Serie TV > Chicago Fire
Segui la storia  |       
Autore: AlexEinfall    15/03/2015    1 recensioni
[Casey/Severide] Prima mia long-fic su questa coppia, che credo abbia un grosso potenziale.
Severide affronta Casey circa il suo comportamento sconsiderato, ma le cose non vanno mai come ci si aspetta. Questo è l'inizio di qualcosa oppure le resistenze e l'antico astio ostacoleranno la loro strada?
Un giorno qualunque alla Caserma 51 è destinato a cambiare ogni cosa.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
14
Le memorie non vogliono bruciare
Pt II



  Chiudendo la porta dell'ufficio dietro di sé, Kelly non fu certo di cosa pensare. Una parte ben radicata della sua mente gli urlava di non ascolare qualunque cosa Nancy Casey volesse dirgli. Non importava ora fosse il compagno di Matt, il biondo rimaneva una delle persona più riservate che conoscesse. Era cresciuto assorbendo quel bisogno di intimità, mascherando tutto con un volto cordiale che dicesse al mondo che tutto fosse al suo posto. Matt cercava di convincere le persone attorno a lui che non vi fosse alcun scheletro nel suo armadio, nulla di torbido dietro la facciata da ragazzo per bene. Ora, in qualche modo, Kelly sentiva di star tradendo la sua fiducia.
   Quando si concesse di guardare Nancy, vide il suo volto contratto in una profonda preoccupazione e in qualcosa che, vagamente, ricordava il rancore che Matt le portava. C'era una ferita nascosta, intuì, dietro tutto quel risentimento reciproco.
  Forse Matt aveva bisogno che questa conversazione avvenisse, forse grazie a Nancy lui avrebbe saputo come aiutarlo. Qualunque il problema fosse. In fondo, una semplice conversazione non poteva arrecare danno.
  «Signora Casey-»
  «Oh, per favore, chiamami Nancy.»
  Severide rispose al suo sorriso teso con un cenno del capo. Non voleva ammetterlo, ma sentiva una nota di disagio che non aveva nulla a che fare con qualunque cosa la donna volesse dirgli. Era il ragazzo di suo figlio, e in tutta onestà non aveva idea di come sentirsi nei suoi confronti, o di come avrebbe potuto sentirsi lei. L'unica volta che era entrato nella cerchia familiare di qualcuno, non era finita molto bene. Era certo che la famiglia di Renee continuasse a odiarlo.
  «D'accordo, Nancy» concesse con un debole sorriso. «Cosa posso fare per lei?»
  La donna strinse le mani, massaggiandole ansiosa, fino a sospirare e decidersi a guardarlo negli occhi. «Come amico di Matt, credo sai che i nostri rapporti sono un po'...difficili. Temo che se qualcosa lo turbasse, non me ne parlerebbe. In fondo, non posso biasimarlo, giusto?»
  Kelly si massaggiò il collo, cercando nella superficie della scrivania un appoggio.
  «In ogni caso» tagliò corto Nancy, facendo qualche passo avanti per colmare le distanze. «Ho saputo troppo tardi quello che gli è accaduto. È ironico...mi sono allontanata per proteggere lui e Christie, e... Voglio solo sapere come sta.»
  Il moro ponderò cosa dire. Dal tono e dallo sguardo torturato della donna intuiva che la colazione non fosse andata esattamente bene. Annotò mentalmente di chiamare Matt -dandogli il tempo di metabolizzare gli eventi. «Sta meglio ogni giorno.»
  «Non è esattamente una risposta» constatò Nancy con disappunto.
  «Ha ragione» concesse Kelly, staccandosi dalla scrivania. Non gli restava che dire la verità. Onestamente, c'era qualcosa nel modo di porsi di Nancy che lo innervosiva, come se le sue domande nascondessero un secondo fine. Aveva già visto quel tipo di sguardo, quello di chi attende di sentire esattamente le parole che vuole sentire. Non dubitava che la donna fosse realmente preoccupata per il figlio, ma gli sembrava volesse una risposta che ne allegerisse la coscienza. «Quello che è successo a Matt è grave e poteva essere anche molto peggio. La sua salute sta migliorando rapidamente. Non potrebbe tornare al lavoro, se non fosse così.»
  Studiò attentamente la reazione di Nancy, che distolse un attimo lo sguardo, persa in qualche riflessione mentre le labbra si muovevano a rincorrere i pensieri.
  «Mangia bene?»
  Kelly sbattè le palpebre, incapace di capire da dove venisse quella domanda improvvisa.
  «Può sembrare una domanda sciocca» si affrettò a dire Nancy, sventolando una mano in aria prima di ricongiungerla all'altra. «L'ho visto dimagrito.»
  «Non deve preoccuparsi. Ha perso molta massa muscolare per la lunga degenza e altre questioni riguardanti le ferite. Il suo metabolismo è cambiato, ma ci sta lavorando.»
   Nancy sorrise tristemente, prima di annuire e risistemarsi la borsa sulla spalla. Sembrava sul punto di congendarsi.
  «Nancy» la richiamò Kelly, avvicinandosi alla donna, che sembrò indietreggiare d'istinto verso la porta. «Cosa realmente vuole sapere?»
  Era un rischio braccarla così e per un attimo vide un'ombra di rabbia passarle sul volto, le sopracciglia corrugate e le labbra tese. La donna si rilassò dopo un secondo, sospirando.
  «Kelly, questo deve rimanere tra noi» disse Nancy, guardandosi alle spalle come se temesse di essere udita. Quando finalmente tornò a guardare Kelly, i suoi occhi erano tristi e fugaci. «Non so bene cosa sia successo, tutto quello che Christie mi ha detto è che Matt sembrava turbato da un po' di tempo. Intendo, prima di...dell'incidente del ponte. Sembra che un suo amico del liceo sia morto di recente. Lui...non parlerà mai di questo con me.» Nancy non gli diede tempo di assorbire le sue parole, congiungendo le mani al petto in preghiera. «Lui ha bisogno di parlarne. Per favore, tu sei suo amico, fa qualcosa.»
  «Lo farò» mormorò Kelly, gli occhi spalancati in sorpresa e stordimento.
  Notò appena Nancy uscire, salutandola di riflesso. Non riusciva a collocare quella nuova informazione, come se quel pezzo appartenesse a un puzzle totalmente diverso.
  Possibile che Matt non gli avesse parlato di una cosa che, a quanto pareva, lo turbava tanto? Sedendosi sul bordo della brandina, le mani al volto in riflessione, si rese conto che quel pezzo in realtà si incastrava troppo bene con altri. Semplicemente, lui voleva rifiutare il quadro generale.
  Da una parte c'era Matt e la strana inquietudine che a volte lo assaliva, dall'altra la morte di un ragazzo al quale, apparentemente, teneva molto. Spalancò gli occhi quando ricordò la conversazione avuta qualche giorno prima al belvedere.

 «Quando ero alle superiori avevo una storia...
E' stato il primo con cui sono stato attivo. L'unico...
Avevo paura di cosa avrei provato se lo avessi rifatto.»


  Mentre le parole gli tornavano alla mente, apparivano sempre più tristi e dolorose, gli occhi di Matt più liquidi di quanto ricordasse, mentre le pronunciava a fior di labbra.
  Scattò in piedi, preso da un'improvvisa agitazione. Aveva bisogno di far quadrare le cose, di affrontare Matt e sapere la verità.
  Percorrendo i corridoi della Caserma, senza alcuna reale meta, gli si paravano dietro le palpebre immagini continue. Gli sembrava di rivedere il volto sconfitto e scosso di Matt, lì sul tetto di quello stesso edificio, e il modo in cui le sue mani tremavano mentre gli porgeva il proprio distintivo.
  Fu colto da quella peculiare sensazione di euforia e stordimento di chi riesce finalmente a collegare li eventi, dando loro un senso che li faccia apparire più coerenti.
  Abbandonandosi a questa sensazione, cercò di ricacciare in fondo alla mente la percezione di essere stato tradito: aveva posto piena fiducia in Matt, possibile che lui non potesse fare lo stesso?
  Fu strappato al proprio rimuginare quando, svoltando un angolo, quasi si scontrò contro Boden.    L'uomo lo guardò con sospetto, intuendo la sua agitazione.
  «Tutto ok, tenente?»
  «No. Sì-» si precipitò a rispondere, guadagnandosi uno sguardo scettico. Si ricompose e chiese:  «Capo, posso assentarmi per mezzora? Non ci vorrà molto.»
   «Kelly-»
   «E' importante» disse, intuendo dove Boden volesse finire. Era certo di aver perso punti agli occhi dell'uomo, in seguito a tutta la storia dell'infortunio al collo, ma ora non aveva importanza.
  Il Comandante sembrò ponderare le sue magre ragioni, quindi rilasciò un pesante sospiro, chiudendo un attimo gli occhi. «Vai» acconsentì. «Severide» aggiunse quando il tenente era ormai a metà corridoio. «Mezzora, intesi?»
  Kelly annuì, mentre sfilava di tasca il cellulare. Giunto all'auto, aveva ormai già capito che Matt non avrebbe risposto alle sue chiamate. Ingoiando l'allarme che gli pulsava nella mente, poiché sentiva per istinto che qualcosa non andava, si ricordò che Shay non era di turno.
  Già dietro al volante, la chiamò, tamburellando le dita della mano libera sulla gamba.
  «Casey è a casa?» chiese, senza darle il tempo di rispondere.
  «Ciao anche a te. Comunque, no. È tornato quando mi sono svegliata ed è uscito poco dopo.»
  «Ti ha detto dove andava?» chiese, malgrado sentisse fosse inutile.
  «No...Qualcosa non va?»
  «Non lo so. Chiamami se torna.»
  Agganciò rompendo a metà il saluto di Shay, o forse altre domande. Chiuse un attimo gli occhi per ricomporsi e, quando li riaprì, una rivelazione gli attraversò la mente. Avviò il motore e si immise in strada, certo che ci fosse solo un posto dove Matt potesse nascondersi.





  
   Matt misurò a grossi passi la linea di confine del piccolo campo da baskett, adocchiando l'apertura tra la recinsione, la strada oscurata da uno spesso muretto. Sbuffò diverse volte, prima di abbandonarsi alla panchina. Strinse tra le mani il pallone, trovando conforto nella sensazione della ruvida pelle sotto i polpastrelli. Cominciava ad arrendersi all'idea che Edward non si sarebbe fatto vivo, quando un movimento catturò la sua attenzione. Per nulla intenzionato a smascherare la sua ansiosa attesa, rimase seduto a guardare a terra, senza riuscire a reprimere un sorriso quando la lunga ombra si proiettò sul cemento.
   Senza preavviso, lanciò la palla nella direzione del nuovo arrivato, mormorando: «Sei un codardo.» Alzò gli occhi al rumore dell'oggetto che veniva frenato nella sua traiettora, compiaciuto che Edward l'avesse colto senza batter ciglio.
   «Sarebbe?» chiese il moro, alzando un sopracciglio in quel modo che Matt trovava esilarante.
  Si alzò dalla panchina e stirò le braccia sulla testa, fingendosi indifferente. «Hai paura di perdere contro di me.»
  Edward rise, palleggiando un paio di volte per effetto, prima di rimandargli il lancio. «Nei tuoi sogni, Casey. Sono pronto a stracciarti anche bendato, sempre che tu non voglia tirarti indietro.»
  Per tutta risposta, Matt ghignò e si rigirò il pallone tra le mani, prima di correre verso il canestro e mettersi in posizione. La partita non durò molto, entrambi pressati dal calare del sole, mentre le loro ombre si allungavano fino a toccare la recinsione e curvarsi sul muretto.
  Quando giunsero al punteggio concordato, Matt poggiò le mani alle ginocchia e riprese fiato, madido di sudore e con i primi segni di stanchezza nei muscoli.
  «Te l'avevo detto, Casey» lo rimbeccò Edward, godendosi la propria vittoria.
  Estrasse dallo zaino una bottiglia d'acqua, prendendo grossi sorsi tra un respiro e l'altro.
  Matt sapeva che Edward era un giocatore migliore di lui, anche se mai glielo avrebbe detto. A suo favore, la natura gli aveva dotato braccia lunghe e gambe scattanti, insieme a una buona altezza e spalle larghe. Lo raggiunse e gli strappò la bottiglietta, rinfrescandosi con essa. Ne rovesciò una manciata sul capo, sbattendo le ciglia per debellare le gocce tra esse intrappolate.
  «Perché diavolo non entri in squadra?» chiese alla fine, asciugandosi il volto con un lembo della t-shirt. 
  Le mani che si posarono sui suoi fianchi lo presero alla sprovvista, impedendogli di reprimere una breve risata. Edward sorrise di quel suo sorriso sbieco e si sporse per baciarlo.
   «Perché odio il gioco di squadra» mormorò sulle sue labbra. «E perché mi piace troppo vederti giocare.»
   «Sì?» lo istigò Matt, circondandogli la vita con un braccio per attirarlo a sé.
   «Oh sì...quando diventi tutto sudato che la maglia ti si attacca addosso, per non parlare dei pantaloncini...Dio, quanto ti stanno bene!»
 Per sottolineare l'affermazione, Edward gli afferrò il sedere e lo baciò ancora.
 In sei mesi di relazione nascosta, di incontri in angoli bui della scuola o nei bagni, lontani in pubblico, troppo vicini in privato, Matt non credeva di potersi stancare di quelle labbra e quella lingua, che portava sulla punta il retrogusto di caffé alla vaniglia e sigarette leggere.
   «Dimmi che non finirà» mormorò quando Edward si staccò da lui. «Dimmi che non è solo una stronzata da ragazzini, che vuoi davvero me.»
  Il moro sorrise e scosse la testa divertito. «Matty, non ho bisogno di un ragazzo per divertirmi.»
   «Che vuol dire?»
   «Vuol dire che questo» disse, indicando prima sé poi Matt. «Questo è importante.»
  "E' per sempre?" Avrebbe voluto chiedere Matt. Non lo fece, raccogliendo le sue cose e infilando il pallone nella sacca. Non espresse quella domanda, perché quando tutto ciò che hai è appeso ad un filo così sottile, sferzato da mille ostacoli e nemici, certe domande è meglio non trovino voce.
 "E' per sempre finché ci siamo noi", pensò, guardando le spalle ritte di Edward allontanarsi verso il tramonto. Ai suoi piedi la lunga ombra recedeva, fino a scomparire.



  Quella che una volta era casa sua, ora sembrava solo un altro cumulo di macerie. Bizzarro come, in tutti quegli anni di servizio nei Vigili del Fuoco di Chicago, non avesse mai pensato al destino di quegli edifici in fiamme. Salvavano vite, scrivevano i rapporti e tornavano alle loro case, senza mai curarsi che lì fuori c'erano persone che non avevano più un posto da cui tornare. Si facevano ospitare da amici, come lui, oppure andavano a vivere da parenti, fidanzate e fidanzati, in hotel o piccoli motel, sotto ponti, in tende erette ai confini della civiltà. Nessuna di quelle vittime avrebbe più riavuto la propria casa. Matt non aveva mai considerato tutto ciò, o quanto devastante quella sensazione potesse essere, non finché le proprie gambe lo avevano portato finalmente in quel luogo.
  Entrò con cautela, sorpassando e strappando i nastri che sconsigliavano l'ingresso in quel luogo. Si chiese chi mai, eccetto lui, volesse tornare lì.
  Fu quasi certo che qualcuno nella casa accanto aprì la finestra e lo scrutò; forse uno dei suoi vecchi vicini, ma non se ne curò.
  Nella sua mente tornavano a sovrapporsi le immagini, mentre attraversava per inerzia le stanze. C'era la cucina dove Voight aveva fatto nascondere della droga e dove gli occhi di Hellie si erano spalancati nel terrore, di fronte ai due agenti. C'era il divano dove aveva consumato dozzine di birre davanti a qualche partita, film o programma futile, lasciando scivolare via il peso della giornata. C'era il muro contro il quale Kelly lo aveva spinto, baciandolo con forza.
  Lì dove erano mobili, coperte, libri, foto e tutto ciò che rende un edificio una casa, ora c'era solo distruzione. Matt respirò a fondo, poggiandosi al muro e scivolando piano a terra. Le ginocchia sollevate, vi poggiò sopra il mento, scrutando il muro annerito come per cercare una spiegazione.
  Un telo di plastica era stato tirato sul tetto, per impedire alla pioggia e al vento di distruggere le prove. Lo sentiva gonfiarsi e sbatacchiare come un uccello in gabbia, lo schioccare della plastica come una frusta sospesa nel cielo.
  Era tutto così strano e irreale, eppure ogni cosa troppo familiare.
  Chiuse gli occhi e rivide il campo ai bordi del quartiere dove era cresciuto. L'erba incolta che spuntava ostinata dal cemento, crepato e macchiato al sole, il muretto sgretolato dove le lucertole si scioglievano in estate e le formiche correvano in primavera. Fu allora che riconobbe la sensazione che ora lo attanagliava, quel senso di perdita. Il campetto non era stato più  lo stesso dopo la partenza di Edward, come se qualcuno avesse sdradicato il suo stesso significato, rendendolo solo un luogo grigio e abbandonato.
  La sua casa non era più una casa.
 Quando rilasciò un lungo respiro, lo sentì umido e pesante.
 «Hai dei vicini molto curiosi.»
  Matt alzò la testa di scatto, ma appena incontrò gli occhi preoccupati di Kelly, riportò lo sguardo sul muro e scrollò le spalle.
  «Qualcuno ha chiamato Antonio e gli ha detto che un uomo era entrato qui» continuò Kelly, malgrado fosse chiaro a Matt non importasse. Fece qualche passo avanti, ombreggiando il biondo con la propria figura. «Ero di strada, così-»
  «Non mi interessa» sbottò Matt. Non credeva a una sola parola: sapeva per certo che Kelly sapesse dove trovarlo e non volesse ammetterlo. Il come gli sfuggiva, ma si figurò che al posto suo quello sarebbe stato il primo luogo che avrebbe controllato. «Sto bene, Kelly.»
   «Lo vedo» mormorò il moro, poggiandosi al muro. Matt sentì l'intonaco sgretolarsi e finire sulla propria spalla. «Insomma, se non stessi bene non saresti nella tua vecchia casa bruciata, seduto a terra, a guardare il vuoto. Ho ragione?»
  Matt sbuffò una risata, sentendo improvvisamente la necessità di massaggiarsi le palpebre. Gli occhi bruciavano nell'aria stantia e tossica della casa.
  «Vuoi partecipare?» chiese alzando il mento, senza guardarlo in volto.
  Lo vide scrollare le spalle e sedersi accanto a lui. Stettero a lungo così, spalla a spalla, senza dir nulla. Matt lo sorprese a scrutarlo un paio di volte, come se attendesse di vederlo dar di matto o, peggio, piangere. Non accadde, perché Matt non era affatto triste o addolorato: si sentiva solo estraneo, come se guardasse se stesso da lontano. La testa era così leggera da fargli male.
   Il crepitio della polvere sotto le scarpe di Kelly, mentre stendeva le gambe, preannunciò la sua voce sottile. «Ho parlato con tua madre.»
  Matt voltò la testa incredulo, ma la rabbia si trasformò in una risata isterica. Qualcosa gli diceva che non sarebbe dovuto essere sorpreso. Non disse nulla, aspettando che Kelly si adattasse alla sua reazione e continuasse. In verità, non si fidava abbastanza della propria voce, o della possibilità che le parole oltrepassassero il groppo alla gola.
  «Come si chiamava?»
  La domanda lo congelò tra la confusione e la paura, intuendo vagamente a chi si riferisse. Lo guardò interrogativo e gli occhi di Kelly sembrarono concentrati.
  «Il ragazzo di cui mi hai parlato l'altra notte...è lui, vero? E' lui che è morto.»
  «Hai parlato con lei, sai già tutto» sbuffò Matt. Era lievemente sorpreso della propria reazione; malgrado il cuore avesse cominciato a battere pugni contro il proprio petto, una punta di sollievo cominciava a formarsi alla base della mente.
  «Non mi ha detto nulla di specifico» sottolineò Kelly.
  Matt lo guardò ed ebbe conferma dei suoi sospetti: era irritato dalla sua mancanza di risposte e dalla continua elusività. Sospirò, reclinando la testa contro il muro. Ancora intonaco che si sgretolava, rotolando fino al pavimento.
   «Edward Flick. L'ho conosciuto alle superiori. Siamo stati insieme dieci mesi.»
   Kelly rimase in silenzio, ascoltandolo con un'espressione che Matt non riusciva a collocare da nessuna parte. Gli sembrò, ora che aveva cominciato, che le parole venissero da sé, spingendo per liberarsi nell'aria di quella casa ora irreale.
  «Quando avevo tredici anni tutti i miei compagni cominciavano a correre dietro le ragazze, a parlare delle mille cose che volevano fare con loro. Qualcuno aveva già un po' di barbetta, cambiavano la voce e diventavano più grossi e muscolosi. Io ero basso, magro e glabro come un bambino.»
  «Ti prendevano in giro.»
  «Spesso e volentieri» rispose Matt con una risatina. «Bhe, alle superiori le cose sono iniziate a cambiare. Immagino che la pubertà fosse finalmente arrivata anche per me. Ho iniziato a fare palestra e ho imparato a guadagnarmi la simpatia degli altri. Potevo essere più piccolo e avere una faccia da ragazzina, ma sapevo come far ridere gli altri. Quando hanno iniziato a capire che avevo i coglioni di prendere a pugni uno più grosso di me, hanno smesso di pensare di potermi prendere in giro.» Si fermò, lasciando che un sorriso malinconico gli aleggiasse sul volto. Quindi si schiarì la voce e distese le gambe intorpidite, prima di riportarle al petto. «Era facile non guardare troppo a lungo gli atleti, fingere di apprezzare le cheerleder e tutto il resto. Fingevo anche con me stesso, ma non volevo pensarci: sai come si è a quell'età, è facile distrarsi. Alle ragazze piacevo perché ero gentile e, quando sono entrato nella squadra di basket, avevo più o meno tutto quello che volevo. Poi...è arrivato Edward e ha sconvolto tutto. La prima volto che l'ho visto ho capito che non potevo più distogliere lo sguardo e non arrossire. Lui non era affatto come me.» Matt si voltò e lanciò un'occhiata a Kelly. «Ti somigliava, sai?» appena abbe pronunciato le parole, se ne pentì. Malgrado la facilità con cui potessero essere malinterpretate e recepite, Kelly non accennò a replicare o a mutare la sua espressione, invitandolo a continuare. Il biondo sospirò e poggiò il gomito sul ginocchio, massagginado distrattamente i capelli. «Dopo poco cominciarono a farsi sentire i primi rumori: si diceva che fosse una checca, che facesse lavoretti nei bagni senza nemmeno farsi pagare e cose simili. Ovviamente, grossa parte non era vera, anche se lavoretti ne aveva fatti. Comunque, Edward non sembrava per nulla toccato dalle chiacchiere e dalle offese, come se in fondo non importasse. L'unica cosa che voleva era tenere tutto nella scuola, perché suo padre era uno di quei padri padroni che vogliono i figli perfetti e tutto. Non so come è iniziata esattamente, ma io lo guardavo sempre di più e lui non era stupido, e così siamo finiti a incontrarci in giro per la scuola. Nessuna dichiarazione o altro, solo incontri e un po' di sesso impacciato.»
  «Ma non era solo questo» constatò Kelly.
  Matt lo guardò a lungo, poi annuì e gli rivolse un breve sorriso. «Non era solo questo, no. Era la mia prima cotta vera e propria, il mio primo ragazzo. Ero confuso, certo, ma mi bastava stare con lui e tutto il resto non mi importava. Non mi facevo troppo domande perché era lui e...diamine, ero un ragazzino, volevo solo divertirmi e fare sesso. Le domande sono venute dopo...ma-»
  «E' un'altra storia?» lo canzonò Kelly.
 «Qualcosa del genere» concordò Matt, sorridendo del proprio clichè. «Credo che le cose sono iniziate a diventare più importanti da quando abbiamo cominciato a vederci al campetto. Era un campo abbandonato, uno di quelli sparsi per il quartiere dove di notte succedono le classiche cose che spingono i genitori a dire "non andare lì di notte", sai? Ogni tre giorni ci vedevamo lì, giocavamo, fumavamo e bevevamo birra. Lì non c'era sesso o incontri per occasione. C'era solo la voglia di vederci e stare insieme.»
  Matt lasciò scivolare il silenzio tra loro, finché Kelly capì che la storia era vicina alla fine e, grattandosi la nuca, chiese: «Dimmi che non finisce male.»
  «Mi dispiace» mormorò Matt, cercando di non badare alla gola secca o al fatto che l'umorismo non avesse sfiorato le sue parole. «Alla fine mio padre ci ha scoperti, ha detto tutto al padre, che lo ha mandato in un collegio militare.» Matt respirò a fondo, sorprendendosi di quanto facile fosse raccontare qualcosa che non era mai stata detta, rimanendo un segreto ingombrante anche tra lui e sua madre. Aprì il palmo della mano, disegnandovi sopra cerchi regolari con il pollice dell'altra. «Poco prima dell'incidente del ponte, ho scoperto che era morto. Ricordi quell'articolo sul convoglio attaccato in Afganistan?»
  Kelly annuì, gli occhi spalancati che passavano mentalmente in rassegna i propri ricordi.
  «Edward era lì.»
  Il vento si alzò, frustando con forza il telo di plastica sulle loro teste. Ondeggiando furiosamente per qualche secondo, esso proiettò ombre e luci sul volto di Matt, gli occhi socchiusi.
  Le dita che gli afferrarono con gentilezza e decisione il mento lo fecero sussultare. Kelly gli voltò il viso, fissandolo con tale intensità da farlo tremare.
   «E' okay» mormorò, prima di baciarlo per annegare ogni sua protesta.
  Fu appena uno sfiorarsi di labbra, nel quale Matt scoprì per contrasto quanto secche fossero le proprie. 
   «Voglio dire, è terribile» disse Kelly quando si furono separati, con il fantasma di un sorriso triste sulle labbra. Tutti i pezzi si incastravano: ora riusciva a comprendere cosa avesse spinto oltre il limite Matt, quella notte sopra il tetto della Caserma. Uno strano entusiasmo lo pervase, accellerandogli il battito. Lo guardò negli occhi: non gli era mai apparso così nudo e vero. Capì che quell'euforia che sentiva sotto pelle era tutta lì, in quelle due iridi sincere: Matt si fidava di lui. «Lo amavi?»
  «Sì.»
  Matt spalancò gli occhi alla propria decisione: non era mai riuscito a rispondere a se stesso a quella domanda, ma ora sentì un grosso peso scivolare via, senza far rumore.
  «Allora non lo dimenticherai» disse Kelly, premendo un pollice sulla sua mascella per imprimere le proprie parole. «Io amavo mia madre e la amo ancora. Non andrà mai via.»
  Una lacrima sfuggì all'occhio destro del biondo, poiché il momento era troppo vivo e reale per lasciarla dietro le palpebre. Si lasciò abbracciare da Kelly, sentendo finalmente di aver rimesso a posto qualcosa che non sapeva neanche ne avesse bisogno.
  


   Quella notte Matt rimase sveglio a guardare il soffitto, le braccia dietro la nuca e la testa galleggiante su un mare di sensazioni che non riusciva realmente ad afferrare. Era certo che avrebbe ceduto alla stanchezza e all'intorpidimento che la giornata, con il suo carico emotivo, aveva prodotto. Lo avrebbe fatto, se Kelly non fosse scivolato sotto le lenzuola, fresco di doccia.
  «Boden ti ha strigliato?»
  Il moro rise mentre si sistemava accanto a lui, il suo corpo caldo che prendeva il posto dello spazio vuoto e freddo sul materasso. «Niente di nuovo, no?»
  Sentì la mano di Kelly infilarsi sotto la maglietta e carezzargli il fianco. Quando le dita cominciarono a solleticargli la pelle, Matt gli afferrò il polso e lo guardò negli occhi. «Non voglio fare sesso.»
  Kelly si sporse e lo baciò, schiudendo appena le labbra. «Va bene» mormorò.
  Matt si rilassò e lasciò andare la presa sul suo polso, sorridendo quando Kelly continuò a carezzarlo con calma. Capì in quel semplice gesto e nel respiro calmo sul suo collo, che davvero a lui bastava averlo vicino. Voltò la testa e lo guardò ancora, ritrovandosi a guardare gli stessi occhi con i quali era cresciuto come vigile, quei chiarissimi occhi che sapevano diventare cobalto per la furia, assorbire il colore del cielo in una giornata di sole o delle acque gelide del fiume d'inverno. Passò alle labbra, rosee e intense, quelle stesse che rivedeva ridere nel passato, più giovani e tenere, e poi urlargli contro insulti nei loro mille litigi e scontri. Passò l'indice su di esse, sentendole schiudersi al tocco. Quando tornò agli occhi, vide le sopracciglia corrugate in una domanda silente.
  «Non mi ero reso conto prima di quante cose siano cambiate» sussurrò. Non seppe perché, ma gli sembrava di non poter alzare la voce senza turbare l'intimità del momento. «Qualche mese fa a quest'ora eravamo ognuno per conto suo, rimuginando su quanto l'altro fosse un bastardo. E ora eccoci qui.»
  Kelly scoprì i denti bianchi in un sorriso sincero. Posò il palmo sul suo collo, sentendo sotto la pelle il battito regolare del cuore. Lo stesso cuore che aveva immaginato battere con furia nella paura, nella rabbia e in mille altre emozioni.
  «Siamo sempre gli stessi, Matt» disse Kelly, rilassandosi sotto il suo tocco, una mano stretta intorno alla vita del biondo fino a sentire l'osso del bacino in rilievo. «Siamo solo più sinceri e liberi, no? Senza tutte quelle stronzate tra noi e con un po' di buon sesso in più.»
  Matt lo guardò come se non credesse alle sue parole, ma in fondo solo Kelly poteva conoscere quella verità. Lui era cieco di fronte alla realtà di ciò che era, di chi era dopo tutto quello che era accaduto. Kelly era lì per lui, come mai prima, per essere la sua certezza e il suo baricentro. Tutto il resto ruotava attorno allo spazio dei loro corpi. Se Matt si concentrava in quelle iridi, i rumori cessavano, assottigliandosi a una frequenza così bassa da non contare, non davvero.
  «Matt, stai bene?»
  La domanda lo colse di sorpresa, ma riuscì a sorridere e baciarlo.
  «Sto bene, Kel.»
  «Okay.» Kelly si distese sotto le coperte e chiuse gli occhi, mentre mormorava: «Se ci ripensi riguardo al sesso, non svegliarmi. Potrei dormire fino al prossimo turno.»
  Matt rise, voltandosi di schiena. «Ti prendo in parola.»
  «Non ti abituare» mormorò il moro sulla sua spalla.
  Non ci volle molto perché Matt sentisse il suo braccio circondargli la vita e il suo respiro diventare pesante, indicando l'inizio di un quieto sonno.
  Poco dopo avvertì la propria mente scivolare verso la nebbia.   









Nota: Eccoci qui. Scrivere questi due capitoli, soprattutto quest'ultimo, è stato più impegnativo del previsto. Tutta la parte riguardante il racconto di Matt è in parte ispirata a una storia vera, in parte il mio tentativo di spiegare un pezzo del tormento che ha portato Casey ad essere così riluttante all'inizio della storia. Anyway, spero di aver reso l'idea.
A presto, Ax.
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Chicago Fire / Vai alla pagina dell'autore: AlexEinfall