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Autore: BabaYagaIsBack    02/04/2015    2 recensioni
Jay ha diciotto anni e tutto ciò che ha imparato sulla vita le è stato insegnato da Jace, il fratello maggiore, e i suoi migliori amici. Cresciuta sotto la loro ala protettrice, ha vissuto gli ultimi anni tra la goffaggine dell'adolescenza, una cotta mai confessata e un istituto femminile di cui non si sente parte. E' ancora inesperta, ingenua e alle volte fin troppo superficiale, ma quando Jace decide di abbandonare Londra per Parigi, la sua quotidianità, insieme alle certezze, iniziano a sgretolarsi, schiacciandola sotto il peso di ciò che non sa
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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2. What a best friend looks like


Come dicevo non molto tempo fa – per l’esattezza un’ora e trentasei minuti – il sabato mattina dovrebbe essere un momento sacro, da dedicare in tutto e per tutto al riposo della psiche che ha dovuto affrontare l’estenuante settimana di studio, eppure non è mai così. Sì, perché le urla strazianti di mia madre non erano altro che il suo tentativo per farci arrivare perfettamente puntuali all’incontro con una dei docenti della Saint Jeremy, l’istituto femminile in cui, da quattro anni, sono obbligata a passare le giornate. È un luogo d’inquietante fascino architettonico, rovinato poi dalle fatiscenti opere d’arte di alcune studentesse fin troppo convinte d’essere artiste – me compresa.

Ciclicamente, la signora Raven e io finiamo qui. Nella maggior parte dei casi per via del mio atteggiamento svogliato che irrita gli insegnanti, oppure a causa di una sigaretta fumata quasi segretamente nei bagni o, in ultimo, per via di una risposta un po’ troppo sopra alle righe; alle volte invece, è per via di qualche riconoscimento o possibile attività extra a cui vorrebbero che mi iscrivessi.

Catherine alza la manica del maglioncino, controllando per la terza volta il quadrante del suo orologio d’oro. Con il tacco picchia sul pavimento, tenendo il tempo e mettendo sempre più in mostra il suo nervosismo che, inesorabilmente, sta contagiando tutti i presenti. La sento sbuffare appena e, a questo punto, mi permetto di metterle una mano sulla coscia nel tentativo di calmarla.
«Mamma, vuoi smetterla? Ci sono gl’incontri per le ammissioni del prossimo anno stamane, lo vedi anche tu, no?»
Lei mi fissa con stizza, poi lancia qualche sguardo attorno a sé per scrutare i visi delle altre persone, rendendosi finalmente conto della situazione in cui ci troviamo. Sbuffa ancora, ma almeno smette di produrre quel suono fastidioso con le scarpe.
Grazie al cielo!
Il brutto di frequentare scuole private è anche questo: le madri, perché per lo più si tratta del lato femminile della coppia, fanno a gara per riuscire ad accaparrarsi un appuntamento con i docenti, poi un posto per le loro angeliche figliolette – così, chi prima arriva, meglio alloggia.
«Se è per un’altra lavata di capo, che stiamo perdendo tutto questo tempo, scordati di vedere ancora Charlie e Seth, capito?» le sue minacce arrivano alle orecchie sotto-forma di sussurro, in modo che nessuna delle signore presenti nel corridoio con noi possa sentire quanto scapestrata sia sua figlia. Nel tono è palpabile la rabbia che sta cercando di trattenere, visto che ancora non sa se doversi infuriare o meno; non le ho accennato nulla dell’incontro, ma forse avrei dovuto, risparmiando a entrambe tutta questa agitazione. 

Sicuramente non dev’essere facile per lei, dopo un figlio come Jace – bello, intelligente, furbo e ambizioso – avere a che fare con Liz e me deve essere una specie di tortura. Nessuna delle due eccelle in diligenza, men che meno sembra avere un piano per il futuro. Non siamo trofei da vantare alle cene con gli amici, abbiamo solo alcune passioni che portiamo avanti con una certa mediocrità.

«Vuoi star tranquilla?» chiedo, infastidita più per i pensieri che mi frullano per la testa, che per la sua labile fiducia nei miei confronti.
Prima che Catherine possa formulare una risposta però, la signora seduta alle mie spalle si protende in avanti interrompendoci. Il suo faccione rosso e gonfio ha un ché d’inquietante, soprattutto ora che me lo trovo così vicino: «Posso disturbare?»
No, non può.
Da quando il palloncino di IT ha il dono del verbo?

«Certo, mi dica» mia madre sfodera un sorriso che nulla ha a che fare con le espressioni di poco prima così, basita, la squadro mentre intraprende l’ennesima conversazione con una sconosciuta.
«Sua figlia è già iscritta qui, giusto?» la donna parla come se io fossi una statua, si rivolge a Catherine dando per scontato che io non possa rispondere alle sue domande da sola. 
«Come vi siete trovate in questi anni? Dice che è una buona scuola?»
Ed ecco che lo sproloquio di colei che mi ha partorita parte, elogiando la Saint Jeremy al pari di uno spot pubblicitario. Elenca la moltitudine di pregi che l’istituto può vantare, ricordandosi ogni tanto d’inserire una qualche nota negativa qua e là, giusto per non figurarlo completamente come un paradiso in terra. Mente spudoratamente riguardo all’esperienza d’entrambe in questi ultimi quattro anni, alle volte confondendosi volontariamente tra me ed Elizabeth – in modo da colmare con una i difetti dell’altra.
L’ascolto poco e la fisso molto, cercando di capire con quale coraggio racconti tutte quelle innocenti frottole; le madri son brave in questo, risultano fin troppo credibili. Per non sfigurare difronte alle proprie amiche e simili modificano la realtà con una certa maestria – quando tocca a noi figli però, la cosa si fa assai meno semplice, scoprono le nostre menzogne con un’abilità che ha dell’incredibile.

Alzo gli occhi al cielo e, nel momento esatto in cui provo a formulare un pensiero, il cellulare prende a vibrare con insistenza. Chi sarà il mio salvatore? Chi è il genio capace di avere un simile tempismo?

Senza nemmeno scusarmi, schizzo via dalla sedia su cui sono stata appollaiata per tutto questo tempo e, incurante delle brevi lamentele di Catherine che mi ricorda che “le prossime siamo noi”, inizio a percorrere il lungo corridoio a passo svelto, allontanandomi il più possibile da lei.
Sfilo il telefono giusto in tempo per rispondere e, nella fretta di non far cadere la linea, nemmeno guardo chi mi stia chiamando. Rispondo con un filo di voce, lanciando occhiate sospette verso mamma che, sicuramente, starà cercando di udire qualche mia parola nonostante le sue chiacchiere – in fin dei conti si sa, farsi gli affari altrui è un vizio che non ci si toglie facilmente.

Dall’altra parte della cornetta una risata roca, tipica di chi fuma un po’ troppo, si fa strada verso i timpani. Il suono scivola dritto verso al cuore e una sorta di gioioso calore mi riempie, imponendo alle labbra di tirarsi in un sorriso.
«Ma si può sapere dove sei?» domanda Charlie schiarendosi un poco la gola, in modo d’apparire meno addormentato di quanto non sia in realtà; sì, perché lui, a differenza mia, stamattina ha potuto dormire come un ghiro, riprendendosi dalla serata appena trascorsa.
Compiendo un movimento lesto mi sposto dietro ad alcuni armadietti: «In prigione!» sospiro giocosamente, cercando nel chiodo floreale qualcosa che già so dovrò rimettere in tasca. Per quanto mi venga istintivo mettere tra le labbra il filtro giallo di una Lucky Strike, alla Saint Jeremy è assolutamente proibito fumare – a dire il vero, il regolamento vieta sia l’uso, sia il possesso di qualsiasi oggetto combustibile all’interno delle mura della scuola; il rischio che qualche studentessa dia fuoco ai capelli di un’altra è reale, così come è reale il pericolo che tra un banco e l’altro vengano messe insieme canne rudimentali.
E la droga fa male, si sa.
Il mio migliore amico inizia a tossire convulsamente, forse perché la saliva, o il caffè gli è andato di traverso: «Che?»
«Ho un incontro con Miss Douglas» preciso, in modo da fargli capire che il carcere in cui mi trovo è solo immaginario. Persino lui, con questo commento, pare non riporre eccessiva fiducia nella sottoscritta.

Il ragazzo fa ancora qualche verso strano, poi si riprende: «Per la mostra che mi dicevi? E quando ti liberi?»
Annuisco, anche se ovviamente lui non può vedermi: «Perché, hai programmi?»
«Sni…» accenna Charles Benton dall’altra parte della cornetta: «avevo un paio di commissioni da fare, poi volevo proporti un’uscita romantica allo skate park. Devo allenare un paio di marmocchi».

Rido piano per farmi sentire solo da lui. C’è una sorta di dolcezza in questi suoi modi scherzosi di rivolgersi a me, a tratti mi pare quasi di star parlando con Jace – ed è forse per questo che con lui mi sento sempre a casa.

«È romantica solo se poi mi offri la cena» cerco a mio modo di tenergli testa e, fiera del commento, allargo il sorriso sul viso.
«Se ti accontenti di un kebab ti potrei rendere la donna più felice del mondo» contrattacca, molto più bravo di me in questo gioco di battute. Silenzioso aspetta la mia risposta, ma mentre valuto l’offerta della cena spartana, inizio a sentire in lontananza la voce di Catherine, poi i suoi passi farsi sempre più vicini. Si fa strada verso di me come un razzo, forse sospettando l’imminente arrivo del nostro incontro. Così, meno strada si frappone fra noi, più l’ansia prende a crescermi nel petto. Se non mi accordo ora rischio di giocarmi l’occasione di passare il sabato sera a far baldoria.

Mi mordo il labbro, provando a non farmi sopraffare dall’ennesimo sorriso. Lei è vicina, vicinissima! Posso sentirne il profumo nell’aria.
«Affare fatto! Ti raggiungo tra un paio d’ore» e la chiamata termina giustappunto nel momento in cui mamma fa la sua comparsa nel mio campo visivo.

 


correzione del 18.03.2019

 
   
 
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