, ma se lo diceva Jimmy…
Anche Eleanor e Phoebe avevano ascoltato il racconto e nessuna delle due aveva detto qualcosa. Brian non era poi così sicuro che le due capissero, soprattutto la più piccola delle due, che a tratti era come lui e di certe cose non le importava davvero niente. Quella volta però era diverso, in fondo si trattava di un amico.
Le due avevano una situazione familiare completamente diversa dalla sua, come del resto ce l’aveva Jimmy, ma quest’ultimo era il suo migliore amico e lo capiva, lo capiva sempre.
I coniugi Rigby erano la classica coppia perfetta insieme dal primo anno di college, che avevano aspettato qualcosa come cinque o sei anni per sposarsi e mettere su famiglia in quel di Huntington Beach. Poco dopo avevano avuto la prima figlia, che, ironia della sorte, l’avevano chiamata Eleanor, in modo da avere una specie di riproduzione vivente della canzone dei Beatles. Ciliegina sulla torta, meno di due anni dopo avevano provveduto ad aggiungere un altro membro alla famiglia (e spesso loro ci scherzavano su, chiedendosi perché non l’avessero chiama Lucy, Prudence, Rita, Sadie…). Erano cresciute in un contesto quasi agiato, con il padre che era un professore di matematica alla St. Marie e la madre infermiera all’ospedale locale. Non era mai mancato niente a nessuna di loro. Proprio per quella ragione il chitarrista non capiva come spesso Eleanor presentasse una personalità cupa e un livello di cinismo altissimo. Non ne aveva il motivo. Avrebbe dovuto essere lui così, considerando la sua situazione. Era anche vero, gli diceva sempre Jimmy, che non si poteva giudicare un libro dalla copertina e che prima avrebbe dovuto informarsi meglio, non su tutto ma almeno su ciò che bastava per capire. Ognuno aveva i suoi problemi, in fondo.
- Che faccia quel che desidera, non mi interessa. La stima la perde in mio fratello, se è ciò che vuole… -
Il batterista diede una scrollata di spalle, anche se sicuramente avrebbe fatto qualcosa in seguito per farlo sentire meglio. O, perlomeno, ci avrebbe provato, perché aveva promesso, e lui le promesse le manteneva sempre, anche quelle più difficili.
- Su, prendi una chitarra e mettiti qui, aiutami, ho delle idee che mi ronzano in testa e… -
- E noi che speravamo di passare una serata tranquilla – esclamò Eleanor, mentre Jimmy le faceva la linguaccia e il chitarrista le alzava il medio – sei scortese, Haner. -
- Mai quanto te, Rigby. -
- Sì, okay, a quando la scopat… -
Il batterista non riuscì a finire la frase. Non sapeva da dove fosse spuntata, né come avesse fatto a raggiungerlo in così poco tempo, doveva solo constatare che gli scapaccioni di Phoebe facevano male.


 
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Liz era perfettamente consapevole di aver fatto tardi, anzi, tardissimo. La madre le aveva detto di essere a casa per le otto e mezza. In realtà erano quasi le undici e lei aveva passato tutta la giornata sulla spiaggia insieme a Matt. Avevano preso qualcosa da mangiare al food truck che si fermava nei pressi della spiaggia verso le otto di sera, poi erano tornati a sedersi sulla sabbia, senza fare niente di nuovo rispetto a quello che avevano fatto prima, ma a nessuno di loro sembrava importare.
A dire la verità, alla ragazza non interessava nemmeno quello che le avrebbe detto la madre. Di fatto, era sempre stata molto responsabile e almeno una volta uno strappo alle regole non faceva male. Non era mai stata la classica adolescente trasgressiva, forse perché con tutto quello che era successo non voleva dare alla madre un ulteriore peso. O forse perché non le interessava per davvero stare fuori fino a tardi a bere, cacciarsi nei guai con gli amici (che poi se la filavano alla prima occasione, ma quelli erano dettagli), non le piacevano i party, il sesso occasionale, l’alcol e la droga.
Non erano cose per lei.
Non sapeva se questi fattori la rendessero un’adolescente fuori dalla norma, vista la gente che aveva a scuola, oppure se erano gli altri che si lasciavano fin troppo andare.
- Non dovevi riaccompagnarmi a casa. -
- Scherzi? Questo posto di notte è… - si interruppe, scuotendo la testa – lascia stare. L’ho fatto con piacere, davvero. -
Non sapeva se Matt fosse così educato solo con lei perché volesse fare una buona impressione o forse perché quella era davvero la sua natura. Alla luce di come si esprimeva con tutti gli altri però doveva davvero fare i salti mortali per contenersi. Le aveva raccontato, in quella giornata, che lui aveva frequentato alcune gang dei quartieri popolari, qualche tempo prima. Si era cacciato nei casini tantissime volte e nessuno sapeva come fosse riuscito a scamparla sempre. Era arrivato ad un punto dove l’unica soluzione che vedevano i genitori era spedirlo alla scuola militare, luogo dove poteva sia sfogare che limitare quella sua strana indole violenta che nessuno riusciva a capire (da dove era spuntata? Dove avevano sbagliato? Come avevano fatto a non accorgersene?). Le aveva detto che le uniche persone che avevano creduto in lui, all’epoca, erano gli altri componenti degli Avenged Sevenfold. Non l’avevano abbandonato neanche per un istante, neanche quando era stato coinvolto in affari più grandi di lui. Se era riuscito a tirarsi fuori da lì era anche per merito loro. Le aveva anche mostrato qualche ricordino di risse e varie, soprattutto la grande cicatrice sulla spalla sinistra che si estendeva su parte della schiena.
“Lunga storia”, aveva detto, “che comprende una bottiglia rotta e conti in sospeso. E questa è l’unica cosa che devi sapere”.
Non le aveva raccontato molto di quel periodo. Non le aveva raccontato molto della sua vita in generale, ora che ci pensava. Lei invece gli aveva raccontato tutto e nel corso della sera aveva cominciato a sperare che anche lui si aprisse completamente con lei.
- Posso farti una domanda? – domandò il ragazzo, salendo le scale in modo da arrivare al terzo piano della palazzina.
Aveva insistito per salire fino a lì anche se avrebbe tranquillamente potuto lasciarla al portone. E poi, se lì era conosciuto, probabilmente prima se ne andava meglio era… ma aveva insistito e lei non aveva nemmeno provato ad invitarlo ad andare. Lo voleva lì con lei.
- Perché ti sei fidata di me? -
Era una domanda che si era posta anche lei. Perché si era fidata di lui? Avrebbe potuto farlo con tutti gli altri. Con Eleanor, per esempio, con la quale stava stringendo un forte legame. Con Zacky, che l’avrebbe capita considerando il fatto che per un periodo di tempo aveva vissuto nella sua stessa situazione. Con Jimmy, che avrebbe capito senza problemi. Ma anche con tutti gli altri. Tutti… a parte Matt. Quindi no, non capiva.
Se non…
- Non lo so. Mi sembrava giusto. -
- È strano, però. Io non mi fido neanche di me stesso. Come hai fatto? -
Liz non poté fare a meno di ridere. Era vero, non lo sapeva, ma se una persona come lei era riuscita a dare fiducia ad uno come lui, sicuramente quel ragazzo ispirava fiducia più di quanto credesse.
- Invece sei la persona più affidabile di questo mondo, almeno per me. Spero… spero che un giorno farai la stessa cosa con me. -
In quella giornata, aveva constatato la ragazza, non era riuscita a tenere a freno la lingua (in tutti i sensi). Quando pensava una cosa, la diceva. Non aveva fatto mistero che della sua vita avrebbe voluto saperne di più, al che il ragazzo rideva e rispondeva sempre allo stesso modo: “fidati, non vuoi”. Forse aveva paura che in quel modo l’opinione che si era fatta nei suoi confronti cambiasse completamente. Lei non lo credeva possibile: il passato era passato, fine della storia.
- Lo farò. Buonanotte, Elizabeth. -
- Non chiamarmi in quel modo. E… buonanotte anche a te. -
Con un movimento fulmineo, il ragazzo appoggiò per l’ultima volta le labbra sulle sue. Le sorrise, cosa che, inaspettatamente, le fece perdere un battito.
Dopo un attimo di esitazione, la giovane chiuse la porta alle sue spalle, appoggiandosi ad essa e respirando a fondo.
- E non smetterò mai di chiamarti così! – sentì qualcuno dire dall’altra parte, cosa che la face ridere leggermente.
Lasciò scorrere la schiena contro la porta, ritrovandosi seduta a terra. Si appoggiò la mano sul petto, all’altezza del cuore, sentendolo battere all’impazzata.
Scosse energicamente la testa.
No, non era possibile.
Non poteva essere possibile.






Note dell'autrice:
Ed ecco che con il quinto capitolo comincia la mia "walk of shame" - tranquilli, entro la fine della fanfiction capirete perché.
Capitolo lungo, lo so. Ma come fai a raccontare la storia della vita di una persona senza fare un capitolo lungo? Avevo pensato di dividerlo in due, ad un certo punto, poi mi sono detta che la cosa non aveva molto senso, in quanto questo capitolo volevo incentrarlo su alcune "storie di vita", chiamiamole così, dei miei personaggi, e fare una divisione non mi sembrava opportuno, ecco.
Anyway, prima che vi mettiate a lanciarmi verdure andate a male o cose del genere... lasciami spiegare. Liz definisce la sua storia "una storia da soap-opera". Alla fine era questa l'idea. Il punto è questo: ognuno di noi ha una storia, nel bene e nel male. Questa storia può avere elementi normalissimi, oppure al limite dell'assurdo. Ecco, diciamo che Liz ha l'ultima categoria, così come Brian, e questi due insieme sono l'esatto opposto della famiglia Rigby e della famiglia Sullivan, come si può notare. Ci sono così tante persone diverse al mondo, con così tante storie... scriverne una così forse ne valeva la pena. Se nemmeno questa mia spiegazione vi ha convinti e pensate che la storia di Liz sia troppo inverosimile, beh... non posso dirvi altro che tenere presente che questa è una fanfiction, e come tale può contenere elementi simili (disse la fanatica del realismo, ma sssh).
Poi... che altro posso dire? Mh, direi nulla, se non che il capitolo è solo un po' un approfondimento dei personaggi, un tuffo nel passato. Certo è che il fatto che Liz si apra proprio con Matt non è frutto del caso. Che cosa succederà fra quei due, e nelle vite di tutti gli altri? Eheheh.

Okay, forse è meglio che mi ritiri nel mio angolino buio.
Ringrazio di cuore le persone che hanno recensito e le poche anime che l'hanno messa fra le seguite, le preferite e le ricordate. Siete dei tesori, davvero.
Se il capitolo vi è piaciuto (oppure no, lo dico sempre, critiche venite a me), lo lascereste un commentino per farmi sapere che ne pensate? *occhi da cucciolo*

Me ne vado per davvero ora.
Al prossimo capitolo!
Kisses,
Vava_95

P.S. le canzoni di inizio capitolo ovviamente riprendono le storie dei personaggi, ho passato un'ora a sceglierle, ma sssh.
P.P.S. anche se ho controllato e ricontrollato, devo aver lasciato qualche errore di battitura da qualche parte, o cose del genere. Chiedo perdono.
  
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