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Autore: FlyingBird_3    21/04/2015    3 recensioni
Berlino, 1938
La capitale tedesca è in fermento, viva più che mai grazie alle abili mani dei gerarchi nazisti; tra le sue strade però, le persone comuni svolgono la vita di tutti i giorni.
Tra queste vi è Gerda, una giovane ragazza berlinese amante della moda e della libertà; la sua routine quotidiana è scandita dal lavoro, da feste e chiacchiere con le amiche.
Tutto sembra perfetto finché un giorno, improvvisamente, fa la sua ricomparsa un’importante figura nella vita di Gerda: Andreas.
Andreas Lehmann è un ragazzo tutto d'un pezzo, reso una proiezione di sé stesso grazie ai tempi della dittatura; all’apparenza è freddo, distaccato dai rapporti umani, dedito solo al lavoro. Ma dietro la sua corazza, nasconde un passato di sofferenze e dolore che solo l’amore più sincero può guarire.
I due, amici dall'infanzia, si rincontreranno così dopo molti anni, scoprendo che non c'è via di fuga al loro destino.
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
Capitoli:
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Inutile dire che non mi scordai facilmente della proposta di Andreas quel fine settimana; ero in giardino con mamma a raccogliere rami secchi, quando una macchina nera si fermò davanti a casa. Non ci diedi molto peso, ma nel momento in cui un uomo con una pipa si affacciò dal cancello chiamandomi, capii che probabilmente era il suo autista.
< < La signorina Gerda? > >
Io e mia madre ci fermammo nello stesso momento, guardando quell’uomo elegante: indossava un completo nero e un cappello dello stesso colore calato sugli occhi. L’unica cosa che riuscii a scorgere furono due enormi baffi rossicci.
< < Si? > >
Sul suo viso vidi apparire un sorriso di vittoria, mentre fece segno verso la macchina.
< < Prego. Salga pure > >
Sentii il cuore accelerare un po’ di più in petto, mentre appoggiavo i rami a terra e mi avviavo verso casa per vestirmi; in tutto quello però mia madre rimase impietrita, con uno sguardo che era passato rapidamente dal dubbio alla sorpresa.
< < Gerda, lui chi sarebbe? Dove dovrebbe portarti? > >
Prima che potessi rispondere, l’autista di Andreas mi anticipò.
< < Non abbia paura. La signorina ha un appuntamento > >
Mia madre sembrò sempre più confusa, e non riuscii a capire se la stava prendendo bene o male.
< < Gerda non ha nessun appuntamento. Forse la sta scambiando per qualcun’altra > >
L’autista si accigliò un poco, e passò nuovamente a guardarmi.
< < Lei non è la signorina Gerda Pfeiffer? > >
< < Si, si sono io. Metto qualcosa sopra ed arrivo subito > > dissi, entrando in casa.
Lasciai la porta socchiusa, in modo da riuscire a sentire il discorso tra mia madre e l’autista.
< < Se posso sapere… Chi la manda? È il nuovo autista di Lilian? E dove dovrebbe portare mia figlia? > >
Non riuscii a trattenere un sorriso mentre indossavo le scarpe: mia madre era sempre un’impicciona. Buona, ma impicciona.
< < Mi manda il signor Lehmann, signora. Mi ha chiesto di portarla da lui> >
Uscii giusto per godermi l’espressione allibita di mamma dopo aver sentito la sua frase: nessuno, nemmeno io mi sarei mai aspettata che Andreas fosse arrivato così in alto da avere un’autista.
< < Ci vediamo più tardi, non ti preoccupare. Non dire niente a papà, preferisco parlargliene io > >
Le diedi un bacio e feci per uscire dal cancelletto, quando lei mi fermò per un braccio, avvicinandosi al mio orecchio.
< < Tesoro, ti fidi? Perché non è venuto lui, qui… > >
La fermai con un cenno della mano.
< < Ti ho detto che non devi preoccuparti mamma. Mi aveva chiesto di andare al lago, almeno ha mantenuto la sua promessa > >
Mia madre fece per controbattere, ma fui più veloce di lei e sgattaiolai fuori dal cancelletto in men che non si dica.
Trovai l’autista vicino alla macchina, e appena mi vide aprì la porta posteriore; mi sedetti, notando con piacere le eleganti rifiniture in pelle dei sedili beige.
Mentre ripartivamo ed io salutavo mamma dal finestrino, i miei occhi caddero sul posacenere davanti a me: era colmo, ed infatti un forte odore di tabacco impregnava il veicolo. Sarà andato ai laghi prima di accompagnare me? Oppure mi aspettava già lì? Diedi un’occhiata all’orologio e vidi che erano le cinque passate; un po’ tardi per arrivare fino alla periferia di Berlino.
Iniziai a diventare piano piano più nervosa, così decisi di parlare con l’autista per vedere se lui aveva qualche informazione in più su Andreas di cui io non ero ancora a conoscenza.
< < Lo fa spesso? > > chiesi all’improvviso.
< < Cosa? > > rispose, colto probabilmente alla sprovvista.
< < Andreas gli chiede spesso di andare a prendere ragazze e di portarle… dove mi sta portando? > >
Lo vidi sorridere sotto i baffi, attraverso lo specchietto retrovisore.
< < Non posso svelare i segreti del mio mestiere signorina. Posso solo dirle che è la prima volta che mi chiede di portare qualcuno dove la sto portando ora > >
Mi voltai verso il finestrino, guardando la città scorrere davanti a me; nonostante erano passati solo una decina di minuti, continuavo a vedere il solito paesaggio urbano.
< < Posso chiederle che tipo di rapporto ha con Andreas? > >
< < Siamo vecchi amici > >
Rimasi sorpresa della risposta, tanto che dovetti riflettere qualche minuto prima di rispondere.
< < Ma lei non lavora per lui? > >
< < Si signorina. Ma siamo diventati amici. Ho un profondo rispetto per il signore, farei per lui qualsiasi cosa mi chiedesse > >
Lo guardai stranita, dopodiché sospirai, guardando fuori. Solo a me sembrava che non fosse più la persona che era una volta? O magari non era mai cambiato, ma l’avevo semplicemente visto con occhi diversi.
< < Mi lasci dirle una cosa… Penso ci sia molto di più in lui di quello che lascia trasparire. Non si lasci persuadere dall’esterno. Siamo arrivati. > >
La macchina si fermò improvvisamente davanti ad una fila di case molto eleganti; sembrava che fossimo arrivati nel quartiere di Charlottenburg. Ma non dovevamo vederci ai laghi?
L’autista mi chiese di aspettarlo dentro la macchina, ma io non l’ascoltai minimamente, aprendomi la portiera da sola. Non avevo bisogno di quelle accortezze in quel momento.
< < Signorina… ah, va bene come vuole. Prego mi segua > >
Mi fece segno di andare verso un grande palazzo: era a quattro piani con mattoni a vista rosso scuro, e magnifiche balconate in ferro bianco. Da ogni balcone si ergevano bellissime piante colorate, nonostante fossimo già a metà novembre. Lo seguii e lo vidi aprire un piccolo cancello d’ottone; salimmo quattro scalini e successivamente aprì il grosso portone di legno scuro.
< < Prego, dobbiamo salire al terzo piano > >
Esitai, spostando lo sguardo dall’autista alla tromba delle scale: era casa sua quella? Perché mi aveva fatta andare lì quando aveva detto che ci saremmo visti al lago?
Sapermi nella sua casa, da sola con lui, mi fece indugiare.
< < C’è qualcosa che non va? > > chiese l’autista togliendosi il cappello e sfoggiando due magnetici occhi azzurri e una lucida pelata.
< < No… no. Mi faccia pure strada > >
Salimmo tre piani di scale, quando finalmente l’uomo bussò ad una grande, e alla vista, pesante porta in mogano scuro.
Aspettammo in silenzio, mentre mi guardavo nervosamente intorno in cerca di qualcosa che attirasse la mia attenzione; tutto sembrava fastidiosamente lindo e pulito.
Quando finalmente la porta dell’appartamento si aprì, apparve l’alta figura di Andreas in tenuta civile: sembrava indossasse gli stessi vestiti del giorno in cui lo incontrai all’Haus Vaterland. Gli occhi parevano stanchi, come se avesse passato la notte sveglio.
< < La ringrazio Georg. Ci vediamo presto > >
L’autista abbassò leggermente il capo a mo di saluto, e si congedò da me con un piccolo sorriso.
Andreas era in piedi sull’uscio che teneva aperta la porta.
< < Entra pure > > disse.
Io ammutolii improvvisamente, incapace di pensare a qualcosa di giusto da dire; mi tolsi il cappotto all’entrata e lo appesi vicino alla porta, dove un austero copri divisa grigio spiccava nel vuoto.
Osservai la casa, estremamente grande, e allo stesso tempo estremamente spoglia. Spiccavano i colori scuri dei mobili in legno, vuoti, e qualche quadro insignificante sulle pareti.
Ci accomodammo in quello che doveva essere il salone: due vetrine vuote erano poste sulla parete a destra, mentre sulla parete a sinistra c’era solo il caminetto con due poltrone e un tavolino. Due grandi tende scure impedivano alla luce riflettente di quel pomeriggio di entrare, così da far sembrare il tutto scuro e vuoto.
Mi sarei aspettata tutt’altra cosa come casa di Andreas. Tutto era così… spoglio. E triste.
< < Perdonami se non siamo andati al lago oggi, ma purtroppo ho dovuto lavorare. Ho ancora parecchio da fare, ma per ora può aspettare > >
Mi sedetti su una poltrona rossa notando che era dura e immacolata, come se non fosse mai stata usata.
< < Sei solito invitare donne a casa tua? > >
Lo so che non avrei dovuto esordire con una domanda del genere, ma la curiosità e la sorpresa erano al culmine.
Lo vidi sorridere leggermente, mentre si accendeva una sigaretta; ne porse una a me ed io la accettai volentieri. Feci per prendere l’accendino dalla borsetta quando lui mi porse il suo, già acceso; vidi la fiammella scoppiettare dentro i suoi occhi azzurri, e non potei non avvicinarmi già con la sigaretta tra le labbra. L’improvviso incantesimo si spezzò nel momento esatto in cui richiuse, con quella che mi sembrava una violenza inaudita, l’accendino.
< < Ti piace casa mia? > > disse, senza rispondere alla mia domanda.
Feci l’azione di guardarmi intorno, ma in realtà non c’era proprio nulla da guardare.
< < Si… beh diciamo che sarebbe più interessante con qualche mobile e tappeto… > >
Lui fece un cenno d’assenso con la testa.
< < Si, hai perfettamente ragione, ma quelle sono cose da donne. Non ci sono quasi mai in casa, figurati se avrei tempo per arredarla > >
Lo vidi osservare il caminetto spento, come se la sua mente fosse altrove; un silenzio imbarazzante calò tra noi, e mi sbrigai a trovare qualcosa di cui parlare.
Girai la testa per osservare le vetrate coperte dalle pesanti tende: sono sicura che se fossero state aperte, tutta la stanza avrebbe avuto un aspetto diverso.
< < Sai cosa ci starebbe bene là? > > dissi, indicando un punto vicino alle finestre completamente vuoto.
Andreas mi guardò in attesa della risposta.
< < Un pianoforte > > dissi, sognante. < < È proprio il posto giusto. Mi immagino che bello sarebbe suonarlo la sera, quando le luci del tramonto si riflettono sulla superficie > >
Tornai a guardarlo, mentre lui spostava lo sguardo da me alle vetrate.
< < Già, avevo dimenticato che a te piace suonare il pianoforte. Lo fai ancora? > >
Scossi la testa.
< < No purtroppo. Sono molti anni che non ne ho più la possibilità > >
Pensai tra me e me che forse quel discorso stava andando a finire in un punto critico; davvero non avevo voglia di tornare a parlare di quello che era successo. Lui però sembrava non farci caso.
< < Mi dispiace per come sia andata a finire tra di noi. Dopo la morte di mia madre… il trasferimento, il cambio di scuola… tutto è cambiato. Probabilmente è brutto da dire, ma a quel tempo continuare a vederti per me significava continuare a tenere aperta quella parte della mia vita che apparteneva al passato > >
Rimasi impietrita nel sentirgli pronunciare improvvisamente quelle cose; sembrava davvero essere diventato un uomo grande e maturo.
< < Ed è ancora così per te? Appartengo ancora al passato che vuoi chiudere? > >
Lui finalmente si girò verso di me, guardandomi intensamente negli occhi.
< < Ad un certo punto della vita accetti il tuo passato per quello che è stato, e lo fai diventare parte di te. A causa del mio lavoro devo spesso nasconderlo, tenerlo segreto. Però c’è stato un periodo che mi manca molto, quando abitavamo al villaggio. Prima le cose erano così semplici, ora sono solo tanto complicate. Quando ti ho vista al Riviera Palace è stato come riprendere fiato, una boccata di aria fresca > >
Alzai un sopracciglio, sorridendo.
< < Davvero? Nonostante tutto questo tempo non hai mai pensato che potessi essere cambiata dall’ultima volta che ci siamo visti? > >
< < Ho sempre pensato che sei una donna intelligente. E se uno è intelligente da piccolo, lo è anche da grande > >
Mi sorpresi un poco nel sentire quel complimento: spesso vengono fatti apprezzamenti sulla bellezza, ma sono rari i complimenti sull’intelligenza.
< < Ti manca tua madre? > > chiesi, sperando di non fare una domanda spinosa.
Lui si grattò la fronte, allungandosi sulla poltrona.
< < Sempre. Mi sono abituato al fatto che non ci sia più, e avere un lavoro impegnativo mi aiuta a non pensare a tante cose, forse troppe… La cosa che mi premerà sempre è il fatto che se ne sia andata via così presto, soffrendo così tanto > >
Rimase ad osservare davanti a sé per un po’, e così non notò la cenere della sigaretta che si posava sul bracciolo della poltrona.
< < Andreas, la sigaretta… > >
Lui seguì il mio dito e si alzò di scatto quando si rese conto che stava quasi per bruciare il divanetto; andò a sbattere contro il tavolino facendo cadere il posacenere che finì in mille pezzi al suolo.
< < Lascia faccio io > > dissi, aiutandolo.
< < Aspetta vado a prendere la scopa… dovrebbe essere qui da qualche parte… > >
Lo vidi dirigersi in una stanza adiacente il salone, e affacciandomi notai che si trattava di una piccolissima cucina.
< < Tieni la scopa in cucina? > > dissi sorpresa.
< < Si perché? È il posto in cui la trovo quando serve > >
Non potei fare a meno di scuotere la testa e sorridere; sarà che la mamma aveva una scopa diversa per ogni zona della casa, ma mi ha sempre proibito di tenerne una in cucina.
< < Perché ridi? > > disse quando tornò nel salone, aprendosi anche lui ad un sorriso e rendendolo molto più bello di quello che già non fosse.
< < Niente. Ma sei buffo con la scopa in mano… > >
Gliela tolsi dalle braccia e in pochi secondi ripulii il pavimento dalle schegge del posacenere.
< < Sono rimasti alcuni segni per terra… > > dissi, riportando il tutto in cucina.
Lo trovai che scrutava dentro alla dispensa sopra i fornelli.
< < Si, non importa. Stavo guardando se c’è qualcosa da mangiare, ma sembra non essere rimasto niente… > >
Mi avvicinai a lui guardando all’interno, ed effettivamente le dispense sembravano vuote, a parte dell’olio e del sale.
< < Non mangi mai a casa? > > gli chiesi.
< < No, di solito sono sempre al ristorante. Però aspetta… > >
Uscì dalla cucina e si diresse di gran passo verso l’entrata.
< < Dovrei… ah ecco. > >
Lo vidi tornare con una busta piena di dolcetti, tipici della Baviera, ed una bottiglia.
< < Li ho presi questa settimana, sono buoni. Li hai mai assaggiati? > >
Me ne porse uno con scritto Buona fortuna!.
< < Credo di no… > >
Finimmo per mangiarli tutti e finire un’intera bottiglia di vino rosso.
< < Beh non sapevo che ti piacesse così tanto il vino… la prossima volta ne prenderò di più allora… > >
Io mi misi a ridere senza motivo, complice l’alcool che mi stava dando alla testa.
Mi alzai dalla poltrona e mi diressi quasi volteggiando verso le finestre, scostando le pesanti tende.
< < Guarda che bella vista, perché non lasci aperto? > >
Lui si alzò e si avvicinò a me, guardando fuori.
< < Perché se avrei voluto dormire, mi sarei dovuto alzare a chiudere le tende… > >
Non sapevo perché ma anche quello che disse mi fece ridere, quasi a crepapelle: dovevo davvero smetterla di bere così tanto.
Quando mi calmai, presi ad osservarlo in ogni suo lineamento, mentre lui guardava fuori.
< < Cosa c’è? > > disse lui, sorpreso.
< < Sai cosa mi piaceva di più di te quando ero piccola? Il tuo sorriso. Non sorridevi spesso, ma quando lo facevi era come se all’improvviso uscisse il sole… e tutto il tuo viso ne prendesse la luce. Non ne ho visti parecchi di sorrisi così, sai? > >
Lui mi guardò, scostando un ciuffo di capelli dal mio viso.
< < Sei ubriaca? > >
Lo guardai con espressione ammonitrice.
< < Ubriaca? No… Un poco alticcia forse… Guarda riesco ancora a toccarmi la punta del naso con la punta del dito… > >
E ci riuscii, finché il dito non mi finì dentro un occhio.
< < Ti sei fatta male? > >
Lo sentii ridere, mentre io imprecavo tra me e me.
< < Dai fai vedere > >
Mi avvicinò mettendomi una mano dietro la nuca, e tutto all’improvviso si fece più silenzioso. Mi girò verso la luce, cosicché i suoi occhi poterono scrutare dentro i miei: due pozzi infiniti d’azzurro, questo è tutto quello che ricordo di quel momento. I suoi occhi e le sue labbra morbide che accoglievano pazienti le mie.
La sua mano mi stringeva così forte la nuca che non riuscivo a muoverla, lasciando condurre i giochi a lui.
E poi come iniziò, finì anche presto: un’insistente squillo di telefono ci obbligò a separarci.
< < Scusa, ma devo rispondere > >
Mi lasciò andare, ancora un po’ scossa dal suo bacio.
Si intrattenne al telefono per quelle che sembrarono ore, ma in verità furono solo venti minuti; venti minuti in cui mi passò leggermente la sbornia e mi accorsi che erano le nove e mezza di sera. Mia madre mi avrebbe uccisa.
Presi la borsetta e scrissi un biglietto ad Andreas: non sapevo per quanto ancora si sarebbe trattenuto, ma avrei già dovuto essere a casa da un bel pezzo.
Lo lasciai sul tavolino davanti alle poltrone, in modo che lo potesse vedere; presi le mie cose e silenziosamente uscii di casa, senza farmi sentire.
Corsi a perdifiato verso l’uscita di quella via, scoprendo che mi trovavo vicino al Jockey Bar. Tirai un sospiro di sollievo e mi diressi verso la più vicina fermata della metropolitana, con le farfalle nello stomaco per la felicità.
  
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