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Autore: Feds_95    11/03/2015    1 recensioni
In un mondo governato dagli zombie, dove non esiste più la speranza per il futuro, gli umani rimasti lottano per sopravvivere e per mantenere viva l'unica cosa che resta loro: l'umanità.
Emily è una di questi; senza mai perdersi d'animo cerca di infondere coraggio nei suoi amici, cercando ancora di vedere quella luce di speranza che ormai tutti hanno perduto. Quando anche lei però comincia a pensare che Dio li abbia abbandonati, ecco che tutto cambia. Ecco che Daryl entra nella sua vita.
Da quel momento in poi per entrambi la parola d'ordine non sarà più solo "sopravvivere", bensì "vivere".
***
Ormai tutto era incerto, traballante. Il pendolo delle nostre vite oscillava di continuo tra vita e morte, o tra vita e non-morte. Non sapevamo se saremmo sopravvissuti per vedere una nuova alba, per lottare un altro giorno al fianco della nostra famiglia. Io non sapevo se ce l'avrei fatta. Forse la mia goffaggine prima o poi mi avrebbe fatta uccidere. Eppure tra tutte le incertezze che il mondo nascondeva, c'era solo una certezza per me: ero totalmente e incondizionatamente innamorata di Daryl. E questo mi bastava.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daryl Dixon, Glenn, Nuovo personaggio, Rick Grimes, Un po' tutti
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Defeated
 
 
                                                    
 
 << Quando tutto è perduto, tutto è possibile. >>
-Robert Inman-



<< Qui è Emily Marcus, ho diciassette anni. Sono al numero centoventi di Boston Street ad Atlanta. Se c’è qualcuno lì fuori, risponda per favore! Ripeto, se qualcuno mi riceve, risponda per favore… Jacob ,se mi ricevi, ti prego, ti prego, rispondi. >>

In risposta, per l’ennesima volta, non ottenni altro che fruscii.

Sentendomi completamente sconfitta, gettai con violenza il microfono sulla scrivania e scaraventai a terra la radio. I pezzi volarono per tutta la stanza  e il rumore del metallo rotto rimbombò nella casa vuota.

Connor mi aveva detto di lasciar perdere, di smetterla di sprecare il mio tempo davanti a quell’aggeggio e impiegarlo in qualcosa di più produttivo, come faceva lui.

Mi sentivo così idiota.

Arrivare in una casa con una radio aveva innescato in me un moto di speranza mista ad euforia che non provavo da anni. Quello mi era sembrato il miracolo di cui avevo bisogno. Ma in realtà non era niente.

Là fuori non c’era nulla. Nessuno ad ascoltarci. Nessuno a salvarci.

Mi sembrava assurdo che il mondo potesse essere andato a rotoli così velocemente, che le forze dell’ordine o la sanità non fossero state in grado di arginare o fermare quest’epidemia.

Perché questo era ai miei occhi era, nient’altro che un virus che, chissà come o perché, trasformava le persone in non-morti.
All’inizio si era trattato di casi isolati, interpretati come semplici infezioni che portarono alla morte il paziente; nessuno ci fece troppo caso, finché la cosa non si ripeté più e più volte. Arrivati ad un certo punto, si cominciò l’evacuazione delle città più a rischio e lo stanziamento di gruppi armati intorno agli edifici considerati di massima importanza, l’aeroporto non era uno di quelli.

Così ero finita lì, nella casa di qualcun altro, completamente abbandonata e disordinata. C’erano armadi e cassetti aperti a caso, alcuni dei quali addirittura gettati a terra nella fretta della fuga. Vestiti e altri oggetti spasi per il resto dell’abitazione, mentre foto e ritratti erano spariti. I muri recavano solo i segni dei quadri che vi erano appesi un tempo.

Non riuscivo a figurarmi la famiglia che originariamente viveva qui. Se fossero una coppia di anziani, due giovani sposi o una famiglia più numerosa. Speravo solo che ovunque fossero stessero bene.

Speravo che altri, oltre a noi, ce l’avessero fatta.

Mi presi la testa fra le mani, poggiando i gomiti sul tavolo. Cercavo con tutte le mie forze di non piangere, di non essere debole. Connor sarebbe tronato tra poco e avrebbe portato qualcosa da mangiare, finalmente.

Ormai erano giorni che non mangiavamo e, alla prima occasione, a strade apparentemente sgombre da erranti, il mio compagno si era avventurato in città alla ricerca di cibo, in scatola o fresco non faceva differenza. Il mio stomaco brontolava rumorosamente e faceva male, come se me lo stessero stritolando dall’interno.

Potevo già immaginare il mio viso in quel momento. Stanco, sporco e con le guance scavate. Malgrado fossero settimane che non mi guardavo più allo specchio, l’immagine era chiara nella mia mente.

Posai lo sguardo sul coltello posato sul tavolo. La mia unica arma, oltre alla pistola, che però in quel momento era nelle mani di Con, per sicurezza. Io non sapevo sparare, lui si, ne avrebbe fatto sicuramente un uso migliore.

La lama era sporca del sangue secco dell’ultimo zombie che avevo ucciso, con non poca difficoltà. Non ero mai stata una campionessa sportiva, non avevo muscoli che mi aiutassero nella lotta per la vita che affrontavo ad ogni respiro. Le uniche cose in cui riuscivo erano la lettura e la musica. E ,a meno che gli zombie non si potessero uccidere con una composizione o una poesia, quelle non facevano parte delle attività utili per la sopravvivenza.

Il metallo era liscio, lo accarezzavo con la punta delle dita. Una linea di sangue cominciò a formarsi lungo la parte tagliente. Era così affilata che le mia pelle si lacerò senza sforzo. Connor ci teneva che le armi fossero sempre nelle condizioni migliori, per questo tutte le sere puliva accuratamente sia la pistola che il fucile, oltre ad affilare tutti i coltelli  e i macheti.

Non avevo idea di come sapesse farlo. Diceva che guardava molto Discovery Channel e che a volte facevano programmi sulla sopravvivenza e spiegavano queste cose, ma io non ci credevo molto. Comunque fingevo di farlo; se non voleva raccontarmi del suo passato, non ero nessuno per pressarlo, solo una ragazzina spaventata che si era appoggiata a lui per farcela. Neanche insieme agli altri eravamo stati molto affiatati.

Sarebbe facile farla finita, pensai, continuando a far scorrere i polpastrelli sul metallo freddo.

Un taglietto e in pochi minuti sarebbe tutto finito. Non dovrò più affrontare quelle cose là fuori, la morte, la sofferenza e la fame.

Sarebbe la fine, in pochi minuti.


Solo un taglietto…

In pochi minuti…

Sarebbe la fine…

<< Emily? >>

Una voce alle mie spalle mi riportò a galla dai miei pensieri. Una voce calda e sicura, che in quei giorni era diventato il mio appiglio per non cadere nella pazzia.

<< Connor? >>  mi alzai dallo sgabello e mi sistemai i vestiti, sporchi e strappati. << Sei tornato, stai bene? >> notando del sangue fresco sulla maglia grigia che indossava. I jeans erano sporchi di terra e strappati, come i miei.

Se ne stava sullo stipite della porta, con il fucile stretto tra entrambe le mani. Con uno scatto quasi felino afferrò il suo zaino e se lo mise sulle spalle di fretta.

<< Prendi il tuo zaino. Dobbiamo andarcene. >>

<< Cosa? Perché? >> domandai, mentre prendevo la piccola borsa che conteneva tutto ciò che potevo dire essere “mio”. Non ci portavamo dietro molte cose, sarebbero state in impiccio in caso di fuga, come in quel caso.

Il suo sguardo indugiò per un minuto su ciò che  restava della radio per poi soffermarsi sulle mie mani, sporche appena del mio stesso sangue. Gli occhi scuri del mio compagno tornarono su di me pochi attimi dopo e non nascondevano affatto il rimprovero che avrebbe voluto rivolgermi se avessimo avuto tempo.

Aveva sicuramente capito quello che stavo pensando. Non sapevo come, ma riusciva a leggermi come un libro aperto. Alle volte pensai che potesse leggere nel pensiero, che fosse una specie di supereroe della mente;  a questo commento rispondeva sempre con una risatina per poi scompigliarmi i capelli amorevolmente.

<< C’è un gruppo di non-morti che sta venendo da questa parte. Ho cercato di deviarli da un’altra parte, ma sbucavano da tutte le parti. >> spiegò, lanciando occhiate fuori dalla porta.

Strinsi la presa sul mio coltello, afferrai il machete che avevo poggiato sul divano e lo legai alla vita. Era meglio che le armi da fuoco le usasse Con, che aveva una mira migliore e non rischiava di sprecare munizioni. Inoltre avevamo capito che erano attirati dal rumore e dall’odore umano, perciò quando ci spostavamo cercavamo di farlo in assoluto silenzio.

Quando uscimmo dalla villetta, vidi in fondo alla strada una dozzina di erranti che ondeggiando si stavano avvicinando a noi. L’odore del sangue e la puzza di morto mi colpirono così violentemente da farmi venire la nausea.

<< Stai bene? >> mi chiese apprensivo Con, avendo notato che ero sbiancata all’improvviso e che mi tenevo una mano sulla pancia. Avevo lo stomaco così vuoto, avevo così tanta fame…

Un conato mi salì su per la gola e rigettai quel poco che era rimasto in me sul vialetto. Era più che altro acido gastrico che mi raschiò il collo così violentemente che cominciai a massaggiarlo cercando inutilmente di alleviare il bruciore. La mano di Connor mi massaggiava dolcemente la schiena, mentre sussurrava: << Va tutto bene. Butta fuori tutto. >>

La verità era che non avevo più nulla da buttare fuori.

Mi porse la sua bottiglia d’acqua. C’era rimasto appena un sorso, perciò, completamente incapace di parlare, feci segno di no con la testa e scansai la bottiglietta, ma lui  continuò a porgermela con un sorriso amichevole e alla fine accettai. Non era molto, ma almeno mi tolse dalla bocca quell’orribile sapore.

<< Grazie. >> dissi riporgendogliela. Lui la infilò distrattamente nello zaino e tornò a guardare gli erranti. Si erano avvicinati di più, ma non troppo.

<< Andiamo, coraggio. Prima seminiamo quei cosi, meglio è per noi. >> mi esortò e con la mano sempre premuta lievemente sulla mia schiena mi spinse verso la strada.

Cominciammo a camminare, senza una meta precisa. Ci guardavamo intorno, nel caso in cui sbucasse fuori uno zombie attirato dal rumore degli altri.

Mi chiedevo  spesso se quei grugniti non fossero una specie di codice che i non-morti usavano per comunicare tra loro. Ma poi quando ne trovavo uno morto per strada o che ciondolava in giro, mi ricordavo che quegli esseri non erano più persone o esseri viventi pensanti. Erano solo macchine da caccia.

<< Dove stiamo andando, Con? >> gli chiesi, mentre uscivano dal quartiere residenziale in cui ci eravamo accampati. Ci era sembrato abbastanza sicuro, con le villette con gli steccati intorno e i grandi giardini avremmo potuto avvistare in anticipo qualsiasi pericolo. Ma in fondo, nessun posto è sicuro. << Sta per fare buio. Sai che è pericoloso stare qui fuori di notte. >>

<< Si, lo so. >> rispose guardando dritto davanti a se. << E’ per questo che stiamo andando in un posto sicuro. >>
 
-
 
Rallentammo la nostra corsa e ricominciammo a camminare dopo quasi un’ora di viaggio. In condizioni normali sarebbe stata una passeggiata, ma quando si è affamati, stanchi e si deve stare concentrati per ogni minimo movimento, non era il massimo.

Connor mi aveva detto di aver perlustrato tre case, quasi completamente vuote, e che aveva trovato solo del burro di arachidi scaduto da una settimana e della zuppa in scatola ancora buona. Gli sorrisi felice: almeno avremmo avuto qualcosa da mangiare quella sera. Poi sapevo quanto lui ce la mettesse tutta per trovare qualcosa di utile e come si sentisse fiero quando trovava degli oggetti che poi mi facevano sorridere. Era abbastanza grande per essere mio padre e, nel tempo trascorso insieme, lo percepivo quasi come tale.

Le strade erano pulite, solo qualche creatura continuava ad andarsene in giro senza senso, ma fin tanto che non ci notavano li lasciavamo stare.

Focalizzai la mia attenzione sul ragazzo senza un braccio alla mia sinistra che si stava avvicinando, il braccio buono proteso in avanti pronto ad afferrarmi. La mandibola era completamente sporca di sangue e i denti e le gengive erano in bella mostra. I vestiti strappati e logori lasciavano intravedere un fisico magro e asciutto, quello di un qualsiasi ragazzo della mia età.

Trattenendo il fiato, mentre Connor si accostava a passo svelto all’errante e gli piantava il machete in mezzo alla testa. Il corpo cadde definitivamente morto ai suoi piedi. Con un colpo al vento pulì l’arma dalla carne e dai resti di cervello, per poi riprendere il cammino al mio fianco.

Le mie nocche erano diventate bianche per quanto forte stavo stringendo l’elsa del mio coltello, ma non potevo lasciarlo andare. Non dovevo guardare indietro. Dovevo solo continuare a camminare.

Non appena girammo l’angolo, vidi i bordi frastagliati dell’edificio. Era la nostra ultima speranza, lo sapeva anche Connor. Era l’opportunità di cui avevamo bisogno, il miracolo.

Subito un sorriso cominciò a formarsi sulle mie labbra, intanto che ci affrettavamo a raggiungere la costruzione, per poi svanire non appena raggiunsi lo spiazzo adiacente la struttura.

Tutt’intorno al CDC era ricoperto di corpi morti e pezzi di cadaveri. Muri di sabbia erano sporchi di sangue e budella, i veicoli dell’esercito sostavano abbandonati qua e là.

L’odore salato e metallico del sangue era così forte da sembrare asfissiante. Sapevo che stavo per vomitare di nuovo.

<< Coraggio, andiamo. >> disse Con, mentre sembrava del tutto immune a ciò che ci circondava. Cercai con tutta me stessa di non lasciarmi spaventare dalle mosche che ronzavano intorno alla carne morta e all’orribile scempio dei cadaveri, intanto che affiancavo il mio compagno. Continuava a guardare con attenzione ogni corpo, nell’eventualità che avessero addosso qualcosa di utile. Alcuni sembravano essere militari, perciò potevano avere addosso ancora un po’ di munizioni o qualche pistola.

Eccoci qui. Tra poco saremo salvi. Andrà tutto bene.

Fu allora che sentii i motori.

Il suono sembrò piombarmi addosso come una folata di vento e mi congelò sul posto.

Era un motore. Un cavolo di motore!

Cominciai a correre nella direzione di provenienza, finché non lo vidi e capii che non eravamo soli.

C’era un intero gruppo di persone si muoveva velocemente tra i cadaveri, guardandosi intorno con le armi pronte a far fuoco.

Un gruppo! Un maledettissimo gruppo di esseri umani!

Continuai a fissarli, mentre si affrettavano all’entrata della struttura governativa. Vidi delle donne al centro, che stringevano a sé dei bambini, un uomo con un cappello da pesca e un ragazzo di colore che teneva un braccio intorno alla vita di una donna, anch’essa di colore. A capo di tutti c’era un uomo vestito da sceriffo e con una grande borsa sulle spalle da cui spuntavano due canne di fucili.

<< Hey! >> gridai, cominciando a muovermi verso di loro, ignorando i non-morti che si avvicinavano e Connor che mi chiamava. << Hey! Aspettate!! >>

<< Zombie!! >> sentii gridare qualcuno e tutti si voltarono, mentre un uomo abbatteva la creatura con una balestra. Gli altri cominciarono ad andare nel panico, a discutere e a piangere. I bambini nascosero la testa nel petto delle madri, spaventati a morte.

Il tizio con la balestra mi vide e, con occhi spalancati, puntò la sua arma verso di me. Non avevo dubbi che avrebbe sparato al mio minimo passo falso.

<< Ti prego. Io… Io non voglio farvi del male. >>

<< Emily!! >>

Connor mi si era parato davanti per farmi da scudo e aveva sollevato il fucile, puntandolo verso di lui, che a sua volta aveva spostato l’attenzione da lui a me.

<< Chi siete? >> domandò con voce dura, da cui traspariva il tipico tono del Sud. Nell’oscurità non riuscivo a distinguerne bene i lineamenti del viso, ma potei dedurre che era muscoloso e alto.

<< Chi siete voi?! >> chiese di rimando Con, con voce ancor più dura e intimidatoria.

A quel punto tutti gli altri membri del gruppo si accorsero di noi e presero a fissarci con occhi sgranati e increduli. Evidentemente non avrebbero mai immaginato di vedere altri esseri umani lì.

Beh, quasi tutti.

Il tipo col cappello da sceriffo continuava a sbattere sulle saracinesche che coprivano le entrate, attirando sempre più zombie, mentre un altro uomo cercava di spostarlo e di farlo allontanare da lì.

<< Ci stai uccidendo! Ci stai uccidendo!!! >> continuava a gridare a pieni polmoni. Il tono era così disperato che mi si strinse il cuore solo a guardarlo. Tutti gli altri sembrarono dimenticarsi di noi, tranne il tipo con la balestra, e presero a parlottare e gridare tra di loro, indecisi sul da farsi.

Lo sceriffo, quando finalmente si voltò, si accorse di noi, ma prima che chiunque di loro potesse dire qualcosa, le saracinesche si sollevarono improvvisamente e una luce accecante illuminò tutto intorno a noi.

Non sapevo chi fossero quelle persone e, francamente, non mi interessava, né a me, né sicuramente neanche a Connor, perché in quel momento eravamo al Centro Di Controllo.

Eravamo salvi.

Era finita.
  
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