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Autore: Nina Ninetta    13/04/2015    4 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3
… la paura è sempre quella a vincere …

 
 
Lui l’aveva riconosciuta immediatamente, nonostante le luci blu soffuse, nonostante l’avesse vista solo una volta, con il dolore ad annebbiargli i pensieri e le lacrime ad offuscargli la vista. Aveva avuto i primi sospetti che potesse essere lei quando ancora era di spalle: raramente nel suo Paese aveva incontrato donne con i capelli così sottili e lisci da sembrare seta, neri e lucenti come petrolio. Poi ne aveva avuto la certezza nel momento in cui l’aveva sentita rispondere ad Oscar, rivolgendosi a quest’ultimo con un appellativo “straniero”.
Non conosceva la sua lingua – e come avrebbe potuto? – e di conseguenza non riusciva a collocarla in un preciso Paese natio. Quello che sapeva, e che era palese, era il fatto che fosse un’orientale. Un’asiatica insomma. Carina a dire il vero. Non ne aveva mai conosciuta nessuna di persona, tutto al più ne aveva viste una o due in qualche film poliziesco o di azione, ma quella ragazza gli sembrava piuttosto… bellina.
I capelli le sfioravano le spalle e la frangia le copriva la fronte, sotto di questa spiccavano i suoi occhietti dalla forma allungata. Lo sguardo era quello di un animaletto spaurito e forse, proprio questo particolare, era ciò che più di tutto lo allettava.
 
A fine serata la seguì fuori dal locale, restando per qualche secondo ad osservarla da lontano. Indossava il completo nero da coniglietta che il lavoro le imponeva, ma si era coperta la parte superiore del corpo con uno spolverino chiaro, di cotone. La vide avvicinarsi al bidone dell’immondizia e premere l’asse orizzontale per aprirlo, tentò diverse volte, con i tacchi non sembrava affar da poco. Quando finalmente ci riuscì, fece per issare il sacco della spazzatura con l’intento di gettarlo dentro al secchio, ma gli sfuggì di mano e d’istinto portò il piede che teneva sul pedale a terra, così da mantenere l’equilibrio, evitando una rovinosa caduta sull’osso sacro.
Il ragazzo sorrise e la raggiunse, schiacciò il pedale al suo posto e afferrò la busta dell’immondizia con una mano sola, quindi la rovesciò all’interno della pattumiera. Doveva ammettere che era abbastanza pesante per una tipa mingherlina come lei.
«Ti chiami Yumiko, giusto?!»
«Hai!» Ecco che ricominciava a rispondere in giapponese. Lo vide sorridere e cercò di ricomporsi per sembrare il meno imbarazzata possibile. «Si, mi chiamo Yumiko»
«Ricardo» continuò lui, allungandole la mano. «Piacere»
Yumiko lo fissò. In Giappone le donne non stringevano la mano agli uomini, si chinavano in avanti e basta, tuttavia aveva convissuto abbastanza tempo con uno di loro da sapere come funzionava laggiù. Gliela strinse a sua volta.
«Da dove vieni, Yumiko?»
«Giappone» si affrettò a rispondere lei. «Mi dispiace per…» indicò il naso gonfio
«Niente di grave.» Ricardo si carezzò il cerotto, il dolore si era finalmente placato. «Cosa ci fai qui?»
«Lavoro.» Yumiko chiuse il golfino sul davanti tenendo i lembi uniti con le braccia intrecciate, ricordandosi improvvisamente di essere mezza nuda. Lui sorrise:
«Non intendevo qui, nel locale, ma qui in Spagna. Non credo sia per lavoro.» Ecco, pensò Yumiko, ho fatto l’ennesima figura da quattro soldi. Fece spallucce, non sapendo bene cosa rispondere, poi decise che rimanere sul vago era la cosa migliore:
«É una lunga storia» accennò un sorrisetto e lui fece lo stesso. «Ok, ho capito, non sono fatti miei.»
La porta di servizio – in ferro e color bordeaux – del night club si schiuse di qualche centimetro, lo spazio necessario affinché il volto di una delle cameriere del locale ne facesse capolino. La ragazza, tinta di biondo, cercò la collega orientale e quando l’intravide alzò una mano per richiamare la sua attenzione, infastidendosi nel vedere che era in dolce compagnia: forse un cliente che l’aveva seguita, o semplicemente quella donna era una perditempo e ne aveva approfittato per scambiare quattro chiacchiere con quell’individuo, evitando in questo modo di riassettare l’interno della sala. Yumiko rispose al suo saluto e l'altra le chiese:
«Che stai facendo? Sbrigati che devi pulire i tavoli»
«Hai!» il “si” in spagnolo proprio non le usciva. Fece un leggero inchino di saluto a Ricardo e rimase così, con la schiena ricurva, mentre lo sentiva rivolgersi alla ragazza bionda:
«Yumiko sta con me.»
L’asiatica notò come la cameriera, che si faceva chiamare Samantha – con l’acca le aveva sottolineato la prima volta che si erano conosciute – si ricompose, cambiando tono:
«Oh, mi scusi signor Salas, non mi ero resa conto che… le auguro buona notte» e sparì in tutta fretta, chiudendosi la porta alle spalle.
Lui tornò con l’attenzione su Yumiko, la quale lo fissava confusa, la sua mente bacata come una mela marcia.
Chi era quel ragazzo?
Samantha, che non era certo una che le mandava a dire, era scappata con la coda fra le gambe, inoltre le era sembrato di percepire un immenso e raro senso di rispetto nella voce.
Lui alzò un sopracciglio, come a dire “avanti, chiedi pure”, ma lei affermò di dover andare via o l’avrebbero licenziata. Ad un certo punto farla tragica le sembrava l’unica via di fuga possibile da quell’essere che più conosceva e più diventava misterioso.
Lui rise forte:
«Impossibile» disse «Perché sono io il tuo capo.»
Yumiko quasi svenne.
 
Aveva dato la porta in faccia al suo capo. Lo aveva accompagnato in ospedale, con Macchia che gli scodinzolava sulle gambe e sua figlia Eri che non smetteva di rivolgersi a lui come ad uno qualunque. Gli si era rivolta parlandogli con informalità e a volte anche in maniera poco garbata, non per volere suo, ma perché quando andava in panico le parole scomparivano dalla sua testa e non sapeva più cosa dire. Aveva fatto la figura della sciocca nel locale, quando si era avvicinato con Oscar e, dulcis in fundo, aveva permesso che buttasse la spazzatura al suo posto: avrebbe perso il lavoro, non poteva essere altrimenti.
Ma quel che era peggio, Yumiko aveva trascorso quelle ultime ventiquattro ore a pensare a lui come avrebbe fatto un’adolescente. Manco sua figlia Eri sarebbe potuta essere più ridicola e inetta di lei in quella circostanza.
 
La donna tornò a chinarsi in avanti, un po’ di più in confronto a prima poiché l’inchino era rivolto ad una persona di maggior rilevanza sociale:
«Perdóname señor» cominciò «Gomena sai, señor» lo sentì ridere di nuovo
«Devi smetterla di scusarti ogni volta che ci incontriamo» lei sollevò lo sguardo, titubante, adesso cambiava tutto, adesso non era più il ragazzo carino a cui aveva rotto il naso quella mattina. Adesso era il suo capo e, seppur avesse avuto dieci anni in meno, avrebbe dovuto portargli il massimo rispetto.
La porta di servizio si spalancò nuovamente. Questa volta fu Oscar a comparire, senza parrucca e con indosso un paio di jeans aderenti, maglietta bianca attillata e giacca gialla abbinata ai mocassini. Urlò a Ricardo che stava per andare via, che se voleva un passaggio doveva muoversi, alle quattro aveva appuntamento con il suo cliente abituale del giovedì. Ricardo in tutta risposta gli disse che l’avrebbe raggiunto all’istante. Prima però tornò a guardare nuovamente Yumiko:
«Salutami il cane ...» ci pensò un attimo su «Macchia, giusto?» la donna annuì «E la ragazzina che era con te. A proposito, lei è?»
«Eri. Si chiama Eri. Lei è ...» Yumiko deglutì « … è mia sorella.»
Ricardo Salas si allontanò con il solito sorriso. Yumiko lo sentì un po’ scusarsi con Oscar, un po’ prenderlo in giro, voltandosi un’ultima volta indietro, verso la donna orientale, prima mi sparire oltre la porta di ferro del locale.
 
Quando Yumiko rientrò a casa erano le quattro passate da diversi minuti. Da parecchi minuti anzi. A volte tornando da lavoro non aveva avuto neanche l’energie per spogliarsi, struccarsi, farsi una doccia, infilarsi il pigiama e mettersi a letto, ma quella mattina aveva così tanta forza e vitalità che avrebbe potuto scalare una montagna. Non era tanto la poca stanchezza a tenerla in piedi, quanto l’adrenalina di quello che era accaduto.
Come di consuetudine, sbirciò nella camera di sua figlia per accettarsi che fosse lì e che stesse dormendo, poi chiuse la porta con delicatezza e si recò in bagno. Sperò che una doccia calda potesse sciogliere l’euforia che sentiva in corpo, invece si ritrovò nel letto, linda e pinta, a fissare il soffitto senza alcun sintomo di sonno.
« … è mia sorella.»
Quella frase la perseguitava. Come le era venuto in mente di dire una bugia simile? Perché poi? Aveva avuto paura, e va bene, questo l’aveva capito. Ma di cosa?
Si voltò nel letto, senza poter evitare che le parole di sua madre la raggiunsero anche lì, a migliaia di anni luce da lei, aggrappate alla mente con le unghie e con i denti. Il giorno in cui aveva detto a sua mamma, alla sua okaasan, che aspettava un bambino, questa non si era stupita – un’altra tipica peculiarità della cultura giapponese quella di non meravigliarsi mai di fronte alle notizie belle della vita, così come a quelle brutte. L’aveva guardata con quel suo fare altezzoso che sempre aveva intimidito Yumiko, dicendole di pensarci bene. Lei non l’avrebbe costretta ad abortire, ma neanche a tenere il bambino, solo le voleva far presente che avere un figlio alla sua giovane età, un giorno, si sarebbe potuto rivelare un problema, uno sbarramento che l’avrebbe frenata come un’improvvisa interruzione stradale. Ovviamente Yumiko non aveva dato peso alle sue parole. Joacquin Diego Morales le aveva ribadito più volte il suo amore e il sogno di formare una famiglia da favola le era apparso una cosa facile. Il peggio di tutta quella storia è che facile lo era stato davvero. Poi con l’incidente qualsiasi cosa era precipitato in quel burrone, dove a morire non era stato solo il suo fidanzato, il suo amico, il suo amante, ma la sua intera vita.
Puntualmente le parole di okaasan si avveravano come presagi. Così, dopo nove anni, era giunto il momento in cui le sembrava che sua figlia potesse costituire realmente un ostacolo ad un eventuale nuovo fidanzato. Non che dovesse essere per forza Ricardo Salas, ma uno futuro. Molto futuro.
 
Incredibile! Aveva avuto il coraggio di dire che Eri non era sua figlia, proprio lei che ne parlava con tanta soddisfazione con chicchessia, aveva detto ad uno sconosciuto che era sua sorella, vergognandosi quasi di fargli conoscere la sua condizione di madre non sposata e con il padre di sua figlia sottoterra.
Dopo la morte di Joacquin, quella bimba di sei anni era stata l’unico salvagente in mezzo a un mare in tempesta, a cui Yumiko ci si era aggrappata senza pensarci due volte, ma adesso le cose stavano cambiando. Non solo perché aveva conosciuto quel ragazzo, che poi era anche e soprattutto il suo datore di lavoro, ma anche perché Eri stava crescendo e non sarebbe rimasta con lei per l’eternità. Mettiamo caso un giorno si fosse scocciata di vivere in Europa e avesse preteso di tornare in Giappone, quando magari sarebbe diventata maggiorenne e avrebbe potuto imbarcarsi su un aereo da sola.
Cosa avrebbe fatto lei? Sarebbe rimasta lì da sola? E a quale scopo?
Yumiko si voltò dall’altra parte, il sonno era ancora un lontanissimo miraggio. C’erano sere in cui il letto le sembrava troppo immenso per lei e lei sola.
 
 
 
 
 
 
  
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