Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber
Segui la storia  |       
Autore: stereohearts    16/04/2015    2 recensioni
Carter Harvey è un concentrato di rabbia, acidità e dolore. Dopo un passato – che non sembra essere poi così ‘passato’ - particolarmente tormentato, un incendio misterioso alle spalle ed un fratello in carcere sta cercando di spostare la sua vita su una strada più rettilinea e con meno dossi possibili, concentrando l’attenzione su scuola, amici ed un secondo fratello, Elia, spesso assente per lavoro.
Justin Bieber - che ha il suo bel da fare con una famiglia, residente a Stratford, decisamente assente ed una zia, vedova, caduta nel baratro di alcool e fumo - è un ventenne dalla bellezza disarmante, incline al perdere molto facilmente il controllo della situazione ed un caratterino pungente, corroso dai segreti che porta con sé ed una, poco salutare, dipendenza dalle sigarette.
 
San Diego.
Un incendio misterioso.
Due vite che si scontrano irreversibilmente.
_____________________________________________________________________________________
'Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera di questa persona, né offenderla in alcun modo'
_____________________________________________________________________________________
In revisione.
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A






19.

 
 
Carter.
 
 





 
 
Osservai distrattamente le gambe lunghe e snelle del professor Hall – fasciate da un paio di Levi’s scoloriti – mentre continuava a fare su e giù dinanzi alla cattedra; la bocca, piena e rosea, non si era chiusa nemmeno per un nanosecondo di pausa da quando aveva iniziato la speciale lezione su Ernest Hemingway di quel giorno. Il tutto accompagnato immancabilmente da ampi gesti di mani e braccia che volevano mettere maggior enfasi nelle sue considerazioni sull’operato dello scrittore.
Il professor Trenton Hall era trentanove anni – portati anche meglio dei cinquanta di Will Smith – per un metro e novanta di abbagliante fascino; con un paio d’occhi azzurri tendenti al verde, torniti da una schiera di folte ciglia scure, la voce calda con un vago accento texano, i capelli scuri e un sorriso dannatamente sensuale, si era aggiudicato a pieni voti lo status di uomo più bello che avesse messo piede alla San Diego High School – anche per sbaglio – negli ultimi vent’anni.
Inoltre – per assurdo – le sezioni che seguiva da un anno a quella parte risultavano essere anche quelle con la media di voti più alta nella sua materia; pur di sentirsi rivolgere qualche complimento – seppur in ambito strettamente professionale da insegnante-alunno -, magari accompagnato da uno dei suo sorrisini storti, la maggior parte delle ragazze aveva iniziato ad applicarsi a pieno nello studio in prospettiva di quelle quattro ore settimanali che spettavano alla sua materia.
Io fortunatamente non potevo includermi in quella ‘maggior parte’; i miei voti non scendevano mai oltre una misera C- in Chimica, Biologia, e le varie materie scientifico-matematiche obbligatorie.
Ciò non mi rendeva ovviamente meno immune al suo fascino da modello ventenne uscito da una delle copertine di ‹‹GQ››.
E l’essere probabilmente l’unica studentessa che - nonostante lui fosse una piacevolissima fonte di distrazione - riusciva ad avere sempre il massimo dei voti e che poteva perfettamente trattenersi dal guardarlo ogni due con occhi sognanti, contribuiva notevolmente al farmi catalogare come la sua alunna preferita, o ‘cocca del bel Trenton Hall’, dalle altre ragazze.
Che la cosa potesse avere un fondo di verità, e mi facesse sentire così dannatamente fiera e soddisfatta, era tutta un’altra storia.
Quella mattina, però – nonostante i suoi occhi chiari continuassero a spostarsi su di me nella speranza di ricevere quel reale interesse alle sue parole che dimostravo sempre -, non riuscivo davvero a concentrarmi su Hemingway e le sue opere.
O meglio: a concentrarmi davvero su qualcos’altro che non riguardasse gli eventi della scorsa notte.
O, più precisamente: su qualcosa che non fosse quel mistero che era Justin Bieber.
Ed avere anche la consapevolezza d’essermi già persa metà dell’argomento a causa di un maledetto ragazzo non faceva altro che indignarmi ancora di più; soprattutto se poi il protagonista di tale lezione era uno dei miei scrittori preferiti.
Dai quindici anni avevo passato mesi a mettere da parte i soldi per potermi regalare un’edizione originale de ‘Il vecchio e il mare’, avvistata da Baja nella vetrina di una vecchia libreria in centro città.
Quando, pochi giorni prima di Natale, mi ero presentata lì con l’intenzione di farmi un bel regalo e il proprietario mi aveva detto di aver venduto il libro quello stesso giorno ci ero rimasta davvero malissimo; come se mi avessero appena detto di avermi preso a calci il cagnolino.
Da immaginarsi quindi la mia faccia nel ritrovarmelo sotto l’albero di Natale il venticinque Dicembre mattina, impacchettato con tanto di enorme fiocco rosso.
Da quel giorno avevo decretato Oliver Harding – il padre di Ian - il miglior Babbo Natale che avessi mai avuto sin da bambina; ancora meglio di quando Elia e Dante mi avevano regalato la loro macchina a cinque anni. O del mio pesciolino rosso a dieci, chiamato dalla sottoscritta Shrek, e che quel moccioso orribile che era Keaton all’epoca mi aveva ammazzato due mesi dopo senza alcuno scrupolo.
Pensare a lui, quindi, era l’ultima cosa che quella mattina – oppure se proprio vogliamo ogni giorno in generale – volevo davvero fare.
Tener fede a quel obiettivo, però, sembrava riuscirmi al quanto difficile e male – soprattutto dopo la scorsa notte.
Justin era ovunque, diamine: nei capelli color grano del ragazzo seduto di fronte a me, nella voce di Keaton che mi sussurrava chissà cosa nell’orecchio e negli occhi color whisky di Baja fissi sulla lavagna; nel chiodo di pelle che avevo sulle spalle, o addirittura nell’orecchino nero di Brazil, il migliore amico di Keaton, seduto alla mia sinistra.
Justin che dopo l’ennesima lite s’era infilato nel mio letto, tenendomi stretta a sé in attesa che la stanchezza prendesse il sopravvento sull’orgoglio e sulla paura.
Justin che dopo l’attacco di un altro incubo, con una scia di baci roventi sulla faccia e una ninnananna canticchiata sottovoce, aveva atteso pazientemente che riuscissi a ri-addormentarmi, vegliando sul mio sonno come era solito fare Elia.
Justin che poche ore prima avevo trovato appoggiato al piano del lavello, vestito solo di un paio di boxer neri, corti e aderentissimi che lasciavano decisamente poco all’immaginazione, che chiacchierava allegramente con Jackson mentre preparavano la colazione.
Justin che sapeva.
Che sapeva di me, di Elia e Dante; della mamma, di Rick e degli scorsi otto anni; della paura matta che mi faceva l’idea di chiudere gli occhi ogni notte e non sapere cosa mi aspettava, e del perché volessi tenerlo ad una distanza di sicurezza da me.
Justin che semplicemente – nonostante tutto, nonostante mi fossi impegnata con tutta me stessa nel tentativo di fargli perdere la pazienza – restava.
Ed era proprio per questo che diventavo ancora più restia a lui.
Il reale motivo per il quale continuasse a mostrarsi così interessato a me, perché si ostinava a voler restare, mi rimaneva ancora oscuro – quando un normale ragazzo di vent’anni mi avrebbe denunciata per aggressione se lo avessi preso a pugni come avevo fatto con lui.
E non sapevo se era per colpa dell’abbandono di mio padre, dell’inferno che Rick aveva portato dentro di me o  della sfilza di persone orribili che avevano percorso la strada che portava alla mia vita; delle bugie e del tradimento di Dante, della consapevolezza che se mi fossi lasciata andare Justin mi sarebbe potuto piacere sul serio, o semplicemente dell’amicizia che legava quei due.
Non lo sapevo, davvero.
Ma non riuscivo a spiegarmi perché continuassi a dubitare del suo volermi essere una sorta di amico, standomi vicina in tutti i modi possibili; fatto sta che rimanevo fermamente convinta della mia tesi iniziale: dietro alla sua intromissione nella mia vita c’era un unico, sconosciuto, spaventoso ed allarmante motivo.
Qualcosa che andava ben oltre al legame di sangue che univa Dante e me – e che comunque non spiegava un bel niente sulla sua riapparizione dopo due anni e mezzo di assenza.
In effetti, pensandoci meglio, c’erano molteplici cose di cui Justin doveva ancora darmi delle spiegazioni; non che nei nostri incontri ci fosse stato mai abbastanza tempo o atmosfera adatta per fare qualcos’altro che non fosse litigare o prenderci a spintoni e pugni.
Ma se Justin ci teneva così tanto a giocare, allora avremmo giocato. Ma sicuramente non più a modo suo, per quanto mi riguardava.
Non ero più disposta a sopportare tutti i suoi capricci, i suoi sbalzi d’umore e le sfuriate gratuite senza contrattaccare; non era da me.
“Carter, maledizione!” La voce scocciata di Keaton nell’orecchio mi fece sobbalzare sulla sedia, strappandomi brutalmente dai miei pensieri per riportarmi alla realtà.
Realtà dove trenta paia d’occhi mi fissavano insistentemente; riuscivo a sentire gli sguardi dei ragazzi che sedevano dietro di me bruciarmi sulla nuca. Perfino Mandy Clarkson - che durante le lezioni non avrebbe osato distogliere la sua attenzione dal libro nemmeno con la minaccia imminente di un terremoto o un uragano -, aveva puntato stranita i suoi occhioni grigi su di me.
Era chiaro che qualcuno voleva qualcosa da me.
Il problema era che io non avevo la benché minima idea di chi fosse quel ‘qualcuno’ e cosa fosse il ‘qualcosa’.
Stralunata, voltai la testa verso il mio amico in una tacita e disperata richiesta d’aiuto.
Lui sollevò esasperato gli occhi al soffitto, pizzicandomi la pelle dell’avambraccio. “Sulla porta. La bidella. Ti sono venuti a prendere, devi andartene adesso.”
Con un altro movimento istantaneo spostai l’attenzione sulla porta in fondo all’aula, scoprendoci il professor Hall e la bidella Angela anche loro con gli occhi che puntavano in mia direzione, in attesa di un mio cenno.
Avvampando -  prendendo una lunga e rumorosa boccata d’aria che fece ridacchiare sotto i baffi Keaton e Brazil -, mi alzai dal banco e mi avvicinai all’uscio della porta con la borsa in mano. “Uhm … si?”
Il professor Hall mi appoggiò una mano sulla spalla e mi spintonò delicatamente fuori dalla classe, chiudendosi un po’ la porta alle spalle per impedire a mezza classe di farsi gli affaracci miei.
 “C’è tuo zio di sotto. Ha firmato per farti uscire prima, quindi puoi andare via adesso.” Mi spiegò gentile il professore, sfilando dalle mani della bidella un foglio formato A4 scritto per metà e infilandoselo sotto il braccio, mentre iniziava a parlare con la donna al suo fianco.
Di cosa, non avrei saputo davvero dirlo, perché la mia mente sembrava essersi cementata da sola attorno ad un’unica, breve e assolutamente spaventosa parola: zio.
Come un automa accennai un breve saluto alle due persone di fianco a me e m’incamminai velocemente verso le scale in fondo al corridoio.
Essere al terzo piano quella mattina - per una perdita nella nostra classe abituale - era stato un vero e proprio colpo di fortuna. Mi ci sarebbero voluti due o tre minuti per riuscire a raggiungere il portone d’uscita, e nel frattempo avrei avuto modo di prendere in considerazione ogni più florida possibilità che il cervello sarebbero stato in grado di sottopormi.
Sentendomi al sicuro da sguardi curiosi rallentai il passo, prendendomela con quanta più calma il corpo mi permettesse.
La domanda era: chi diavolo mi aspettava di sotto?
Elia era escluso a prescindere; era mio fratello, mio tutore legale, e non avrebbe certo avuto bisogno di una scusa poco credibile come quella per venirmi a prendere a scuola.
Per Cole, la stessa cosa; a scuola lo conoscevano un po’ tutti, e comunque con la litigata della scorsa notte non ci saremmo parlati per un bel po’ di tempo.
Jackson mi aveva accompagnata a scuola quella mattina, e sapevo per certo che sarebbe stato fuori città per buona parte della giornata. Inoltre, conoscendo la sua indole pigra, se avesse avuto qualcosa da dirmi mi avrebbe chiamata direttamente al cellulare.
E di certo non avrei mai creduto che la persona in attesa a due piani di distanza fosse veramente un mio zio.
Di parenti ne avevo pochi o nessuno, e quelli che sapevo d’avere vivevano sparsi tra Germania, Ungheria e Romania; dopo la disastrosa decisione di sposare Rick, i rapporti tra mia madre e i suoi parenti avevano iniziato a diradarsi in modo lento e straziante – così come invece Rick accumulava un debito dopo l’altro, come se stesse collezionando francobolli, e che poi portavano alle innumerevoli liti giornaliere e al sempre maggiore stress della mamma.
Le conseguenze erano state a dir poco disastrose: i viaggi in Europa erano diminuiti con l’avanzare degli anni, così come le chiamate, i messaggi, gli auguri di buon compleanno, le cartoline, le videochiamate su Skype e i regali per le varie festività in cui non riuscivamo a vederli. Da parte loro, ad un certo punto, non c’era più stata nemmeno tutta quella comprensione e vicinanza che avevano dimostrato all’inizio, così il filo si era spezzato una volta per tutte.
Eravamo rimasti la mamma, Dante, Elia ed io, contro Rick e tutte le sue stronzate.
E l’ultima volta che avevo sentito uno di loro era stata dopo la … la morte della mamma; un sacco di ‘mi dispiace’, ‘condoglianze’ e ‘ti siamo vicini tesoro’ erano voltai da un cellulare all’altro, prima che tutti loro scomparissero nuovamente, eclissati nelle loro bolle europee di felicità, armonia e serenità.
Mentre io ed Elia rientravamo nella nostra, nera ed asfissiante.
In realtà, non ero nemmeno certa che sapessero che eravamo ancora vivi; a pezzi, ma vivi.  Non che la cosa potesse importarmi più di tanto a quel punto; dopo l’amarezza iniziale, il caldo torpore dell’indifferenza aveva ricoperto il loro ricordo quasi completamente.
Quindi, escludendo tutti loro, rimaneva un’unica persona che avrebbe avuto interesse a parlare con me – nonostante faticassi davvero a capire a cosa diavolo servisse la scusa dello zio: Justin.
Solo che non mi sembrava così sciocco da accampare una sceneggiata del genere. Non era nel suo … stile.
A meno che … pensandoci, una persona che avrebbe dovuto servirsi di un tale escamotage per riuscire a vedermi di nascosto da Elia – o da chiunque altro – e contro la mia volontà c’era: Rick.
Al solo pensiero una sensazione stomachevole e acida s’impossessò della mia pancia, costringendomi ad arrestare i miei passi in mezzo al corridoio.
Inorridita, scacciai a suon di imprecazioni contro me stessa quell’assurda e spaventosa ipotesi; Rick era lontano, via da me, Elia e San Diego. E non sarebbe ritornato mai più.
No. Sicuramente era Justin. Doveva, a quel punto, essere lui.
Inviperita, afferrai il cellulare dalla tasca del jeans e digitai sulla tastiera il più velocemente.
 “Qual è il problema, Harvey?” mi domandò ironico Mr. Simpatia, rispondendo al secondo squillo.
 “Che ne sai che ho qualche problema?” grugnì indispettita, presa in contropiede da quell’affermazione cinica.
Lui rise amaro, sbuffando. “Primo, mi hai dato dello stronzo. E secondo, per quale altro motivo avresti dovuto chiam …”
“Lo stesso per il quale ti fai passare per un mio zio per farmi uscire da scuola adesso!” sbottai isterica, interrompendolo nel bel mezzo della frase, allargando un braccio all’aria.
Dall’altro capo, non ci fu più nulla per dei lunghi ed interminabili secondi.
Quaranta per a precisione.
Poi il silenzio venne spezzato da alcuni strani rumori, mentre Justin mugugnava parole incomprensibili a bassissima voce; e poi il tonfo di quello che doveva essere lo sportello di una macchina sbattere, accompagnato da altre voci maschili che brontolavano il loro disappunto.
E Justin non aveva nemmeno più bisogno di rispondermi; in quei mesi avevo imparato a conoscerlo almeno un po’, ed il suo silenzio parlava da sé: non c’era lui ad aspettarmi.
Ma qualunque persona ci fosse ad aspettarmi, stava cercando proprio me. E per quanto preoccupata da tutta quella segretezza, avevo tutte le intenzioni di scoprire cosa diavolo stava succedendo attorno a me; ero stanca dei segreti.
Impiegai qualche altro istante perso nel nulla, prima di partire a razzo lungo il corridoio del piano terra.
“Maledizione!” sbraitò ad un certo punto Justin, con voce grave, come se avesse letto i miei pensieri. “Due secondi e sono da te. Ma tu devi stare ferma lì, Carter, okay? E’ un ordine. Giuro su Dio che ti prendo a pugni se fai qualche stronzata, Harvey. Ti ammazzo. Rimani dentro!” E riattaccò.
Ma io ero già arrivata, e con l’affanno fissavo confusa chi mi si presentava, impertinente, dinanzi; dentro di me tirai un sospiro di sollievo nel osservare le linee gentili del suo viso piuttosto che quelle spigolose e rigide di qualcun altro. “Wes?”
“Mi spiace averti spaventata, non era mia intenzione” si limitò a dirmi, invitandomi a seguirlo giù per gli scaloni d’ingresso.
Titubante lo seguì, attendendo ulteriori spiegazioni – vista anche la metodologia poco ortodossa usata per vedermi. “Che succede?”
Stavamo per mettere piede nel parcheggio degli studenti, quando lui decise di fermarsi proprio di fronte all’entrata, fissando divertito qualcosa sulla strada; oltre le sbarre in ferro che delimitavano l’area dell’edificio.
“Sai, il tuo amico Bieber è un tipo difficile da rintracciare. Soprattutto se passa tre settimane in Ohio abbandonando lavoro, parenti e amici senza lasciare traccia del suo passaggio” mormorò scrutandomi, inclinando la testa verso di me. “E qui entri in gioco tu. E’ proprio una fortuna che sia talmente cotto di te da venire in tuo soccorso così repentinamente, piccola Harvey. Non trovi?”
E probabilmente il mio cuore ebbe un gran sobbalzo a quell’ultima scioccante confessione; lo stridere degli pneumatici di un SUV nero che tagliò la strada a Wes separandolo da me, però, ricoprì completamente quel suono alle mie orecchie, facendomi sobbalzare.
Tutti e quattro gli sportelli del veicolo si spalancarono contemporaneamente con dei colpi secchi, mostrando le figure definite e snelle di Jared, Blake, un ragazzo bruno che non avevo mai visto, e Justin; livido di rabbia, vestito completamente di nero e con le braccia tese lungo i fianchi, il biondo si avventò ringhiando contro Wes.
Il pugno che gli scagliò in piena faccia lo fece ruzzolare a terra, contro la ruota di un Pick-Up rosso parcheggiato lì di fianco.
“Portatela dentro!” urlò Justin, lanciandomi da sopra la sua spalla un’occhiata assolutamente gelida che mi mandò una scia di brividi dritti lungo tutta la schiena.
Strabuzzai gli occhi, alzando un piede per avanzare verso di lui. “Cosa … no. Che cosa?”
“Stai ferma, principessa …” La voce bassa e dura di qualcuno mi rimbombò nelle orecchie mentre due lunghe braccia dorate mi accerchiavano dalla vita. L’amico di Justin mi sollevò da terra e mi fece girare - davanti Blake e Jared che sorridevano divertiti -, per poi piantarmi sul sedile in pelle del veicolo.
Ancora prima che riuscissi a rendermene effettivamente conto e poter balzare giù, Blake – da sinistra – e Jared – da destra – scivolarono sui posti restanti intrappolandomi lì dentro.
“Questo è un fottuto sequestro di persona!” sbottai, calando arrabbiata la mano contro il poggiatesta del guidatore; sobbalzai nel notare la testa chiara di Justin appoggiarsi improvvisamente sopra il cuscinetto, sbucando dal nulla. Era bianco come un cencio e l’unico accenno di colore erano le guance terribilmente rosse; strinse convulsamente una mano – le nocche scorticate – attorno al volante, immettendosi in strada, mentre con l’altra libera frugava disperato nelle tasche dei calzoni.
“Cercava te, non è vero? E ha usato lei per riuscirci …” affermò sicuro il brunetto, lanciandomi velocemente un’occhiata obliqua. “Dannazione, te l’avevo detto di lasciarla perdere, Justin!”
L’amico continuava a guardarsi attorno con aria persa, perquisendo con la coda dell’occhio ogni centimetro della macchina; io forse avevo già capito cosa stava cercando con tanta determinazione.
“Vorresti per caso dare a me la colpa di qualcosa?” grugnì contro l’altro, sporgendomi in avanti.
Lui mi lanciò quella che doveva essere la sua miglior occhiata intimidatoria, stringendo i pugni sulle gambe. “Non esattamente. Cioè, posso capire perché gli sei sempre piaciuta così tanto ma … se mi avesse dato retta avrebbe avuto meno casini e … sinceramente, c’è anche di meglio in giro … per cui …” mi spiegò tranquillo, interrompendo volutamente la frase, congedandosi con un’occhiata decisamente lasciva in mia direzione.
Spalancai gli occhi, scattando indietro con la schiena come se avessi appena messo la mano nel fuoco.
E non so per quale scherzo della mia mente, ma voltai la testa verso Justin; come avessi pensato per davvero che sarebbe intervenuto in mia difesa. Come se per un momento avessi davvero creduto che ci tenesse realmente a me - come si ostinava a dire -, da impedire al suo amico di offendermi in modo così acido e gratuito.
“Sal. Smettila di fare lo stronzo!” lo rimproverò invece Jared, dandogli uno scappellotto non tanto gentile sulla testa. Indignato, mi riservò uno dei sorrisi più dolci che mi fosse capitato di vedere negli ultimi tempi – come volesse quasi scusarsi per l’amico.
Mandai giù la saliva - lo ringraziai con una delle espressioni meno tese di cui disponessi -, tornando a drizzare orgogliosa la schiena. “Justin …”
Nel tachimetro  la freccia continuava la sua ascesa dopo aver superato gli ottanta orari.
“Dove cazzo sono finite …”
Ero praticamente invisibile. “Justin!”
“Jared, dove cazzo hai messo le sigarette?”
Indignata, arrabbiata, e forse anche abbastanza delusa, allungai la mano – anticipando lo stronzo al suo fianco, Sal – afferrando il pacco di sigarette che giaceva proprio di fianco al freno a mano. Glielo sventolai in faccia, vincente, conficcandogli le unghie nella spalla. “Adesso mi vedi, eh stronzo?”
Come se fossi fatta della stessa consistenza di un fantasma, - cioè come se non riuscissero né a vedermi né a sentirmi –, Sal cacciò fuori un pacco  di Lucky Strike, che porse indifferente all’amico.
Fulminea, però, riuscì ad appropriarmi anche di quello; ed intercettando l’occhiata che Justin rivolse a uno dei ragazzi di fianco a me, mi voltai e afferrai anche il pacco di Marlboro di Blake e le Merit di Jared, stringendomeli tutti al petto.
E allora, solo allora, Justin sembrò davvero vedermi e ricordarsi che c’ero anch’io lì dentro; mantenendo rabbioso il contatto visivo con me, inchiodò il piede sul freno, fermandosi bruscamente in mezzo alla strada.
Presa in contropiede, non riuscì ad evitarmi di sbattere il fianco contro il sedile – per mia fortuna il gemito di dolore che mi lasciai sfuggire non parve sentirlo nessuno.
Con inesorabile lentezza, Justin girò la faccia di tre quarti, fulminandomi con lo sguardo. “Ridai quelle fottute sigarette, piccola stronzetta!” mi minacciò, allungando un braccio all’indietro; il palmo in alto rivolto a me, in attesa.
La sua voce cattiva m’invase l’udito; quella cadenza nel tono, la sillabazione delle singole parole e la calma inquietante dei suoi occhi erano qualcosa che avevo già visto. Qualcosa che non avrei mai più voluto vedere. Non nei suoi, di occhi.
Strizzai le palpebre un paio di volte per scacciare via l’immagine di … Kyle, sentendo uno strano sapore acido alla bocca dello stomaco nel rendermi conto di aver paragonato – per un brevissimo istante – Justin a Kyle.
E quello era davvero troppo, allora.
Stringendo le sigarette al petto, scavalcai agilmente le gambe di Blake e balzai giù dall’auto. “Vaffanculo, Justin!” ruggì infuriata, sbattendo la portiera con quanta più forza riuscissi. “E non osare più farti rivedere, bastardo!”
“Troia!” mi apostrofò lui di rimando, prima di premere l’acceleratore e ricominciare a sfrecciare dritto lungo la strada.
E davvero, con tutta me stessa, con tutta la malvagità di cui ero capace, sperai che andasse a schiantarsi contro un fottuto albero.
Aveva preso a pugni Wes, lui ed il suo compare mi avevano aggredita ed abbandonata su una strada a scorrimento veloce in nemmeno dieci miseri minuti; non riuscivo davvero a capacitarmi di quanto appena accaduto.
‘Dio, avevo voglia di prenderlo di nuovo a pugni!’ mi trovai a pensare, conficcandomi con forza le unghie nel palmo della mano, mentre una sensazione che era un misto tra delusione, frustrazione e rimpianto mi attaccava le viscere, contorcendomi dolorosamente lo stomaco.
 “Serve uno strappo?” mi sentì domandare – dopo qualche minuto passato a fissare il vuoto -, mentre il finestrino oscurato di una Ford color petrolio – della cui presenza mi ero accorta solo in quel momento - si abbassava per rivelarmi chi fosse il mio interlocutore.
“Travis?”
 
 






 
__________________________
 
 
 













 
Buttai fuori un’altra boccata di fumo, facendo cadere via la cenere fuori dal finestrino prima di riportarmi la sigaretta tra le labbra.
A minimo volume, dallo stereo acceso risuonavano le note di In Da Club di 50 Cent.
Con lo sguardo fisso sulla strada di fronte a sé, in attesa che il semaforo tornasse ad essere verde, Travis picchiettava il dito sul volante seguendo un ritmo tutto suo - cosa che d’altronde stavo facendo anch’io con il piede, sul tappetino nero.
Quando della sigaretta non rimase che il filtro bollente, il semaforo cambiò colore, e What I’ve Done dei Linkin Park riempì l’interno del veicolo, ne afferrai un’altra dal pacco di Lucky Strike che mi ero tenuta.
“Te ne possa scroccare una?”  Travis parlò lentamente, con calma, e a bassa voce, senza mai spostare la sua attenzione dalla strada.
Scrollando le spalle, aspettai che la richiudesse tra le labbra per potergliela accendere; comunque le sigarette non le avevo pagate io, poco m’importava di terminarle, anzi.
Il ragazzo abbassò il finestrino, sporgendo il gomito di fuori per stare più comodo. “Grazie” accennò un mezzo sorriso, abbandonando momentaneamente la presa sul volante per cambiare marcia.
Appoggiandomi con le spalle alla portiera, sentendo un venticello caldo far svolazzare oltre il finestrino i capelli, mi concessi di osservarlo meglio: Travis aveva spalle larghe, braccia toniche, fianchi stretti e gambe chilometriche anche da seduto; i capelli biondo cenere erano legati sulla nuca, un accenno di barba adornava la mascella poco squadrata, labbra piene e occhi di un bel color cielo in primavera. Indossava semplicemente una maglietta a maniche corte blu opaco, un paio jeans larghi e logori, e delle scarpe nere.
Era bello, davvero bello; quel tipo di bellezza quasi rude che aveva sempre fatto capitolare decine di ragazze ai piedi di Dante.
Ed il piccolo e significante particolare che era stato lui a ridurmi mezza faccia viola per quasi due settimane – per sbaglio, certo, lo sapevo – non me lo faceva assolutamente risultare meno attraente.
Inconsapevolmente, al ricordare quella notte, mi accarezzai la guancia sinistra. E a Travis quel gesto sembrò non sfuggire, perché riuscì a scorgere la presa della mano attorno al volante aumentare mentre svoltavamo nel quartiere dove risiedevo io.
Riuscivo a scorgere a qualche metro di distanza casa mia.
“Mi dispiace, Carter” mormorò a bassa voce, grattandosi pensieroso il mento. “Per tutto …”
Senza nemmeno farci troppo caso lasciai cadere sull’asfalto la sigaretta, alzando del tutto il finestrino mentre Travis accostava sul ciglio della strada; un’espressione pensierosa gli increspava la fronte.
Sentivo delle voci provenire da fuori, e sul giardino di casa Harding notai tre o quattro macchine mi bloccava la visuale sull’abitazione; avevo il vago presentimento che lì in mezzo ci potesse essere anche lo stronzo, ma comunque nessuno avrebbe potuto riconoscermi dentro quella macchina e da quella distanza.
“Cosa intendi?” domandai invece, guardando confusa Travis.
Aveva spento la macchina, ma lo stereo continuava a suonare: quella volta riconobbi - piacevolmente – i Blink 182.
“Per il pugno …” rispose, un po’ meno incerto, risalendo con gli occhi fino ad averli nei miei. “ Per tua mamma e … Dante … non pensavo lo avrebbe fatto davvero …”
“Cosa … tu … tu conoscevi mio fratello?” domandai stupita, allargando a dismisura gli occhi; riguardai attentamente in volto Travis, cercando di ricollegarlo a qualche volto amico di Dante, ma davvero non riuscivo a ricordarlo.
Anche se, in effetti, l’unico amico di mio fratello che avevo conosciuto – più o meno – era Justin; Dante tendeva a stare più alla larga possibile da casa nostra, quelle poche volte che usciva con i suoi amici, perciò nessuno di noi li conosceva per davvero.
“E … e sapevi … sapevi quello che voleva fare …?” mormorai ancora, incredula, infilzandomi la coscia con le unghie. “Perché non lo hai fermato?”
Lui si grattò il collo, abbassando la testa. “Credimi, ci ho provato davvero. Ma quando Dante ha capito che avrei tentato di fermarlo, mi ha letteralmente tagliato fuori … e non ho potuto fare più niente.”
Sbattei forte la mano sul cruscotto, guardandolo adirata. “Come niente? Potevi denunciarlo! Dirlo ad Elia. O alla mamma. O a me. A qualcuno, però!” protestai, sentendo montare dentro di me la voglia di prendere a pugni anche lui. “E poi … è mai possibile che tu fossi l’unico che … che sapeva qualcosa?”
“In quel periodo anch’io avevo dei problemi, Carter. E farmi coinvolgere dalla polizia non avrebbe … giovato, ecco, alla mia situazione. So che ti sembrerà orribile, ma davvero, ti giuro, se avessi potuto lo avrei legato da qualche parte pur di fermarlo ed evitare quella pazzia!”
Per quanto mi sembrasse dannatamente sincero, però, la rabbia era troppa. E solo in un secondo momento riuscì a realizzare che Travis Roden, il ragazzo che avevo di fronte, era la mia unica possibilità di conoscere finalmente la verità sulla vicenda senza dovermi scontrare con le bugie di Elia e Justin.
 “E tu eri l’unico con cui si era confidato?” insistetti, legandomi insofferente i capelli in una lunga coda. “Che cosa sai, esattamente? Voglio che tu mi racconti tutto quello di cui sei a conoscenza!”
“No, macché, l’aveva detto a me e … oh cazzo!” Sgranò improvvisamente gli occhi, fissando un punto indefinito sopra la mia testa. “Attenta, Carter!”
Lo sportello dietro la mia schiena si aprì di scatto, e dovetti aggrapparmi alla mano che Travis aveva allungato per non cadere di testa a terra.
Prima ancora di poter ristabilire il mio equilibrio sul sedile, qualcosa – o meglio qualcuno – mi scaraventò con una brutalità inaudita fuori dalla macchina; rischiando nuovamente di inciampare nei miei stessi piedi, poggiai male quello destro per tenermi dritta sentendo una fitta acuta colpirmi la caviglia.
Mordendomi la bocca per trattenere un gemito di dolore sollevai lo sguardo, incendiandomi d’ira nel notare chi mi stava effettivamente di spalle.
Justin, piegato sul finestrino della macchina, rifilò qualche minaccia di ripercussioni a Travis se non mi fosse stato lontano, intimandogli di sparire da lì il più velocemente possibile.
“Travis, no, ho bisogno di parlarti!” urlai stizzita, guardandolo disperata negli occhi – sperando leggesse tutta l’urgenza che provavo nel terminare quel discorso appena agli inizi.
Il ragazzo mi lanciò uno sguardo rassicurante, sorridendomi gentile. “Tranquilla, Carter”  tentò di rincuorarmi, prima di sgommare lontano da lì; lontano da me, portandosi dietro tutta la verità e con sé la mia speranza di sapere.
Con il fuoco bruciante della rabbia riscaldarmi lo stomaco, fronteggiai impertinente uno Justin – se possibile – più incavolato, teso, aggressivo e rosso di rabbia di prima; gli occhi, di una tonalità più scura e inquietante del solito, sprigionavano tutta la voglia di prendermi a schiaffi che aveva.
Sotto quello strato nero, però, riuscì ad individuare qualcos’altro, come paura e tormento … ma fu solo un brevissimo attimo, prima che tornasse la maschera di pietra che era.
“Come diavolo di sei permesso, razza di imbecille?” gli urlai in faccia, spintonandolo indietro con tutta la mia forza, riuscendo a farlo indietreggiare di qualche passo. “Ma ti rendi conto di che razza di bastardo sei? Non hai nessun diritto di comportarti in questa maniera assurda, te l’ho sempre detto, ma tu non vuoi capire. Ma ti rendi conto di cosa hai fatto? Chi diavolo ti credi di essere, eh Justin? Devi smetterla, una buona volta.  Perché, notizia dell’ultima ora, non sei mio fratello. Né tantomeno mio padre!”
“Tu non ce l’hai nemmeno mai avuto un padre!”
Mi ero sempre chiesta, guardando CSI Miami con Keaton, cosa si provasse nello sentire il proiettile di una pistola conficcarsi nel corpo di qualcuno, lacerargli la pelle, strapparla, farla a pezzi.
Fortunatamente non m’era mai successo, ma immaginavo la sensazione fosse quella provai nel sentire Justin pronunciare quelle maledette parole.
E, sul serio, nemmeno l’attrice più brava sarebbe stata in grado di mascherare quel tipo di dolore.
A quel grido sussultai fisicamente. Arretrai di scatto, con le ginocchia sul punto di cedere sotto il mio peso, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata tanto ero stata colpita a fondo.
E poi successe il peggio del peggio: sentì un pizzicore fastidioso salirmi dalla bocca dello stomaco lungo, lungo per la gola, attraversarmi le guance e arrivare dritto agli occhi, rendendoli umidi, delicati, e ricoperti da una patina trasparente che mi bloccava la vista.
E un singhiozzo, roco e acuto, mi sfuggì dalle labbra; lo sentì rimbombarmi nelle orecchie, rumoroso, doloroso, tagliente.
Attraverso l’alone umidiccio che mi copriva gli occhi vidi Justin stringere le braccia e fare un passo verso di me; sprizzava ira da tutti i pori. “Carter … cazzo, Carter …”
“Non toccarmi!” gridai, non riuscendo a sopportare il pensiero di averlo vicino in quel momento. “Lasciami stare! Non mi toccare!”
Testardo, Justin osò fare un altro passo in mia direzione.
Poi fu un attimo.
Jared lanciò un grido degno di un gladiatore, prima di scagliarsi contro Justin e atterrarlo con un gancio destro dritto in piena faccia, lasciandomi così via libera.
E mentre gli altri ragazzi si destreggiavano per dividere i due, io raccolsi tutte le mie forze e mi lanciai in una corsa disperata verso casa, sentendo i pezzi del mio cuore cadermi a terra ad ogni falcata.
 
 
 











Writer’s corner:
Okay, questa volta sono davvero, davvero molto di fredda.
Mi scuso in anticipo per eventuali errori, che mi occuperò di correggere al più presto, giuro.
Scusate per il nuovo ritardo c:
Spero vi piaccia.
Baci ♥

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber / Vai alla pagina dell'autore: stereohearts