Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Inathia Len    01/04/2015    4 recensioni
Me lo chiedo ancora, se ho fatto bene ad abbandonare la sua città galleggiante. E non lo dico solo per il lavoro… Il fatto è che un amico come quello, un amico vero, non lo incontri più. Se solo hai deciso di scendere a terra, se solo vuoi sentire qualcosa di solido sotto i piedi, e se poi intorno a te non senti più la musica degli dei… ma, come diceva lui, “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”. Il guaio è che nessuno crederebbe a una sola parola, della mia storia…
SherlockBBC incontra Novecento di Baricco... ai posteri l'ardua sentenza...
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Irene Adler, Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

 

 

 

 

Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock



La sua storia me la raccontò la notte che ci conoscemmo. Me la dovette ripetere un paio di volte e ancora altre due, prima che cominciassi a prendere seriamente in considerazione l’idea di credergli. Andiamo… chi nasce su una nave? Cioè, okay, magari di bambini nati sulle navi ce n’erano a pacchi… e magari che ci venivano anche lasciati… era una cosa che i migranti facevano spesso, questo sì. Le donne partorivano durante la traversata e poi, o per avere una bocca in meno da sfamare, o per avere meno problemi all’arrivo, o per provare a dare al piccolo una vita migliore… BAM!, lo lasciavano da qualche parte sulla nave, nella speranza che qualche riccone si facesse impietosire e lo prendesse con sé.

Ma a lui non era andata così, per quello la sua storia aveva dell’incredibile. Il mio amico non solo ci era nato, sul Virginian, ma non ci era neanche mai sceso. Eppure… eppure a guardarlo ti veniva da dire che aveva visto il mondo intero, che se l’era viaggiato tutto…

Fu un macchinista a trovarlo, allo sbarco di New York. Greg Lestrade, pezzo d’uomo con i capelli già brizzolati a neanche cinquant’anni e due bicipiti che avrebbero fatto paura ai titani… di solito se ne stava in sala macchine con gli amici suoi, ma era quasi una regola non scritta che, agli sbarchi, tutti i “topi” della nave se ne andassero in giro. Non facevano granché, non è che si mettessero a prendere il sole sul ponte superiore o facessero finta di saper usare il timone… o usassero il telegrafo per mandare messaggi osceni a chi so io… no… loro si ripulivano la nave. In senso buono, ovviamente. Potevi trovarteli a carponi per i corridoi, che rimestavano nei bidoni dell’immondizia… nella vana speranza che la dea bendata fosse stata dalla loro parte anche quella volta.

I ricconi erano capaci di perdersi qualsiasi cosa.

E Greg Lestrade trovò un bambino.

Lui se ne stava a gattoni sul pavimento della sala da pranzo della prima classe, imprecando tra i denti perché era riuscito solo a racimolare solo un fazzoletto nemmeno tanto pulito e un mezzo sigaro, quando un vagito l’aveva fatto alzare talmente di scatto che a momenti sbatteva la zucca allo spigolo di un tavolo. Poggiato dove di solito stava seduto il violinista dell’orchestra che suonava durante i pranzi e le cene per la prima classe, se ne stava lì, il bambino, in una cassetta per la frutta e agitava i pugnetti quasi per attirare l’attenzione di Greg. L’omone lo prese in mano e gli fece un sorriso sdentato. Non si mise problemi sul come, sul chi o sul perché. Quel bambino era lì per lui, o almeno così il mio amico mi aveva sempre detto. Di questo si era convinto. Anche perché la cassetta dove lui se ne stava recitava sul fianco “T.G. Lemon”. E Greg lo prese come un altro segno: Thanks Greg, ecco che ci stava scritto lì.

Così si prese il bimbo e lo sollevò in alto, scrutandolo sorridente.

-Hello, Lemon!- disse, scoppiando a ridere.

Era il primo giorno del primo mese del primo anno di questo nuovo fottutissimo secolo.

 

 

 

Quando lo riportò in sala macchine, erano in tanti a credere che quel bambino sarebbe diventato un buono a nulla. Nato su una nave, trovato da un macchinista spiantato… aveva per culla la sua cassetta di limoni e per biberon un vecchio innaffiatoio coperto da uno straccio. Ma Greg non demordeva. –C’era scritto T.G. sulla cassetta, cazzoni!- rispondeva a chiunque provasse anche solo a prenderlo in giro. –Lo sapete che vuol dire? Ma certo che no! Voi non sapete leggere!- gridava per tutta la stiva della nave, cullando il suo marmocchio. –Vuol dire “Grazie Greg”. Lo hanno lasciato a me, e io me lo tengo!-

Solo qualche tempo più tardi, sorse il problema del nome. Greg lo chiamava “Lemon”, ma quello era il nome di un frutto, non di un bambino.

-Intanto gli darò il mio nome- proclamò un giorno, zittendo tutte le altre voci. –Greg Lestrade. Poi ci metterò accanto T.G., come fanno i ricconi sui gemelli delle camice. Da un certo tono avere le lettere in mezzo al nome, eh?-

-Eccome!- ribatté un altro macchinista, asciugandosi il sudore dalla fronte. –Tutti gli strafottuti avvocati ce le hanno le lettere in mezzo al nome!-

-Uno dei miei si chiamava John P.T.K. Wonder- esclamò un altro ancora.

-Se mio figlio diventa avvocato, giuro che lo ammazzo con le mie mani- disse Greg, facendo scoppiare a ridere tutti. –Ma il suo nome sarà Greg Lestrade T.G. Lemon. Che ve ne pare?-

-Oh, deve piacere a te, Greg… sei tu la mamma- lo sfotté uno.

-Per piacermi mi piace… è che è corto. Gli manca un finale!-

-Ma non è mica il figlio di un fottuto marchese. Lo hai trovato di martedì? Chiamalo “Martedì”!-

Greg si illuminò tutto e gonfiò il petto.

-L’ho trovato in prima classe, eh? Sullo sgabello del violinista… e come si chiamava quel figlio di puttana? “Sherlock”… l’inglesino… ecco fatto, allora: Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock!- scandì per bene, facendo riecheggiare il nome per tutta la sala macchine, scoppiando poi a ridere.

 

 

Fu Greg a occuparsi di Sherlock mentre lui cresceva. Nessuno doveva sapere di lui, la sua presenza doveva essere praticamente segreta all’equipaggio e al capitano Anderson… ed è per questo che tutti lo conoscevano. Difficile tenere nascosto qualcosa del genere…

Sherlock, da bambino, era diverso dall’uomo che ho conosciuto io. Dall’uomo che io ho… ehm… che ho avuto la fortuna di chiamare amico, ecco. A sentire i racconti del personale e i suoi, quando non stava nella sala macchine con Greg, rannicchiato nel suo lettino, se ne andava in giro per la nave, sempre ben attento a non farsi vedere. E quindi te lo potevi ritrovare in cucina: era la manina che si sporgeva da sotto il bancone e rubava una ditata di quella torta alla frutta che uno della prima classe aveva commissionato per il compleanno della figlia. E la capocuoca, la signora Hudson, chiudeva sempre un occhio per lui. Quando vedevano comparire la sua mano o intuivano la sua sagoma sotto un carrello… sapevano che Sherlock era lì da qualche parte. E quindi gli lasciavano una tortiera da ripulire col dito o una ciotola di panna montata che “casualmente” era avanzata. E questo andava bene fino a che il capitano Anderson non sbucava per una qualche con una qualche ispezione a sorpresa e lo scopriva seduto sul bancone, le gambe incrociate e il viso sporco di crema… in quei casi, era meglio che Sherlock scappasse veloce come il vento. Il capitano non era tipo compassionevole…

A leggere gli insegnò Greg. Era uno dei pochi macchinisti in grado di farlo. Recuperava dei vecchio giornali e su quelli insegnò a Sherlock a leggere. Ma non lo faceva esercitare sulle pagine della cronaca o della politica o di che so io… no. Greg era un patito di corse di cavalli. E non perché scommettesse –a mala pena si poteva permettere i soldi per il quotidiano- ma perché diceva che i nomi dei cavalli lo facevano spisciare.

E così passavano serate intere, dopo che Greg aveva finito il turno: lui seduto al tavolone dove di solito mangiavano e Sherlock sdraiato sopra la pancia, le gambette incrociate e il dito premuto sulla pagina, schiacciato forte perché Greg gli diceva che altrimenti le lettere scappavano via prima che lui avesse il tempo di leggerle. E Greg rideva più forte e più forte mano a mano che andavano avanti perché –lasciatemelo dire- quei nomi erano davvero qualcosa di improbabile. Insomma, c’era da chiedersi se i ricconi facessero a gara per dare al proprio cavallo il nome più assurdo e meno probabile.

 

 

Greg Lestrade fece il marinaio ancora per otto anni, due mesi e undici giorni. Sherlock di questo non mi ha mai parlato, lo sono venuto a sapere dal resto dell’equipaggio. E poi lui me lo ha solo confermato una notte che era particolarmente ubriaco…

Fu un incidente, nessuno avrebbe mai fatto del male al macchinista, ci pensò una carrucola impazzita a centrarlo nella schiena durante una tempesta. Sherlock non c’era, grazie a Dio non era lì… penso fosse da qualche parte a cercare altri giornali per quella sera, perché gli altri li avevano già letti tutti…

Insomma, per farla breve, mentre erano lì che lavoravano come sempre –non era la prima tempesta, non era il primo mare mosso che affrontavano…- Greg si distrasse un attimo. Non so bene perché. Questo particolare non me lo hanno mai spiegato bene… credo che, nonostante fossero passati anni, fosse ancora difficile per molti parlarne. O forse lo facevano per rispettare Sherlock, che ne andava in giro facendosi chiamare solo con l’ultimo nome, quasi Greg Lestrade T.G. Lemon non fosse lui. Lui era solo “Sherlock”.

Comunque, una carrucola si staccò dal suo gancio e prese a vagare impazzita per la sala macchine. E molti si abbassarono, si spostarono… ma non lui. Lui era distratto per chissà che cosa. E la carrucola lo prese in pieno in mezzo alla schiena.

Ci mise tre giorni a morire. Era rotto dentro, non c’era modo di rimetterlo insieme.

E Sherlock passò tutti e tre quei giorni rannicchiato in infermeria accanto al suo letto, con una pila di giornali tanto alta che quasi lo superava. E lesse, imperterrito, per tutti e tre i giorni. E Greg rise, imperterrito, per tutti e tre i giorni. A quanto pare, furono proprio le risate a farcelo restare secco… ma questo a Sherlock non lo dissero mai, ovviamente.

Greg Lestrade morì sulla sesta corsa di Chicago, vinta da Acqua potabile con due lunghezze su Minestrone e cinque su fondotinta blu. Lo avvolsero in un telone e sopra ci scrissero “Thanks Greg” e poi lo buttarono in mare, dopo un veloce ma sentito funerale.

E così Sherlock divenne orfano per la seconda volta. Aveva appena otto anni, ma si era già fatto avanti e indietro dall’America ed Europa per quasi cinquanta volta. E aveva visto il mondo, ma sempre dalla sua nave, non era mai sceso. Era stato sul ponte, una volta si era persino arrampicato sulla vedetta… e si era guardato la terra, le città, la gente… ma non era mai sceso, quello no. Non credo gli fosse neanche mai venuto in mente.

Ma quando Greg morì, il capitano Anderson decise che “quella pagliacciata dell’orfanello che viveva come un topo sulla sua nave” doveva finire. Allo scalo di Southampton, fece salire la polizia con tutta l’intenzione di far scendere Sherlock e mandarlo in un orfanotrofio. Fino a quando c’era stato Greg, alla frase che Sherlock un giorno sarebbe dovuto scendere, andare a scuola, che tutto quello era contro il regolamento… rispondeva “In culo il regolamento!” e nessuno aveva osato mai protestare –visto anche la montagna di uomo che era stato-. Ma ora non c’era più nessuno e il capitano Anderson aveva deciso che ne aveva abbastanza di un bambino che gli lasciava sempre le ditate nelle torte.

Non riuscirono a trovarlo da nessuna parte, però. Lo cercarono per due giorni interi, la polizia che cominciava a spazientirsi e l’equipaggio che sosteneva di non aver mai visto Sherlock in tutta la loro vita. Ci mancò poco che rinchiudessero Anderson… l’automobile per portarlo al manicomio era già pronta…

E così alla fine ripartirono. Anche se la cosa che Sherlock fosse sparito non andava giù a nessuno. Perché si erano affezionati a quel bambino, in tutti quegli anni… alla partenza, quando sentirono le sirene e videro le stelle filanti, sorrisero, sì, ma con il cuore in gola. Perché nessuno sapeva che fine avesse fatto. Si sarebbe potuto tranquillamente pensare a un fantasma, se non fosse stato che praticamente tutti l’avevano conosciuto e ci avevano parlato.

Fu la seconda notte di viaggio, quando ormai non si vedevano più le luci della costa irlandese, che il nostromo corse nella cabina del capitano per svegliarlo. Stava succedendo qualcosa nel salone della prima classe, riuscì a balbettare, prima di scappare via eccitato. Molto meno entusiasta era Anderson, che si era visto svegliare nel cuore della notte. Credo che gli siano partite anche un paio di bestemmie, se non sbaglio… Comunque, si diresse verso la sala da ballo. E si rese conto subito di non essere solo. C’erano quasi tutti i passeggeri, le classi mischiate. Straccioni della terza che praticamente dormivano vestiti e signore della prima imbellettate e con la ciabattine con il tacco. Tutti lì, tutti insieme. Una fiumana di gente che camminava come ipnotizzata.

Ipnotizzata dalla musica.

Anderson la sentì subito. Le luci della sala erano spente, tutti se ne stavano in religioso silenzio… e c’era solo la musica. Lui entrò piano, quasi in punta di piedi, quasi temendo che si trattasse di un sogno e che  potesse scomparire con la stessa velocità con cui esplodono le bolle di sapone. Ma non fu così, non quella volta. Quello non era un sogno o una visione. Perché Anderson non era solo. C’erano i passeggeri. C’era persino il marconista e tre tutti neri della sala macchine, accorsi in tutta fretta. E seduto su uno sgabello, i piedi che nemmeno gli toccavano terra, le gambette che si muovevano a ritmo… Sherlock suonava il violino. Era qualcosa che nessuno aveva mai ascoltato prima. Questa era la cosa con Sherlock e il suo violino. Suonava, ma non avresti saputo dire cosa o perché. Io avevo avuto il privilegio di sentirlo suonare più di tutti… Una volta, una sera in cui stavo facendo particolarmente fatica a prendere sonno, suonò qualcosa per me. Era un qualcosa che non era mai esistito prima, che non sarebbe esistito poi… ma in quell’istante c’era e mi cullava nella notte e mi teneva lontano dagli incubi. Fino a quando le sue dita eleganti toccavano le corde, fino a quando la sua mano diafana e sottile muoveva l’archetto… allora la musica c’era. E ti sarebbe venuto da dire che c’era sempre stata, perché era talmente perfetta, talmente bella… che non poteva essere stata inventata così, su due piedi! E invece sì! E invece sì! Perché lui chiudeva gli occhi e suonava… e se poi gli chiedevi di ripetere quello che aveva fatto, oppure gli domandavi cosa fosse, era capace di spalancare quello sguardo dal colore improbabile e scrutarti col le sopracciglia aggrottate, la testa leggermente reclinata… ed era capace di dirti che non ne aveva la minima idea, di cosa aveva appena suonato. Ed era vero. Tutte le musiche che suonava lui –e non parlo di quelle che facevamo con l’orchestra per i ricconi o le tarantelle in terza classe, ma di quelle completamente e totalmente sue- quelle musiche erano un pezzo unico e tu dovevi ritenerti fortunato ad averle ascoltate in quell’attimo che c’erano state… perché dopo non c’erano già più…

C’era una signora accanto al capitano, in vestaglia rosa e con certe pinzette nei capelli… una piena di soldi, si vedeva, forse la moglie di qualche assicuratore americano… be’, aveva dei lacrimoni così che le scendevano sulla crema da notte. Guardava e piangeva, non la smetteva più. Quando si trovò il capitano di fianco, bollito dalla sorpresa, lui, letteralmente bollito, quando se lo ritrovò di fianco, tirò sul col naso, la riccona dico, tirò su col naso e indicano il violino chiese.

-Come si chiama?-

-Sherlock.-

-Non la canzone, il bambino.-

-Sherlock.-

-Come la canzone?-

Era quel genere di conversazione che un comandante di marina non può sostenere per più di quattro cinque battute. Soprattutto quando ha appena scoperto che un bambino che credeva morto non solo era vivo ma, nel frattempo, aveva imparato a suonare il violino. Piantò la riccona lì dov’era, con le sue lacrime e tutto il resto, e attraversò a passi decisi il salone: pantaloni del pigiama e giacca della divisa non abbottonata. Si fermò solo quando arrivò allo sgabello e al violino. Avrebbe voluto dire tante cose in quel momento, e tra le altre “Dove cazzo hai imparato?”, o anche “Dove diavolo ti eri nascosto?”. Però, come tanti uomini abituati a vivere in divisa, aveva finito anche per pensare, in divisa. Così quello che disse fu:

-Sherlock, tutto questo è assolutamente contrario al regolamento.-

Sherlock smise di suonare. Era già un ragazzino di poche parole e di grande capacità di apprendimento. Guardò il capitano e disse:

-In culo il regolamento.-

 

 

-Sì, nonno. Sì, signor Andom. Nel caso in cui ci fossero ancora dei dubbi, è lui l’autore della melodia di prima. Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock- concluse John, passandosi un fazzolettino sulla fronte e accasciandosi su uno sgabello davanti a un pianoforte.

Frank Andom lo guardò sconvolto, tra le mani la registrazione. La reggeva, quasi lui stesso non fosse sicuro di quello che stava facendo. Perché quella storia non aveva senso, eppure pareva chiara e cristallina come se non fosse potuta essere diversa. Perché quel violinista eccezionale aveva vissuto, eppure non c’era mai stato, se non per pochi eletti.

-E tu… e lui…- balbettò, come se gli si fosse ingarbugliata la lingua. John lo vide sedersi a sua volta e poggiare la registrazione sul pianoforte con cura, come se ne avesse finalmente compreso il grande valore. John ancora non ce la faceva a guardarla senza immaginare le mani di Sherlock spezzarla per la rabbia, perché…

-Cosa, nonno?- chiese John, quasi con un sorriso. –Non mi credi?-

-Oh, quello no… no… e tu ci sei stato? Dove lui suonava, intendo…-

-Sì. Sono stato sul Virginian per sei anni e… e non esagero quando dico che sono stati i più belli della mia vita. Quando ci sono salito ero uno spiantato, un nessuno… e non dico che far parte di quella piccola orchestra che suonava per i ricconi mi abbia reso migliore. O mi abbia reso un trombettista di fama mondiale. Quello no… Ma lui… Ma Sherlock… Lui sì. Lui mi ha reso migliore. E forse, e dico forse, io ho reso migliore lui…-

Frank Andom lo scrutò con occhio critico. Ora vedeva bene le lacrime che scendevano sul volto dell’altro, la scia argentata che si lasciavano dietro, tuffandosi nella barba sfatta e lì rimanendo, bagnandola sempre più. Vedeva bene il suo sguardo tremare sempre di più, quasi pronunciare il nome di quel violinista gli avesse fatto male dentro.

-E lui, Sherlock… lui per te era…- indagò, sporgendosi in avanti verso John, che sollevò la testa di scatto, quasi a voler impedire ad altre lacrime di scendere. Ma non ci fu verso. Non aveva mai raccontato quella storia a nessuno, ma forse era venuto il momento di tirarla fuori una volta per tutte.

-Lui era… Sherlock era…- balbettò, senza sapere bene come finire la frase. –Per me è stato…-

-Capisco- sussurrò Andom, questa volta comprensivo, mettendogli una mano sulle sue. –Ho capito. Ho capito.-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inathia's nook:

 

Ma buon giorno a tutti! No, non è un pesce d'Aprile, sto davvero aggiornando. E lo faccio per due motivi: innanzitutto, perché mi avete lasciato talmente tante recensioni che mi sono commossa come una scema (e non è cosa facile, ve lo assicuro!). E' davvero un record per me leggere ben 6 recensioni per un prologo... per di più di una storia che ero stra in forse se scrivere e poi pubblicare. Quindi grazie grazie grazie. Questo capitolo è tutto per voi, che siete la linfa e il motore di questa storia :) In secondo luogo, questo week end non sarò a casa e mi scocciava lasciarvi senza aggiornamento (sorpattutto dopo che eravate state così carine con i commenti...). Il prossimo aggiornamento sarà molto probabilmente o il 10 o il 12 aprile (l'11 sono al Romics... per caso qualcuna di voi bazzicherà da quelle parti?) Comunque, per notizie varie su aggiornamenti anticipati o posticipati, o chiacchiere e sfoghi vari, mi trovate anche su facebook con il nome Inathia Len. Account dedicato al mio alter ego scribacchino :)

E queste erano le note tecniche, passiamo al capitolo.

Come vi avevo già anticipato, la storia sarà principalmente narrata attraverso i flashback di John (segnalati dal corsivo e dalla narrazione in prima persona). Trovo molto più gestibile lo stile baricchiano in questo modo, forse perché Novecento è scritto in prima persona... Comunque, alcune parti sono prese dal libro o alcune scene sono descritte pari pari dal film. 

Ho scelto Greg come "padre" per Sherlock perché secondo me era il personaggio più azzeccato. Nella serie, lo salva dalla droga e da una vita orrenda, qui lo salva da qualcosa di ben peggio (una vita in orfanotrofio... Non che crescere in una sala macchine sia stato megli, ma almeno Greg gli ha voluto bene come un padre!). 

E poi abbiamo Anderson: solo lui poteva essere il capitano burbero, ma alla fine con un cuore d'oro (perché permette a Sherlock di rimanere a bordo e di suonare nell'orchesta). Devo ammettere che avevo pensato anche a Mycroft per questo ruolo, ma alla fine Anderson è molto più comico. 

E infine c'è la signora Hudson, in un cameo... dolcissimo :) (questa era pessima)

Okay, questo è quanto. Spero di ritrovarvi numerose nei commenti come la volta scorsa, perché mi ha fatto davvero davvero tanto piacere.

Comunque, un grazie immenso anche solo per leggere.

Bacio e buona pasqua :)

I.L.

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Inathia Len