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Autore: TimesNewMozzi    27/03/2015    0 recensioni
Una serie di storie col tutoring di Tonio Cartonio, perché certe cose le si può partorire solamente con l'aiuto di una lunga striscia bianca.
Genere: Commedia, Introspettivo, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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(*plin plon* Questo racconto è, in alcuni punti, volutamente sgrammaticato. Ho inventato un paio di parole per il semplice motivo che suonavano adatte a trasmette l'idea che volevo far passare, ed essendo l'italiano un linguaggio, finché ci si capisce siamo tutti contenti. La seconda persona singolare è voluta, l'idea è quella di una sorta di ramanzina interiore ma non sta a me interpretare il racconto, che sia il protagonista o qualcun altro a parlare non importa realmente. Buona lettura. )

 
Attento alla porta.


Afferri la maniglia in acciaio, tiri, saltelli, spingi. Tirarsi sul treno da terra è sempre spiacevole, soprattutto se decidi di non alzare i piedi come i semplici mortali ma cerchi di salire fiondandoti come un masso catapultato da un trabucco medioevale sfruttando la maniglia di acciaio al centro della porta.
D’altronde, esisteranno pure per un motivo, no?
Ti trovi di fronte una sala, una stanza, un cubicolo. Da un lato la cabina del macchinista, dall’altro il corridoio e, dentro un grosso cubo di, forse, plastica, il bagno. Dietro di te il fuori, davanti a te una porta, vicina di casa di quella che hai appena sfondato.
Non devi andare in bagno; potresti andare a salutare il macchinista, ma probabilmente non hai nemmeno il biglietto e non pianificavi una multa di svariati ordini di grandezza superiore al costo di una caffè.
La porta chiusa non sembra avere intenzione di aprirsi, almeno per quanto riesci a cogliere dal suo linguaggio del corpo, e poi sei appena entrato perché dovresti uscire?
Il corridoio sembra l’unica soluzione valida. Ci sarai pure entrato per un motivo in questo dannato treno, vuoi andare da qualche parte, hai una meta, e per ora questa può limitarsi ad un posto decente in cui sedersi, magari un quartetto di posti liberi con abbastanza spazio per appoggiare ogni singolo arto e rimanere sospesi da terra mentre il treno sfreccia, immobile rispetto a te, mobile e veloce, per i comuni standard, rispetto al resto del mondo.
Ti volti, alzi un tallone racimolando la poca voglia di essere ontologicamente diverso dal pavimento e muovi una caviglia. Cammini superando il grosso cubo di plastica che, puoi dirlo con certezza, racchiudeva decisamente il bagno.
Ti accolgono altre due porte gemelle una davanti all’altra, una cabina stranamente familiare e uno schifoso cubo di plastica, forse.
Strano.
A memoria, anche se sono tecnicamente i treni a portare in giro la gente, niente ha mai vietato alla gente di andare in giro per i treni.
Questo in particolare non sembra essere della stessa opinione. Sedersi a terra non è comunque un’opzione visto che su questo pavimento c’è più melma di scarpe che pavimento.
Non hai molta scelta, riprovi.
Fallisci.
Riprovi di nuovo.
Ri-fallisci.
A questa catena monomerica di carrozze evidentemente non piacciono i corridoio che portano da qualche parte, e tu hai finito le direzioni. Maybe.
Guardi in alto. Oltre la lampada bianca e la griglia di areazione stanca di vivere e funzionare che sputa aria digerita e rimasticata un paio di volte dal sistema di ingranaggi e caldaie, sembra esserci qualcosa. Magari qualcosa di raggiungibile a differenza della fine del dannato corridoio, e addirittura di sedibile con un po’ di fortuna.
Alzi un piede e lo piazzi parallelo alla tua pancia, camminare in verticale non ti è mai piaciuto, c’è sempre quella strana sensazione di non salire ma scendere, come se qualcosa ti tirasse in giù, come se il mondo avesse una corsia preferenziale a senso unico e delle direzioni vietate. 
Fai un passo, poi un altro e… Ti ritrovi al punto di partenza. Stavolta dall’alto sei passato al basso e ti ritrovi schiena a terra con la colonna verticale in orizzontale e i piedi in aria, almeno quelli in alto.
Sei steso a fissare la grata incosciente dei propri stessi istinti suicidi e di molte altre cose.
Inizia a farti male la testa.
È questo treno a farti male, ha regole stupide, non fa cose e ti impedisce di fare cose, forse invece che entrare in un treno sei entrato per sbaglio in tua madre, non pensavi che tua madre avesse un bagno di plastica nel collo ma chi sei per dirle cosa può o non può avere nel proprio corpo?
Questo treno porta ma non fa andare, viaggia ma impedisce di viaggiare.
Ti rialzi.
Barcolli per un attimo appoggiandoti di nuovo alla maniglia d’acciaio sporca di rosso.
Anche il pavimento è tinto di una chiazza rossa, più recente però, più liquida. E anche tutto il resto sembra rosso a tratti, se ti strofini gli occhi va via ma prima o poi il rosso sembra ritornare.
Riprovi ad andare in fondo al corridoio accorgendoti quanto sia più difficile, sei più stanco, più gorillesco nei movimenti e il pavimento inizia a sembrarti quasi confortevole, allettante.
Giusto per un paio di minuti.
Giusto per riposare le gambe. E gli occhi. E la testa. Soprattutto la testa.
La testa ti fa un gran male, te ne stavi quasi dimenticando. Ha iniziato a far male quando sei salito e l’hai sbattuta contro la porta che si stava chiudendo. Curioso.
Lo strano corridoio senza meta ha peggiorato il tutto, anche se forse camminare in linea retta piuttosto che girare su sé stessi avrebbe aiutato.
Non ci avevi pensato.
E anche lanciarsi in aria sperando di camminare fino al soffitto non deve essere stato benefico. La testa dopo ha fatto ancora più male.
Mah.
Il mondo è un posto strano. Tre direzioni e una percorribile solo a metà. Treni che vanno percorsi solo in linea retta come se i cerchi non fossero degni di nota.
E poi quel bagno. L’odore di quel bagno è talmente disgustoso che se riuscissi ad andare da qualche parte lo faresti semplicemente per allontanartene. Ma ora il pavimento è tanto comodo e la testa fa tanto male.
Il bagno è quasi sopportabile, giusto per un paio di minuti, giusto per aspettare che il rosso smetta di calare dai tuoi capelli, giusto per aspettare che arrivi qualcuno. 
  
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