Grazie di aver aperto questa
pagina!
Questa storia è una
Lavi/Allen estremamente triste e sentimentale, me ne rendo conto,
quindi se
quando avete finito di leggere avete perso la voglia di vivere potete
anche
sfogarvi su di me °-°
È ambientata in un universo
alternativo, non chiedetemi quale perché non ci ho pensato ù_ù non
direi proprio
ai nostri giorni però, perchè certe cose oggi non accadono, ci sono
molte più
cure.
Preannuncio che Kanda sembra
un mostro insensibile, ma non era mia intenzione XD lo considero più
una
persona che stava soffrendo ma che non voleva ammetterlo o farlo
vedere, per
non aggiungere altra tristezza nel cuore del povero Lavi ç__ç insomma,
cercava
di essere forte per tutti <3
Spero l’apprezziate almeno un
minimo…buona lettura
Lo guardava, ma lui no, lui
fissava il vuoto e camminava piano, un passo alla volta, con
attenzione, come
se ogni minimo movimento fosse fatale. I occhi di lui erano distanti.
Tutto era sbagliato, tutto
era ingiusto e tutti erano colpevoli. Tutto era disperazione. Tutto era
vuoto.
Tutto si concentrava in quelle poche parole che sconvolgevano la mente
e la
intossicavano, fino a quando Lavi non si accorse di essere ancora vivo
e che
quel intenso dolore proveniva solo da dentro. Dentro: una parola che
non si
sapeva spiegare, che non capiva, ma sapeva di certo che esisteva perché
in quel
momento gli doleva così tanto da annebbiargli i sensi.
Lavi gli toccò una spalla e
solo allora Allen si accorse che era lì, che era preoccupato e allora
sorrise, tristemente
e in modo orribilmente ipocrita.
Le mani gli tremavano e
l’unica cosa che il rosso riuscì a fare era abbracciarlo: l’unica che
potesse
fare. L’unica cosa che il suo cervello stordito gli diceva di fare.
-s-sto bene…-
Che dire? Che fare in un
momento del genere?
In un momento come questo
cosa si può considerare importante e cosa no?
Gli passò un braccio intorno
alle spalle e lentamente lo condusse verso il loro appartamento. Allen
si
aggrappò con forza alla sua maglia, stringendolo più vicino ad ogni
passo.
Lavi si odiava, per non
sapere cosa dire, cosa fare, come consolarlo! In un momento come quello
era
assolutamente inutile e questo lo distruggeva.
Se esisteva un Dio, non era
buono e giusto.
Se esisteva un Dio, lasciava
il destino dell’uomo nelle mani del fato, che tagliava il filo delle
vite
assolutamente a caso.
Una cosa come quella non
poteva essere giusta, né avere un significato!
Un rosso con lo sguardo perso
ed un ragazzino con i capelli bianchi totalmente sconvolto che
camminavano
quasi abbracciati, la folla gli passava avanti senza capire, alcuni
ridevano,
altri li guardavano solo. Tutti non capivano.
Lavi sentiva la paura, la
disperazione anche, provenire dal più piccolo come un’onda che non
sapeva come
fermare e che lo stava violentemente assalendo.
Si sentiva disperato,
frustrato, triste. Smarrito. E lo faceva soffrire il pensiero che, se
lui si
sentiva così, Allen cosa stava provando? Quanto poteva essere grande il
suo
dolore? La sua paura?
Quanto doveva sentirsi
totalmente incondizionatamente perso?
Mentre salivano le scale
incrociarono una voce familiare e fin troppo canzonatoria.
-che hai fatto mammoletta?-
Alzò lo sguardo e riconobbe
la figura dai capelli scuri e gli occhi sprezzanti che li guardava
dall’alto
della scalinata.
-hai scoperto di essere una
donna?-
Un brivido di rabbia fece
tremare Lavi, che si trattenne dal picchiarlo solo per non lasciare il
ragazzo
convulsamente attaccato alla sua maglia.
-io salgo…-
Allen si staccò dal suo petto
e continuò a salire le scale, avrebbe voluto seguirlo, ma non poteva
lasciare
un idiota come Kanda in libertà senza sapere nulla.
Aspettò di sentire il ragazzo
chiudere il portone di casa per spiegare al giapponese il resoconto
della
giornata.
-Kanda…Allen ha…-
Rimase in silenzio per un po’
e il moro lo guardò scocciato, scendendo qualche scalino con l’evidente
intento
di andarsene per la lentezza del rosso.
-avrà scoperto di essere un
ermafrodito…-
Lavi serrò i pugni e abbassò
la testa, come se si sentisse colpevole per le parole che stava per
pronunciare, come se anche solo pensarle facesse male, come se
ammettendolo ad
alta voce sarebbe diventato tutto più reale.
Che razza di uomo era? Non
era capace neanche di dirlo, come poteva pretendere di aiutare il
diretto
interessato?
-ha un tumore-
Kanda si bloccò qualche
scalino più in basso del rosso e sgranò gli occhi. L’incredulità nei
suoi occhi
era qualcosa che non tutti potevano vantarsi di aver visto, ma Lavi
avrebbe
preferito non vederla. Avrebbe voluto che rimanesse il Kanda irascibile
di
sempre e soprattutto avrebbe voluto che Allen non fosse il protagonista
di
quella conversazione.
*
Il rosso scivolò per la
parete, accasciandosi sugli scalini coprendosi il viso con le mani. Si
sentiva
così un incapace! Si sentiva inutile, stupido e non gliene importa
neanche
nulla perché il dolore era così intenso da coprire tutto.
Allen non usciva dal letto da
quattro giorni. Non era che piangeva o cose simili, rimaneva solo
disteso
persino con gli occhi aperti, a riflettere, pareva. Se gli chiedevano a
cosa
stesse riflettendo guardava l’interlocutore e sorridendo con poca
convinzione
rispondeva che stava pensando alla vita.
Non mangiava, beveva a
malapena e non si riusciva ad avere una conversazione sensata.
Kanda, Lenalee e Komui lo
venivano a trovare spesso, con diverse scuse, dal latte che mancava a
un libro
preso in prestito che dovevano restituire, ma nulla sembrava toccarlo.
Nemmeno Lavi.
Era come se stesse
rielaborando l’informazione ricevuta e c’era qualcosa che bloccava la
comprensione dei dati. Era terribilmente frustrante.
Lavi lo aveva trovato una
volta in bagno a fissare nello specchio il segno rosso a forma di
fulmine che
si estendeva per la guancia. Il rosso lo aveva abbracciato da dietro e
gli
aveva scostato i capelli dal viso, per renderlo più visibile, e lo
avevano
guardato insieme per qualche minuto.
-il segno rosso sulla fronte
sembra una stella…-
Gli aveva detto, baciandogli
il collo.
-questa sembra una lacrima-
Aveva replicato lui,
toccandosi la guancia sinistra, rabbrividendo.
Lavi lo aveva stretto ancora
di più, godendosi del calore del più piccolo come se fosse stata
l’unica cosa
logica e inevitabile da fare in quel momento. Erano rimasti così, in
piedi
davanti allo specchio, per diversi minuti, fino a quando una lacrima
salata non
aveva seguito il percorso della lacrima rossa sul viso di Allen.
*
Una notte Lavi fu svegliato
dall’agitazione del più piccolo, che si dimenava e mugugnava nel sonno.
Cercò
di farlo svegliare dolcemente, ma Allen, forse aveva sentito il tocco
della
mano del rosso sulla spalla, si destò all'improvviso e con uno sguardo
spiritato.
Il più grande lo abbracciò,
come sempre era l’unica cosa che potesse fare, e cercò di capire cosa
lo avesse
agitato così tanto.
Allen cominciò a delirare
parlando di Noè, di carte che scrivono il destino, di canzoni per
pianoforte
maledette e di uomini col cilindro che stavano venendo a prenderlo.
Continuò per un po’ a parlare
di assassini e maledizioni, di qualcuno che lo stava venendo ad
uccidere.
Dopo un po’ si calmò e si
rese conto delle sciocchezze che stava dicendo.
Lavi non riuscì più ad
addormentarsi, ossessionato da stridenti canzoni al pianoforte.
*
Allen girava il cucchiaio nel
piatto con il brodo come se solo con la forza del pensiero avrebbe
potuto
inghiottirlo e il rosso lo guardava ansioso di vederlo mettere in bocca
qualcosa.
-forse…ho fatto qualcosa di
sbagliato…-
Lavi si costrinse ad assumere
un’espressione stupita e strinse dentro ai pugni tutto il dolore che la
sua
espressione gli stava procurando.
-non dirlo neanche!-
-allora perché…?-
In questi momenti si chiedeva
a cosa fosse servito leggere così tanto, sprecare tutto quel tempo
sopra ai
libri, studiando teorie e analisi, se non sapeva rispondere a nessuna
delle sue
domande.
-…non lo so, Allen. So solo
che non è una tua colpa, di questo puoi essere sicuro-
Lavi disse di aver sentito
distintamente un - è la maledizione-, ma quest’ultimo smentì
categoricamente.
*
Lavi si sedette in modo poco
elegante sul divano, occupandone più della metà, e rigirò il vino
dentro al
bicchiere con aria annoiata. Guardò il nonno parlare di non capiva bene
qualche
paese straniero con un uomo che aveva i baffi stile Hitler e Komui che
cercava
di minacciare qualunque uomo cercasse di parlare con Lenalee. Solita
serata.
L’unico elemento di disturbo nel loro quotidiano equilibrio era un uomo
con i
lunghi capelli rossi che aveva bevuto da solo due bottiglie di vino e
aveva
provato ad attaccare bottone con ogni singola donna presente nella
sala,
esclusa Lenalee ovviamente.
Era un certo Crossqualcosa,
amico di vecchia data del panda. Non capiva bene come un uomo del
genere
potesse avere contatti con il vecchio, ma col tempo aveva imparato ad
ignorare
le strane amicizie del nonno.
Sentì il divano abbassarsi
sotto il peso di un altro corpo e quando si girò incontrò una testa
bianca e
uno sguardo amichevole.
Era Allen Walker, il suo nome
si che lo ricordava, era venuto insieme a quel Cross e Lavi non gli
aveva tolto
gli occhi di dosso per tutta la cena.
Come fai a non essere
incuriosito da un ragazzo dai capelli bianchi?
-ma fa sempre così…?-
Disse, indicando l’uomo
spaparanzato su una poltrona a ingurgitare vino e parlare con una donna
dai
capelli biondi che lo stava palesemente ignorando.
-oggi è addirittura
tranquillo-
Lavi fischiò stupito e si
mise in una posizione più adatta al nipote del padrone di casa.
-allora Allen…perché sei qui
con lui? Ti prego dimmi che non siete parenti!-
Il ragazzo sorrise, ma il
rosso poteva giurare di aver visto un’ombra di terrore attraversare il
suo
viso.
-assolutamente no! In questo
momento Cross è il mio tutore-
-in questo momento?-
Quello strano ragazzo lo
incuriosiva, era una persona con un passato, glielo si leggeva in
faccia, e il
suo animo curioso doveva assolutamente conoscerlo.
Allen quella sera gli
raccontò della sua infanzia, del fatto che era un orfano che un uomo di
strada
aveva raccolto dalla strada, ironia della vita. Raccontò del fatto che
Mana,
così si chiamava il pagliaccio che lo aveva preso con se, era un padre
per lui
e che morì qualche anno dopo averlo preso con se. Venne a sapere che
Cross lo
aveva adottato dopo la morte di Mana, per esaudire la sua ultima
volontà.
Raccontò tutto molto velocemente e con pochi sentimentalismi, si
concentrò
soprattutto su tutte le cose illegali che Cross gli aveva insegnato e
su come
lo aveva fatto diventare un maestro della truffa e fece piegare in due
dalle
risate il rosso quando raccontò di tutte le angherie che subiva.
Dopo quella sera ne seguirono
altre e Lavi scoprì che Cross stava minacciando di non passare più i
viveri al
figlio adottivo per oscuri motivi e che quindi si stava cercando un
lavoro e
una casa per lasciare definitivamente la vita che quell’uomo gli faceva
condurre. Più tardi venne a sapere dal panda che Cross stava cercando
di far
allontanare Allen da lui, perché il vagabondaggio non poteva più fare
parte
della vita di un ragazzino.
Fu solo una frase, ma cambiò
il suo mondo.
-se vuoi puoi venire a stare
da me-
*
-Lavi, cos’è quella carta
appesa al frigo?-
-sono i miei sentimenti per
te-
Allen arrossì e si chiuse in
bagno borbottando qualcosa, ma per tutto il pranzo osservò di soppiatto
la
carta, sorridendo ogni volta.
*
Lavi si svegliò, trovando
metà del letto vuoto e il cielo ancora scuro.
Si alzò e barcollando si
avvicinò alla fioca luce che vedeva provenire dalla sala. Allen era
seduto per
terra, illuminato dalla debole luce della lampada da terra, circondato
da carte
da gioco sparse per tutta la sala.
Assi, picche, quadri, cuori.
Il pavimento era disseminato di carte.
-Allen…-
Stava mettendo le carte
davanti a lui in un ordine senza logica, giocando ad un gioco inventato
dalla
sua mente e privo di senso.
Quel giorno Lavi pensò
seriamente che lo stava perdendo. Ebbe un brivido di terrore quando i
suoi
occhi incrociarono quelli vuoti di Allen, occhi privi di speranza.
Stava osservando il direttore
d’orchestra di un macabro cimitero fatto di sentimenti morti.
*
-cosa hai fatto all’occhio?-
Il ragazzo indicò col un
cenno del capo l’occhio destro del rosso, che lo guardò sorridendo, già
pronto
a quella domanda.
-ferita di guerra!-
Allen lo guardò male e gonfiò
le guance.
-non dire cavolate, tu non
sei stato in guerra-
-ti dico che è una ferita di
guerra-
Il ragazzino cercò di capirne
di più, ma Lavi rimase sul vago.
*
-non so più cosa devo fare…e
la cosa più brutta è che puoi lottare, puoi arrenderti, puoi piangere,
ridere,
disperarti o urlare così tanto da perdere la voce, ma la fine non può
cambiare.
È troppo tardi e questo è così…è una cosa troppo immensa da accettare!
Le sue
cellule ignorano il suo volere e questo fatto è inconcepibile per me.
Non
riesco ad accettarlo. Non posso accettarlo. Non devo accettarlo!-
Kanda era davanti a lui, con
la faccia contratta e l’evidente voglia di scappare, di allontanarsi da
quelle
confessioni piene di dolore e verità.
-sta morendo…-
Era troppo tardi vero?
Era stato assalito dal
peggiore dei destini e non poteva fare nulla per lui.
L’unica certezza che aveva
era che nella vita si muore prima o poi e stava vacillando anche
quella. Perché
aveva capito che era una certezza incredibilmente crudele e impossibile
da
accettare.
I giorni passavano ed Allen
era sempre più sereno, più consapevole e più malato.
Ogni tanto Lavi lo trovava a
fissare il vuoto con gli occhi lucidi e quelli erano i momenti più
terribili
che aveva mai passato in vita sua, era come essere accoltellato
ripetutamente e
con sempre maggior vigore, ma Allen sembrava essere tranquillo e in
pace con
l’universo.
Lavi questo non lo capiva.
Lo osservava giorno dopo
giorno ed i suoi occhi erano sempre più spenti, più vacui: sembravano
fatti di
vetro, ma allo stesso tempo, se guardava bene in profondità, riusciva a
percepire una profondità che lo spaventava, perché non la comprendeva.
Vedeva in lui la faccia del
sonno eterno. Era pesante andare avanti; era logorante il tumore, anche
solo
richiamarlo alla mente, perché sapeva troppo di morte.
Era proprio una maledizione.
Continuava a guardarlo e non
riconosceva più il ragazzino simbolo della gioia di vivere perché ormai
non
aveva più nulla di cui esultare e, invece, scopriva un uomo. Un uomo
già troppo
vissuto, con il classico aspetto di chi conosceva bene tutti i perché e
i come
o, almeno, aveva l’aria di conoscerli.
Incrociava gli occhi con i suoi
e vedeva l’immensità, vedeva una profonda conoscenza che non gli era
dato di
capire. Gli parlava e ascoltava non i discorsi strazianti di qualcuno
in
procinto di morire, ma le penetranti considerazioni di chi vedeva tutto
nel
nulla e il nulla nel tutto. Se questa frase, poi, aveva mai avuto un
senso.
Però lo guardava e pensava
che non avrebbe voluto essere in nessun altro posto. Gli parlava e
pensava che
gli voleva stare accanto. Gli stringeva la mano, nel vano desiderio che
gli
fosse di un minimo di conforto, e pensava che…non voleva che morisse.
Ma in
tutto quel dolore e quella tristezza capì che per lui, quel ragazzino
dai
capelli bianchi e gli occhi grigi, malato terminale, era la cosa più
importante
della sua vita.
Il caos lo invase e
l’universo si crepò dentro il suo essere quando pensò che il suo ultimo
sorriso, sul letto di morte, era probabilmente per lui il più bello che
gli avesse
mai visto.