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Autore: LyeBenny    14/04/2015    0 recensioni
"Prima di nascere sapevo di non essere speciale: insomma, quando qualcuno è speciale si fa festa, si sorride, si aspetta con ansia quell'avvenimento per renderlo speciale. Io invece – così mi raccontarono – nacqui come morì. Insomma, all'improvviso, senza un senso, senza un perché."
 
Genere: Introspettivo, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima di nascere sapevo di non essere speciale: insomma, quando qualcuno è speciale si fa festa, si sorride, si aspetta con ansia quell’avvenimento per renderlo speciale. Io invece – così mi raccontarono – nacqui come morì. Insomma, all’improvviso, senza un senso, senza un perché.
Mi chiamarono Anastasia, e così mi disse nonna: “Fu il primo nome che le venne in mente, ma lo disse inizialmente, verso il quarto mese”.
Mia madre morì subito dopo la mia nascita, dunque mi lasciarono da mia nonna. Mio padre morì invece anche prima della mia nascita, ciò significa che mia madre mi ha fatto nascere con un altro uomo, visto che nacqui due anni dopo la morte di mio padre.
Inoltre, tutto questo passato prima della mia nascita ha procurato in me dispersione: i genitori sono un riferimento, soprattutto per i bambini.
Mia nonna aveva già allora 40 anni, e – continuando a raccontare -, disse che rimase indifferente a quella morte, perché sia il padre che la madre erano due persone orribili che potevano farmi diventare come loro, ma poi così aggiunse: “Però no, tu sei speciale.”, ed io sapevo di non esserlo.
Mia nonna si chiamava Teresa Sabatelli, ed era una cucitrice. Anche avendo 40 anni era in forma, ci vedeva abbastanza bene, e faceva tutto da sola. Era alta, aveva ormai i capelli bianchi, ma da ciò che mi raccontò i suoi capelli erano neri, come la notte, e la sua pelle chiara, come il sole.
Era una delle ragazze più alte di quell’epoca, verso il 1960. Mia nonna era sposata già da età giovanile con un uomo. Non mi disse il suo nome ed io, essendo piccola, non feci mai ricerche: veniva chiamato “Il matto”, perché tutto ciò che faceva era superare il suo limite. Fu per questo che morì dieci anni prima della mia nascita: mia nonna non mi disse come morì suo marito, ma disse solo ciò: “E’ colpa del suo voler superare il motivo per il quale ha superato solo la morte”.
Lo disse sorridendo, ed essendo piccola sorrisi anch’io. E tutto questo lo ricordo grazie ad una lettera, lasciata prima della sua morte.
Teresa Sabatelli morì il 10 marzo del 2013, all’età di soli 66 anni. Non so cosa successe, so solo che, improvvisamente, quand’ebbi 16 anni, mi dovetti trasferire dai miei zii paterni: zio Menico e zia Marta. Una famiglia di antipatici insieme ai due figli (per giunta adottivi): Marco e Clara.
Senza giri di parole, essendo anche una ragazza intelligente, chiesi a mio zio come morì mia nonna. Un po’ sbalordito, questo rispose: “Non lo so nemmeno io, però credo si sia suicidata”.
Dopo questa grave affermazione incerta mi allontanai, quasi impaurita dalla sua stessa voce, e ciò lo ricordo bene: piansi senza urlare, e abbassai la testa senza scappare; accettai tutto, e fu allora che trovai quella dannata lettera.
La lettera fu lasciata mesi prima della sua morte in un cassetto chiuso sempre a chiave. Quand’ero piccola, però, lo aprivo sempre: in esso ci mettevo tutti i miei oggetti più cari, e così via.
Quando quel cassetto fu chiuso a chiave non piansi come quando una bambina perde il suo pupazzo per strada, ma le sorrisi, come se sapessi che lei doveva metterci qualcosa di prezioso.
La mia vita adolescenziale dunque si apre con una mancanza dei genitori e con tante domande nella mente. Mia nonna a quel tempo era ancora viva, era molto generosa e sorridente con me.
Andavo a una scuola vicina da casa, per cui andavo a piedi, ma mia nonna, dicendo che doveva tenersi in forma, mi accompagnava ogni giorno a scuola. Tutto ciò mi procurava fastidio: mi vergognavo di ella. Infatti, dopo essere entrata a scuola, tutti i miei compagni di classe dall’età di 12-13-14 anni (anche bocciati) mi prendevano in giro, dandomi della bambina.
Tutti questi pregiudizi portarono la mia personalità a rinchiudersi in un mondo parallelo formato da libri e film. Per un periodo litigai con mia nonna, e lei, giustamente, non ne sapeva affatto il motivo.
Non ce n’era: volevo solo che si allontanasse da me.
Dopo un po’ di tempo, mi arresi a lei. Iniziai a camminare a testa alta per tre anni consecutivi, anche se lei mi accompagnava. Mi sono abituata, ecco; mia nonna non seppe mai ciò che mi accadeva a scuola.
Ma se glie l’avessi detto, forse sarebbe stato meglio.
Dopo le medie e il mio bel risultato per l’esame di terza media che molti ragazzi temono, scelsi il liceo classico.
Non ci fu un perché specifico: non avevo un futuro davanti. Mi arrendevo a ciò che trovavo e a ciò che mi consigliavano. Mia nonna lo disse subito: “Tu devi fare il liceo classico. Sei forte, determinata, hai una buona memoria e scrivi divinamente. Sei perfetta per riuscire a superare quest’altro ostacolo”, ed io sapevo di non esserlo.
Ma, dato che ci teneva, decisi di assumermi questa responsabilità.
Ella il primo giorno fu molto felice, ma non mi accompagnò. Disse che ero una ragazza abbastanza matura e capace da riuscire ad andare a piedi fino a scuola.
Mentre camminavo per quella strada isolata, verso le 8.00 di mattina, le macchine ostacolavano l’armonioso silenzio che viveva in quella città: parliamo di Firenze.
Non ricordo pienamente quella città, visto che ci stetti solo un anno lì: piena di alberi e cespugli ovunque s’andava, mi incamminavo insieme ad una ragazza, di nome Sabrina. Sabrina non divenne la mia migliore amica: lei era una di quelle ragazze che amava stare con tutti, e che non apriva il cuore a nessuno. Dunque, non lo aprì anche a me.
Quand’ebbi occasione di chiederle qualcosa di più profondo, e le dissi che, se voleva, poteva aprirsi a me per qualunque tipo di problema, mi sorrise e mi disse ciò: “Io? Male? Non posso stare meglio! E tu?”, come se non avesse problemi.
2 Novembre 2011, la morte di Sabrina. Per quanto ne so, si suicidò: non era felice come diceva a tutti ogni volta, e di ciò me ne sono accorta un po’ dopo.
In realtà, non ho mai capito le persone: ho sempre osservato, e, più che altro, cercavo di capire me. Alla sua morte non rimasi sbalordita, né triste, ma indifferente: “Sabrina non è mia amica” pensai, “dunque, che senso ha esserne triste?”.
Nel mio cuore giaceva la paura di finire come lei. La paura di non farcela. Ma è grazie a lei che sono andata avanti: vedevo i suoi parenti che piangevano disperati, ed io che sorridevo. Non per dispetto; sapevo che dovevo andar avanti non per qualcuno, ma per me. Insomma: scelsi il liceo classico per mia nonna, e scelsi di parlare con le persone perché lo volevano loro.
Ed io? Cosa volevo?
In quel momento non lo sapevo ancora, ma volevo trovare la mia strada.
Il liceo fu un anno faticoso, visto che al terzo anno morì mia nonna. Furono tre anni felici e allegri, raccontavo tutto ciò che mi accadeva, e la nonna ne era felice.
Un anno stetti a Firenze, ma dopo mi trasferì a Carmignano. La città è molto vicina a Firenze. D’altronde, non sentì più Sabrina e gli amici che mi feci a pochi miglia da lì. Di Sabrina venni a sapere dai suoi parenti, amici dei miei; dunque, anche se non ero più in contatto con ella, riuscivo a sapere sue notizie.
Riuscii a stare lontana da tutti, e andai avanti con la mia vita. Quand’ebbi 16 anni, dunque, i miei zii paterni si iniziarono a preoccupare della mia salute e del mio futuro. Così disse mia zia: “Fai un corso di danza, sei magrissima e, un giorno, potresti diventare un’ottima ballerina”.
Mio zio non era tanto d’accordo, predicava ogni giorno le idee di mia zia. Così egli si contrappose, dicendo ciò: “No cara, tu devi fare l’avvocatessa. O fare il capo di un’azienda”.
I due figliastri mi vedevano come una veterinaria e una modella.
Io non volevo fare nulla di ciò.
Quando ero piccola, sognavo di diventare una cucitrice come mia nonna. Mia nonna materna mi raccontò che mia madre era una doppiatrice, mentre mio padre un cantautore. Tutto ciò procurava una grande risorsa economica per la mia famiglia. Quando nacqui, però, tutti i soldi si divisero tra i miei nonni materni e i miei nonni paterni.
Dovevo essere affidata ad essi, i quali erano molto più giovani e, dunque, avrei vissuto maggiormente con loro, ma non volevano: “Non vogliamo un altro peso come nostro figlio”, dicevano a mia nonna.
Alla fine ella fu costretta da loro, ed io fui affidata a mia nonna materna, la quale era più vecchia e non aveva già allora il marito.
Quando divenni più grande, il mio sogno non cambiò, fin quando non morì: da allora tutti i miei sogni svanirono, ed il mio futuro era ricco di tristezza ed angoscia.
13 Aprile 2015, i miei 18’anni. I miei zii, insieme alla mia famiglia paterna (visto che della mia famiglia materna non ebbi più notizie) mi promisero un viaggio al sud, per incontrare un’amica lontana conosciuta quand’ebbi 10 anni. Ella si chiamava Chiara.
I miei zii mi accompagnarono, e ci misi 7 ore di macchina. Essi si fecero un giro per la città di Napoli, affidandomi a Chiara: lì ci abbracciamo, e passammo la serata insieme.
Verso le 10.00 di sera, Chiara si fermò in un bar dicendo che doveva andare urgentemente in bagno. Il nero della notte era molto vivo quel giorno.
Vidi cinque ragazzi guardarmi immensamente negli occhi. Si avvicinarono, sempre di più.
Non vidi nulla.
Mi ritrovai in una stanza d’albergo bendata. Quand’ebbi occasione di vedere cosa mi era capitato, vidi il mio corpo rimasto solo con mutanda e reggiseno, e quei cinque guardarmi con avarizia.
“Finalmente, si è svegliata!”, esclamò uno.
Ebbi paura.
Non mi era mai successa una cosa del genere, e nessuno mi aveva mai avvisato dei pericoli notturni.
Ebbi occasione di distrarli, guardando dritto in un punto. Tutt’è cinque si girarono: mi slegai con forza, e corsi con tutta la forza verso la porta.
Allora non mi accorsi del pericolo.
Riuscii ad uscire. Scoprì che l’hotel era chiuso, e non c’era via di scampo: quell’hotel, infatti, era stato abbandonato da anni.
Presi l’ascensore, ma non funzionò. Uscii di corsa e scesi le scale.
Me lo ritrovai davanti.
Uno dei cinque mi guardò terrorizzato con in mano una pistola.
“Tu…dirai tutto…”
HO TANTO DA FARE! HO TANTO DA VIVERE!

   
 
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