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Autore: Inathia Len    12/04/2015    3 recensioni
Me lo chiedo ancora, se ho fatto bene ad abbandonare la sua città galleggiante. E non lo dico solo per il lavoro… Il fatto è che un amico come quello, un amico vero, non lo incontri più. Se solo hai deciso di scendere a terra, se solo vuoi sentire qualcosa di solido sotto i piedi, e se poi intorno a te non senti più la musica degli dei… ma, come diceva lui, “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”. Il guaio è che nessuno crederebbe a una sola parola, della mia storia…
SherlockBBC incontra Novecento di Baricco... ai posteri l'ardua sentenza...
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Irene Adler, Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ehi, Conn, qual è il problema, non sai andare sull'acqua?


 

 


Io sul Virginian ci salii una bella mattina di primavera. Era il 3 maggio del 1927 e di una sola cosa mi fregava nella vita: suonare la tromba. Ero scappato di casa, mi ero venduto il clarinetto che mio padre, veterano di guerra, aveva sempre voluto che io suonassi e mi ero comprato la mia Conn… la stessa che c’hai in mano tu, nonno, proprio quella lì… insomma. L’atmosfera a casa mia era uno schifo. Mio padre, dopo la guerra, non si era mai ripreso e passava il suo tempo a trascinarsi da una stanza all’altra, la gamba zoppa che lo seguiva passo passo inerte; poi c’era mia mamma… santa donna… ma senza il polso necessario. Era buona, ma tutto qui. Le potevi pisciare in testa che non solo ti diceva grazie, ma ti indicava anche quale parte dei capelli non avevi beccato… e poi c’era mia sorella. Buona quella… Harriet, ma si faceva chiamare Harry, si vestiva da uomo e beveva troppo perché nessuno in casa nostra capiva questo suo modo di fare. Io sarei dovuto essere il figlio modello, il futuro medico con il talento per il clarinetto.

Avevano proprio capito tutto…

Quel giorno marinai il conservatorio, mi fermai nel primo negozio di pegni e ci lasciai il mio strumento per la tromba. E non mi ero mai sentito più fiero di me in tutta la mia vita. Abitavamo poco lontano Southampton, me lo ricordo, e ricordo anche che avevo già visto le navi andare e venire, città galleggianti imponenti bellissime. E ricordo anche che mi sembravano il mio biglietto di sola andata per la fortuna. All’epoca non avevo in mente di rimanerci ben sei anni della mia vita… non avevo idea di chi avrei incontrato… e di cosa avrebbe significato per me…

La mia idea iniziale era di imbarcarmi a Southampton, pagarmi il viaggio suonando la mia Conn e poi scendere in America. Dove non mi interessava, solo il suono della parola già mi faceva sorridere come un deficiente.

Perfetto, no?

No.

Perché il tizio che assumeva sul Virginian, Mike Stamford, disse che la loro orchestra era al completo e che un ragazzino come me poteva anche baciargli il culo. Ok, l’ultima parte non la disse, ma fidatevi che l’ho letta nei suoi occhi porcini e nel modo in cui i suoi doppi menti si mossero quando rise di me.

Ma a me non me ne fregava un cazzo di cosa quel Stamford pensasse. Io la sapevo suonare, quella tromba. L’avevo fatto per mesi di nascosto, chiedendola in prestito ad altri ragazzi… e sapevo di essere bravo. Forse non sarei mai stato un Satchmo… forse nessuno si sarebbe mai ricordato di me… forse un giorno la mia tromba l’avrei venduta nemmeno per dieci dollari… sì, vecchio, sto parlando con te… Comunque, sapevo che ce l’avrei potuta fare. E allora, mentre Mike Stamford stava già parlando con quello dietro di me, tirai fuori la Conn e mi misi a suonare. E la gente intorno, non appena cominciai a darci dentro, si radunò attorno a me e prese a battere le mani e a ballare a tempo. Io ormai ero rosso come un peperone, tenevo gli occhi chiusi e muovevo le dita sui pistoni… e suonavo qualcosa che non avevo mai suonato prima.

Quando finii, vidi anche Mike Stamford tra la folla, gli occhi che gli brillavano. E mi guardava, un dente d’oro che faceva capolino tra gli altri. Mi chiese cosa fosse quello che avevo suonato e io gli risposi che non ne avevo la benché minima idea, perché era vero. E allora il suo sorriso si allargò e gli occhi brillarono ancora di più.

-Se non sai che cos’è- mi disse. –Allora è jazz.-

 

 

 

Sfiga.

Primo viaggio, prima tempesta. Quando si dice che la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo, eh? Dopo appena quattro giorni che stavo, sopra quella benedettissima nave, l’oceano prese a rivoltarsi e a incazzarsi con lui solo sa chi… e chi ci andò di mezzo fu ovviamente il mio stomaco e probabilmente tutto quello che avevo mangiato nella mia miserabile vita fino a quel giorno. E uno che su una nave suona la tromba, può fare ben poco quando all’Oceano gli girano, no? Può giusto evitare di suonare la tromba, ecco, per evitare di peggiorare le cose… e starsene buono nella propria cuccetta. Provare a distrarsi. Ma c’hai ben poco da distrarti se ti senti le budella nel cervello e il cuore sotto i tacchi… e se poi nella tua testa senti una vocina bastarda che ti dice “Hai fatto la fine del topo”… io non ce la volevo fare, la fine del topo.

Così uscii dalla mia cabina e presi a vagare completamente a casaccio per i corridoi. Perché dopo quattro giorni sul Virginian, non potevi certo dire di conoscerla! A mala pena riuscivo ad andare e tornare dal cesso senza perdermi… e anche per quello mi ci era voluto qualche tempo…

Comunque uscii e, schivando scarpe di ricconi lasciate in mezzo al corridoio per la lucidatura, prendendo e sbattendo contro ogni spigolo, finendo contro ogni porta possibile e immaginabile… alla fine realizzai due cose: mi ero perso e stavo per vomitare. Avevo già rischiato di omaggiare il mondo con la mia cena quando mi ero ritrovato –Dio solo sa come- in sala macchine, a sporgermi da un parapetto… ma questa volta era diverso. Mi accucciai sul pavimento, abbracciai uno dei vasi che piacevano tanto alle signore bene e ci rovesciai dentro il mondo, dopo aver tolto i fiori, ovviamente.

E fu a quel punto che sbucò dal buio del corridoio. Vestito di tutto punto, in frac, mi osservava dall’alto verso il basso. Sono sicuro che dovessi essere uno spettacolo pietoso, verde e riverso su un vaso a metà strada tra le cabine della prima classe e la sala da ballo… ma a lui sembrava non importare. Mi osservava quasi con curiosità, la testa leggermente inclinata e gli occhi socchiusi. Stava passeggiando tranquillamente come uno passeggerebbe per il lungomare di Nizza, con lo sguardo tranquillo e il passo sicuro… con la differenza che eravamo in mezzo a una fottuta tempesta. Ma a lui sembrava non importare, era come se anche lui ondeggiasse con la nave, quasi le sue gambe fossero state pensate apposta per una situazione come quella. Era Sherlock.

Lo conoscevo di vista, avevamo suonato insieme un paio di quelle sere e mi ricordavo perfettamente che il direttore della nostra piccola orchestra, ogni sera prima di cominciare, gli si avvicinava con un sorrisetto stretto sulle labbra e quasi lo implorava: “Solo le note normali, okay?”.

Conoscevo già le voci che circolavano su di lui, qualcosa mi era stato detto: aveva ventisette anni e non aveva mai messo piede a terra. Mai. Nemmeno per un secondo. Nemmeno per sbaglio. Questo dicevano, Sherlock era nato sul Virginian e non era mai sceso. E detta così suona una palla colossale… io stesso non ci avevo creduto, all’inizio… ma a vederlo in quel momento, ti sarebbe sembrato impossibile il contrario. Sherlock era un tutt’uno con la nave. Non sarebbe potuto esistere senza.

-Ehi, Conn- mi salutò, le mani in tasca e un leggero sorriso beffardo sul volto. Sembrava quasi che la mia situazione lo divertisse. –Qual è il problema, non sai andare sull’acqua?- mi chiese, mentre mi io sollevavo dal vaso e lo squadravo. -Sei il nuovo trombettista, vero? E la tua tromba è una Conn, eh…- disse, mentre io dentro di me mi chiedevo se quello fosse il momento migliore per fare conoscenza e conversazione. Non poteva aspettare che la mia bocca non fosse piena di vomito? –Vieni. Ce l’ho io la cura per la tua sofferenza- affermò tranquillamente. –Vieni. Potrebbe essere pericoloso- ripeté poi, quando vide che non sembravo intenzionato ad andare da nessuna parte.

E poi prese a camminare, questa volta sicuro che lo stessi seguendo. Beh, seguendo non è proprio la parola giusta. Perché lui procedeva tranquillamente, quasi la tempesta fosse cosa che non gli interessava, quasi fosse cosa non per lui. Sembrava che avesse dei binari sotto quelle fottute gambe lunghe, tanto camminava dritto… e io… io… beh, se uno che su una nave suona tromba incontra nel bel mezzo di una burrasca uno che gli dice “Vieni”, quello che suona la tromba può fare una sola cosa: andare. Io non avevo la sua compostezza, presi di nuovo qualche spigolo e riuscii a inciamparmi in niente, rimbalzando ovunque. Vidi che si stava dirigendo verso la sala da ballo e le porte quasi si aprirono al suo passaggio, mentre io ovviamente ci cozzai contro. Non avevo la benché minima idea di cosa avesse in mente e lui non sembrava intenzionato a dirmelo… ma forse era meglio così, perché era sicuramente una pazzia e io non avevo le forze per protestare.

Arrivammo dove di solito ci sedevamo noi orchestranti e lo vidi sedersi comodamente sul seggiolino davanti al pianoforte e sistemarsi la coda del frac come se dovesse suonare lui. Poi prese fuori il suo volino, che solo in quel momento notai aveva tenuto con sé per tutto quel tempo, e mi fece cenno di sedermi.

-Togli i fermi- mi disse, mentre io quasi mi sdraiavo sul pianoforte per non cascare dritto per terra. –Su, fidati e togli i fermi- insistette, sistemandosi il violino sulla spalla e socchiudendo gli occhi.

-Ma è una follia- protestai io.

Sherlock roteò gli occhi.

-Fidati di me.-

E io, non so perché, lo feci. Tolsi i fermi del seggiolino e lui poggiò l’archetto sul violino, cominciando da qualche arpeggio classico. E il tutto cominciò ovviamente a muoversi. Era come un sapone nero, che stava cominciando a scivolare per la sala…

-Se non sali adesso non sali più- mi disse lui, gli occhi chiusi.

Questo è matto pensai. Matto, pazzo, fuori di cranio completamente… e io stavo per vomitare una seconda volta.

Ma mi misi a sedere accanto a lui. Tanto, che accidenti avevo da perdere? Ci salgo sul tuo stupido seggiolino, pensai. E che vada tutto in vacca…

E lui attaccò a suonare.

Ora, vecchio, so che non ci crederai, ma è tutto vero. Quello che ho detto prima e, soprattutto, quello dirò ora. Perché non appena Sherlock prese a suonare, fu come se l’Oceano smettesse di essere incazzato con tutto e tutti, e invece si mettesse a ondeggiare la ritmo della musica che usciva da quel violino. E noi ballavamo con lui, noi scivolavamo per la sala… Sherlock teneva gli occhi chiusi e sembrava da un’altra parte, in un altro luogo… e ora so che è così, so che quando suonava entrava in un mondo tutto suo dal quale è impossibile distoglierlo, ma all’epoca era tutto nuovo per me… Andavamo avanti e indietro per tutta la sala da ballo, sfiorando vetrate, tavoli e sedie impilate ai lati. Ogni volta andavamo più vicini e ogni volta ci fermavamo appena in tempo. Quasi l’Oceano ci stesse cullando, quasi non volesse che ci succedesse nulla, nonostante prima mi avesse fatto rimettere l’anima. E io non ci stavo più capendo un accidente… perché Sherlock non stava suonando, lui guidava: guidava me, guidava il seggiolino… ci guidava attraverso la sala, ondeggiando al ritmo della sua musica… e che musica, nonno! Altro che jazz, altro che swing… questa era una musica che non esisteva, che non era esistita prima di quel momento ma che era perfetta per guidarci. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quello che stavamo davvero facendo, era danzare con l’Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte…

Oh yes.

CRASH!

 

Peccato che la nostra corsa finì presto e contro la vetrata che separava il corridoio della prima classe dalla sala da ballo… credo che riuscimmo, non so come, anche a sfondare parte della parete della cabina del capitano Anderson.

Sherlock disse che quel trucco lo doveva ancora perfezionare. Io, ridacchiando, aggiunsi che sarebbe stato perfetto una volta che avessimo registrato i freni. Sherlock rise con me. Il capitano no. E ci spedì giù in sala macchine a spalare carbone fino a che non avremmo risarcito il danno… le parole precise furono molto meno calme. Credo che ci chiamò anche imbecilli o giù di lì.

Ma a noi non ce ne fregava un cazzo.

E giù, in sala macchine, fu quella notte che Sherlock e io diventammo amici. Per la pelle. O forse…

E ridemmo… Cristo, non ho mai riso tanto in vita mai quanto quella notte. Passammo tutto il tempo a contare quanto poteva fare in dollari tutto quello che avevamo rotto. E più il conto saliva, più ridevamo. E se io ci ripenso, mi sembra quella cosa lì, essere felici. O qualcosa del genere.

Alla fine, buttammo nella fornace anche i badili e ci lasciammo cadere sulla montagna di carbone, stanchi, sporchi e ancora ridenti. Fu allora che glielo chiesi, se era vero quello che si diceva sul fatto che non aveva mai lasciato la nave. E lui mi guardò dritto negli occhi, serio anche se fino a pochi minuti prima avevamo riso come dei fessi…

-Sì- mi rispose. Semplicemente così.

-Ma è vero veramente?-

-Vero veramente.-

Poi alzò lo sguardo verso l’alto, e noi eravamo parecchio in basso in quel momento, nella pancia della nave, alzò lo sguardò verso l’alto e poi si girò verso di me, una mano che gli sosteneva la testa e quegli occhi improbabili che si piantavano nei miei.

-Tu sei di vicino Southampton, vero?-

Io mi limitai ad annuire. Era una cosa che avevo imparato a fare in fretta. Annuire quando Sherlock parlava e mettermi attento, perché non sapevi mai cosa poteva uscire da quella bocca…

-La conosco, sai?- ricominciò.

-La conosci? E come mai?-

-D’inverno è meravigliosa- mormorò e si girò di nuovo sulla schiena, prendendo pezzi carbone e cominciando a buttarli nel fuoco. Mi resi conto che mi mancavano i suoi occhi, il suo sguardo su di me, e allora fui io a mettermi su un fianco e ad osservarlo. –E a Marzo… ah!... arriva sempre un pomeriggio in cui, proprio quando meno te lo aspetti, scende un tetto di nebbia, una barriera netta che si ferma appena sotto le luci dei lampioni e taglia tutto, come una spada bianca. È magico…- sospirò, smettendo di lanciare il carbone e incrociando le braccia dietro la testa, gli occhi a Southampton. –Allora le case perdono i piani alti, gli alberi perdono i rami, la cattedrale perde il campanile e i passanti perdono la testa. Dal collo in su, scompaiono tutti. E quello che riesci a vedere per le piazze sono solo tanti decapitati che camminano- sospirò, io che mi tiravo su e lo guardavo. Non so bene dire come lo guardassi. Con stupore? Con paura? Con affetto? –Si scontrano e si salutano- continuò, ignaro di me e di quello che mi stava succedendo dentro. Ma lui non era lì, Sherlock non era più sdraiato accanto a me… era andato via, era anche lui in una di quelle piazze di cui mi stava parlando, era anche lui uno dei tanti decapitati beneducati.

-Bellissimo- commentai io, riportandolo sul Virginian con me. Lo sentii ridacchiare e si mise a sua volta su un fianco, a un alito di vento da me. Aveva gli occhi che gli brillavano, quasi fosse in attesa di un qualche seguito alle mie parole. Ma non ne avevo, soprattutto non con lui a così pochi centimetri da me… il mio sguardo indugiò sul suo viso e sulle sue labbra un po’ troppo… -Peccato non duri molto- mi ripresi, tirandomi a sedere mentre Sherlock rimaneva sdraiato, a guardarmi con la bocca spalancata e gli occhi che ardevano. –Ma tu come le sai tutte queste cose?-

Sherlock si strinse nelle spalle e tornai sul carbone a mia volta. Ancora non so se indispettito o affascinato da lui. C’era qualcosa che mi piaceva, quello sì. Il suo essere folle, il suo essere così umorale, il suo essere così intenso… ma sapeva anche mandarti in bestia come pochi. Perché non sempre ti ascoltava, non sempre rispondeva alle tue domande… per esempio, come accidenti le sapeva tutte quelle cose, lui che non era mai andato oltre la prua e la poppa del Virginian? Che ne sapeva lui delle piazze di Southampton, degli alberi, della nebbia, dei lampioni… ma se glielo chiedevi, si stringeva nelle spalle e ti rivolgeva uno di quei sorrisi che ti facevano ridere e ti facevano dimenticare la domanda.

 

 

-Come faceva?-

La domanda di Frank lo riportò al presente. L’immagine del giovane Sherlock, sporco di fuliggine, il suo sorriso… tutto svanì, lasciando il posto al negozio di musica. Era ancora notte, ma non era la stessa che aveva passato a spalare carbone con l’uomo che…

Andom lo stava scrutando come voglioso di saperne di più. Si era seduto sul seggiolino di un pianoforte, John ancora se ne stava in piedi e, mentre raccontava, aveva messo la mano sulla registrazione. Frank Andom non aveva idea di che fine questo tizio dal nome improbabile avesse fatto… ma non sembrava allegra. Lo erano stati, felici si intende. Dal modo in cui il giovanotto parlava di quel Sherlock si capiva. Si leggeva tutto in quello sguardo che tremava ogni volta che la memoria lo riportava indietro di anni. E lo si leggeva dal modo in cui stringeva quel vecchio disco, quasi a voler essere sicuro che non sparisse, che non fosse solo il frutto della sua immaginazione.

-Sapeva leggere, Sherlock- rispose John, chiudendo gli occhi e sedendosi a sua volta. Teneva ancora stretta la registrazione da una parte e la tromba dall’altra. E il vecchio non aveva cuore di togliergliela. –Ma non i libri, quelli sono buoni tutti. Lui sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia… tutta scritta addosso. Lui leggeva e, con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava… ogni giorno aggiungeva un pezzo a quella immensa mappa che stava disegnando nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro… una mappa meravigliosa…-

Il vecchio rimase in silenzio mentre John finiva di parlare. Gli sembrava impossibile che esistesse qualcuno così. Eppure non poteva nemmeno essere una palla, perché nessuno avrebbe parlato con tanto affetto, con tanta ammirazione, con tanto… di qualcuno che non esisteva. Sarebbe stato crudele. Sarebbe stato da pazzi. Inventare la persona perfetta, così perfetta che te ne potevi… e poi scoprire che non esisteva. No, quel Sherlock doveva esserci stato…

-La vedi quella signora, mi disse una volta, durante un’esibizione. Lui era così, capace di suonare e chiacchierare con me allo stesso tempo- riprese John, -Deve essere tedesca, disse. Guardala. Non sembra una che ha ucciso il marito con la complicità del giovane amante e sta fuggendo con tutta l’eredità? Questa musica non le somiglia, mi chiese, sollevando un sopracciglio nella mia direzione e prendendo a suonare un altro motivo che, anche se prima non c’era stato, era esattamente la musica che avrei scelto per raccontare di quella donna che sedeva tra le prime file. E lo vedi quello lì, disse poi, indicandone un altro. Sembra uno che ha troppi ricordi… la testa gli scoppia ma non riesce a dimenticare niente. Questa è la sua musica. E suonò qualcosa di ancora diverso da prima, ma perfetta per quell’uomo. E mentre suonava, si girava sempre verso di me. Come in attesa che io dicessi o facessi qualcosa. Un cenno di approvazione, o che so io… ma molte volta il mio sguardo valeva di più… e allora attaccava un altro motivo, magari ispirato da una giovane donna che gli volteggiava davanti. E diceva: quella non potrebbe essere una prostituta che sta meditando di farsi monaca? E il mio commento, ogni volta, non poteva che essere: Incredibile! Perché lo era… lui suonava l’anima di chi gli stava davanti, la metteva a nudo senza giudicarla, la studiava… E quello lì, cominciava di nuovo. Altro personaggio, altra musica. Era capace di andare avanti per tutta la sera… Guarda come cammina, diceva. Sembra che il vestito non sia il suo, da come lo indossa. E a me scoppiava da ridere, perché era tutto fottutamente vero. Deve essere un clandestino che si è intrufolato tra i ricchi della prima classe in cerca di avventure galanti, stabiliva e tu lo sapevi che era vero, anche se non aveva mai visto quella persona prima di quel momento… Perché lui il mondo non lo aveva visto mai, ma erano trent’anni che il mondo passava su quella nave. Ed erano quasi trent’anni che lui, su quella nave, lo spiava… e gli rubava l’anima… A volte io a terra ci scendevo. Agli sbarchi, con gli altri ragazzi dell’orchestra. Ma mai con Sherlock. Quello mai. L’avevo capito, anche se non lo comprendevo, che lui non sarebbe mai sceso. E mi chiedevo spesso che facesse là sulla nave, tutto solo… Gli dispiaceva che non ero rimasto con lui? Avrebbe di nuovo passato la serata a tirare calci a lattine che vagavano sul ponte e avevano l’unica colpa di essere lì mentre lui era di mal umore? Perché una volta l’aveva fatto… me lo avevano detto… mi aveva guardato allontanarmi con i ragazzi e poi si era fatto tre o quattro volte da prua a poppa tormentando una lattina…Oppure avrebbe usato il telefono di bordo per chiamare gente a caso? Faceva così, dico davvero vecchio, inutile che fai quella faccia… una volta, mi ha raccontato, ha passato la sera a chiacchierare con una certa Molly Hooper. Povera ragazza… mi sa che si era presa una bella cotta… un’altra donna, Sally Donovan, lo aveva chiamato “pervertito” e gli aveva accattato il telefono in faccia, dopo avergli detto di andare “a farsi fottere”… sapevo anche che chiamava l’ippodromo, con somma gioia dell’operatore, che non lo sopportava più. Sherlock chiamava, si faceva dire i nomi dei cavalli, chiedeva se i suoi preferiti, o quelli che conosceva lui da quando era bambino corressero ancora… e poi riattaccava…-

Il vecchietto si mise a ridere e John prese fiato. Non aveva mai raccontato questa storia a nessuno, mai. Aveva lasciato che gli anni passassero, che le persone andassero e venissero dalla sua vita. Si era sposato, aveva divorziato… poi si era sposato di nuovo e aveva divorziato di nuovo. Aveva cambiato città, cambiato lavoro… si era licenziato ed aveva ripreso a suonare la tromba. Aveva conosciuto altri uomini, donne a non finire… ma se si voltava indietro, nessuno di quei volti gli era chiaro nella memoria. Non quello di Sarah, la sua prima moglie. Non quello di Mary, la seconda… sì, i lineamenti li ricordava vagamente, ma non le avrebbe di sicuro riconosciute in mezzo a una folla. Sherlock sì. Di Sherlock ne era sicuro. Di lui ricordava tutto. I capelli neri e indomabili, che sembravano vivere di vita loro, come impregnati di salsedine per i troppi anni sul mare… gli occhi che non avevano il minimo senso e cambiavano colore quasi tante volte quante il proprietario cambiava umore… e poi c’era il modo in cui camminava, gli eleganti completi che portava, come parlava, cosa diceva… il come lo guardava

-Fu una sera di quelle- riprese John, -che salirono a bordo. Erano due, facevano parte dell’entourage di Jim Moriarty, quello che si vantava di aver inventato il jazz. Suonava il violino come un dio sceso in terra, tutti erano pronti a giurarlo. Chiesero a Sherlock se era lui quello che aveva un nome lungo e scemo e suonava solo se aveva l’oceano sotto le chiappe.-

-E che volevano?-

-Fare una cosa che andava molto di moda all’epoca: un duello per stabilire chi fosse il migliore violinista.-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inathia's nook:


Ed eccomi qua con il nuovo capitolo, tutto John-Sherlock-centrico. Il primo incontro, la prima vera chiacchierata... i dialoghi sono principalmente quelli del film, così come anche le situazioni, ma ho fatto del mio meglio per aggiungere dettagli qua e là che ricordassero anche la serie e i John Watson e Sherlock Holmes del canone. Altrimenti che cross-over sarebbe? :P

Volevo ringraziare particolarmente le tre bellissime anime che hanno commentato lo scorso capitolo, SherrySmith, Just Izzy e Maya98. Grazie mille dell'appoggio e delle parole... ma, ehi, sì, dico a te.... dai che non mordo! Dimmi che ne pensi? Vado a smacchiare i leopardi o continuo?

Scherzo (ma non troppo...).

Un bacione e alla prossima settimana,

I.L.

  
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