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Autore: fren    25/04/2015    3 recensioni
'«Non l'ho presa perché la desideravo» mi aveva rivelato, tanti anni prima. «L'ho portata via perché stava avvelenando il cuore delle persone che amavo. Il potere logora l'anima degli uomini.»
Le sue parole mi avevano fatto rabbrividire. Sì, io lo sapevo. L'avevo provato sulla mia pelle.
Gourry, invece, sembrava estraneo a quel richiamo. Infatti non si era fatto problemi a cedere la Spada, quando gli era stato imposto come prezzo da pagare per riavere me.
La sua anima era incorruttibile. Il suo cuore era puro e trasparente come il vetro.
Solo lui poteva portare l'arma di luce senza restarne abbagliato. Questo, la sua famiglia, non lo aveva mai accettato.'
Seguito di una mia precedente fanfiction, 'The Borderline'. Mi vedo costretta, per ragioni di trama, a mettere l'avvertenza OOC. Lettori avvisati^^
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gourry Gabriev, Lina Inverse, Personaggio originale
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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I doveri di un Duca
I doveri di un Duca


L'unico modo di liberarsi di una tentazione è cedervi.
(Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray)


La vecchietta sedeva sotto l'albero di pere, le braccia incrociate davanti al petto e l'espressione ostinata. Io e Anouk la osservavamo dal ballatoio che affacciava sul cortile interno.
«Vacci tu.»
«No, vacci tu. »
Sospirai, irritato.
«Perché devo andarci sempre io?»
«Sei il fratello maggiore, le grane spettano a te. Pensavo fosse così che funzionava.»
Feci per ribattere, ma avevo esaurito le mie argomentazioni. Anouk mi rivolse un sorriso limpido, che non riusciva a mascherare la crudele soddisfazione di avermi appena incastrato. Dei, a volte rimpiangevo i giorni in cui non parlava. A quattordici anni era più astuta di una volpe, e stava diventando terribilmente sfacciata.
Mi gettai il mantello su una spalla, sbuffando, e le puntai un dito contro.
«Mi devi un favore.»
«Joy, io ho perso il conto di tutti i favori che mi devi tu.»
«Questo... non cambia le cose. Mi devi un favore. E non gongolare.»
«Non sto gongolando» rispose mia sorella, trattenendo a stento un sogghigno compiaciuto.
«Vipera.»
Anouk mi salutò con la mano, mentre mi dirigevo verso la scala che portava al giardino.
«Resterò a guardarti da quassù mentre tenti di convincerla! Farò il tifo per te.»


Mi incamminai nell'erba fresca di rugiada, fino a raggiungere le fronde ombrose del pero. La Vecchia Scorbutica, come la aveva soprannominata Anouk, teneva il mento alzato e finse di non vedermi quando arrivai al suo fianco.
«E dunque, Lady Selina, vedo che siete ancora qua. Questo giardino deve piacervi davvero molto...» dissi, cercando di mantenere un tono conciliante.
«In tutta onestà trovo che il vostro giardiniere sia un tremendo sfaccendato, oltre che un incompetente» rispose lei, sputando fuori ogni parola come se fosse un insulto. «Dovrebbe potare quelle rose, tanto per cominciare. Stanno invadendo tutto il muro.»
«A noi piacciono così» risposi, ripetendomi che dovevo stare calmo.
Conta fino a dieci, Joy. Tanto non puoi ucciderla, è già morta purtroppo per te.
Mi piegai al suo fianco, cercando i suoi occhi. Era il suo punto debole. Guardandomi avrebbe dovuto ammettere che era finita. Che il suo tempo si era concluso e che era venuto il momento di accomiatarsi. Non c'era più nulla che potesse fare, doveva solo passare oltre, per non prolungare quell'amarezza. Ma Lady Selina non voleva arrendersi. Gli spiriti come lei erano i peggiori. Arrivavano fino a Solaria e poi si rifiutavano di oltrepassare il confine. Non gli restava più nulla, ma non accettavano che fosse tutto finito.
«Lady Selina» la chiamai piano, quasi un sussurro.
Lei sospirò, accigliata, poi si voltò verso di me. La sua pelle era bianca come il latte, segnata da infinite rughe che ne indicavano l'avanzata età. Gli occhi di un azzurro chiarissimo. Era abbigliata con vesti sfarzose, che lasciavano intendere la sua appartenenza a un alto rango sociale. Io, tuttavia, non sapevo chi fosse. Mi aveva rivelato solo il suo nome quando era arrivata, con fare altezzoso. Poi si era seduta sotto quell'albero e non si era più mossa, caparbia come poche. Avevo conosciuto solo un'altra persona altrettanto ostinata.
Anouk aveva provato prima di me a farla passare oltre, e aveva ricevuto in cambio solo un'aspra ramanzina.
«Non sta bene che una ragazzina della tua età si rivolga a una della mia con questo tono» la aveva rimproverata Lady Selina, quando Anouk aveva, infine, perso la pazienza. Da qui il soprannome di Vecchia Scorbutica.
Da tre giorni infestava il nostro giardino, e non aveva la minima intenzione di spostarsi da lì.
«Cosa vi trattiene, lady Selina? Questo indugio non serve a nulla, se non a prolungare il vostro dolore.»
«Cosa ne sapete del mio dolore?» C'era asprezza nel suo tono, i suoi occhi lanciavano dardi infuocati.
«Nulla, in tutta onestà. A meno che voi non vogliate rivelarmi il motivo per cui ancora non siete passata oltre. Le vostre questioni in sospeso.»
«Non ho questioni in sospeso» asserì, algida. «E anche se le avessi, non vedo perché dovrei rivelarle a un giovanotto come voi, uno che puzza ancora di latte!»
«Voi mi lusingate, signora. Ma temo di aver passato i tre lustri, ormai. E comunque, se non avete nulla che vi tiene legata qua, perché vi ostinate a restarci? Questo posto nemmeno vi piace!»
«No, infatti.»
Distolse lo sguardo dal mio, alzando il mento con aria di superiorità, e incrociò le braccia al petto.
Per la miseria, era più cocciuta di un mulo! Avrebbe fatto perdere le staffe anche a un santo. Ma io avevo una certa esperienza di donne con la testa più dura di una noce di cocco. O meglio, un'unica esperienza. E mi era bastata per il resto della vita.
«Fate come volete. Se preferite restare qua, per me non fa alcuna differenza. Sappiate però che, qualsiasi sia il rimorso che vi tormenta, non se ne andrà se resterete.»
«Come sapete che si tratta di un rimorso?»
«Si tratta sempre di un rimorso.»
Lei tornò a guardarmi. I suoi occhi avevano perso un po' della loro abituale aria di superiorità.
«Io... ho fatto degli errori. Errori... imperdonabili» disse infine, in un soffio. «Non posso andarmene senza la certezza che qualcuno vi porrà rimedio.»
«D'accordo, vediamo cosa si può fare.»
«Voi...?»
«Sì, in genere sono io che mi occupo di queste cose.»
Lo spirito mi guardò con aria sospettosa e fu il mio turno di incrociare le braccia al petto.
«Temo che non troverete altre persone disposte ad ascoltarvi. In tutti i sensi.»
Lei aggrottò le sopracciglia. Doveva aver capito che ero la sua ultima occasione per levarsi dall'anima ciò che vi pesava sopra, forse da troppi anni.

Rientrai a palazzo che imbruniva. Il cielo si era coperto e grosse nubi gonfie di pioggia sovrastavano le guglie. Ero esausto.
Anouk si affacciò alla porta della sua stanza mentre passavo nel corridoio.
«Se ne è andata?»
«Sì, finalmente.»
«E quindi?»
«Quindi cosa?»
«Cosa la tratteneva?»
Lasciai passare qualche secondo. La storia di Lady Selina era, in effetti, piuttosto triste. La sua unica figlia era morta nel dare alla luce una bambina nata dall'unione con un cavaliere sconosciuto, che si era fermato nel loro feudo solo per il tempo di avere una fugace avventura amorosa. Lady Selina e suo marito non avevano voluto avere niente a che fare con la nipote, che ritenevano frutto di un atto deplorevole e colpevole, al tempo stesso, della morte della loro adorata figlia. La avevano abbandonata a un incerto destino, quella piccola creatura, senza più saperne niente. Anche se pensava di aver fatto la cosa giusta, quella vecchia signora altera e irremovibile aveva portato per tutta la vita nel cuore una ferita che non poteva e non riusciva a rimarginarsi.
«Se andrò dall'altra parte, ci sarà mia figlia ad aspettarmi. E lei mi rimprovererà per non aver saputo proteggere la sua bambina. Per averla allontanata. Trovatela, Messer. Trovate la mia nipotina e accertatevi che stia bene.»
Ci era voluto del tempo per convincere Lady Selina a passare il confine. Gli spiriti che avevano questioni in sospeso erano i più tenaci.
«Voleva che cercassi sua nipote» risposi ad Anouk, passandomi la mano sugli occhi.
«E tu cosa le hai risposto?»
«Che l'avrei cercata.»
«Ma non hai la minima intenzione di farlo.»
«Certo che no.»
Anouk mi scrutò con quel suo nuovo sguardo sempre pronto a giudicare. Avrei sostituito volentieri la ragazzina con gli ormoni in subbuglio che era diventata con la dolce e timida bambina che era stata. Lei non mi avrebbe guardato in quel modo.
«Cosa dovrei fare, Anouk, mettermi a cercare tutti i maledetti parenti degli spiriti che faccio passare oltre e risolvere le loro questioni in sospeso?»
«Il Dono dovrebbe servire a quello. A fare in modo che gli spiriti siano in pace.»
«Beh, Lady Selina se ne è andata in pace, se è questo che ti preme sapere. Tanto lo sappiamo entrambi come va a finire. Non troverà sua figlia dall'altra parte, la sua anima sarà già stata rigenerata.»
«Questo non cambia le cose. Avevi il dovere di aiutarla. Dovresti mantenere la promessa che le hai fatto.»
Un cupo boato, all'esterno, fece tremare i vetri. Stava arrivando una tempesta con i fiocchi, gli alberi erano già scossi dal vento.
«Non posso aiutare tutti gli spiriti che incontro, Anouk.»
«No, infatti. L'unica persona che hai aiutato, aiutato davvero, è stata Lina Inverse.»
Deglutii, serrando le dita in un pugno tanto stretto che le nocche sbiancarono.
«Queste non sono faccende che ti riguardano» sbottai, adirato. «E comunque, se ci tenevi tanto che Lady Selina avesse il suo lieto fine, avresti potuto aiutarla più, invece di battezzarla Vecchia Scorbutica e tenerti alla larga da lei!»
«Io non le avrei fatto promesse che non ero in grado di mantenere» fu il suo gelido commento. «Promesse che non avrei nemmeno provato a mantenere.»
«Beh, tanto meglio per te, che sei così irreprensibile.»
Lei mi osservò con aria di profondo disgusto, prima di sbattermi la porta in faccia. Se Elizabeth fosse stata lì con noi, forse le cose sarebbero state diverse. Ma Elizabeth non c'era più, e Anouk doveva accontentarsi di me.

Tornai in camera mia con un diavolo per capello. Ecco cosa ci avevo guadagnato, da quella nuova vita: spiriti lamentosi e una sorella adolescente pronta a farmi la guerra a ogni passo falso che commettevo. Mi tolsi il mantello e la tunica con gesti rabbiosi e li lanciai in un angolo della stanza. Aveva iniziato a piovere e lungo i vetri colavano lunghi rigagnoli d'acqua. Fuori c'era il finimondo.
Mi buttai sul letto, l'aria fredda della sera che mi sfiorava la pelle nuda del petto, e mi coprii gli occhi con i palmi.
Mi mancava viaggiare. Mi mancava la vita che facevo prima della grossa responsabilità che mi era piombata addosso quando avevo capito chi ero davvero, e quale era il mio dovere. Solaria non era un semplice ducato. Era un passaggio, e io ero il custode di quel passaggio. Nessuno mi aveva insegnato a fare quello che facevo, più o meno consapevolmente, da tutta la vita: interagire con il mondo dell'ombra, con gli spiriti dei defunti che non trovavano la strada per passare oltre.
Era un compito che non avevo scelto, ma nascere con il Dono non mi aveva lasciato scampo: combattere quella parte di me stesso si era rivelato troppo impegnativo. La avevo accettata, alla fine, perché non c'era altro che potessi fare.
Però a volte mi pesava essere ciò che ero. Mi sentivo inchiodato a un ruolo che non avevo scelto, e questo mi faceva rabbia.
Che diavolo si aspettava da me, Anouk? Che mi mettessi sulle tracce di una donna di cui si erano perse le tracce vent'anni prima? Lady Selina non aveva saputo più nulla di sua nipote, dopo averla lasciata nelle braccia di una fantesca che, per denaro, era stata incaricata di sbarazzarsene. Poteva anche essere morta, quella bambina.
«Al diavolo tutto» sbottai, voltandomi su un fianco e sprofondando il volto nel cuscino. Rimasi a osservare l'acqua sbattere contro i vetri sentendomi sempre più malinconico, fino a quando il sonno non si impadronì di me.

A svegliarmi, dopo quelli che mi parvero solo pochi istanti, fu un insistente bussare alla mia porta.
«Vostra Grazia?»
Mi tirai su di scatto, sbattendo le palpebre, confuso. Fuori era ancora notte. Il mio primo pensiero andò ad Anouk.
«Cosa c'è?» gridai, sollevandomi e andando ad aprire. Fuori, sulla soglia, c'era uno dei miei servitori con un candelabro in mano. Il suo volto appariva sinistro tra le ombre gettate dalla luce delle candele.
«C'è una persona, ai cancelli, che chiede di voi.»
«A quest'ora? Con questo tempo? Chi diavolo è?»
«Una donna, Vostra Grazia. Non vi avrei disturbato se non mi fosse sembrata una faccenda... importante.»
«Ah sì? E com’è, carina?»
Il servitore attese qualche secondo. La sua espressione era accigliata.
«Dato che lo chiedete, sì, è una donna bellissima, Vostra Grazia. Dice che un tempo questo era il suo palazzo; Il suo nome è...»
«Camelia» lo anticipai, incupendomi.
Il servitore annuì.
Sospirai.
«Falla entrare.»
Dopo che se ne fu andato rimasi diversi minuti immobile, a fissare il corridoio buio e silenzioso.
Camelia. Camelia e Nayden. Nayden che prendeva accordi con lei e con sua madre. Nayden, che non si sarebbe fatto scrupoli a uccidermi per ottenere quello che voleva: il Ducato, il ruolo che era mio di diritto. Lui lo sapeva, lo aveva sempre saputo, contrariamente al sottoscritto, e se ne era servito per muovermi come una marionetta. Nayden, il burattinaio. E Camelia, la donna che lo amava.
Mi infilai la tunica e scesi nel salone.
Camelia era in piedi davanti al fuoco. Mi dava la schiena, lo sguardo rivolto alle fiamme. Lanciai una breve occhiata alla sua figura esile; la vita sottile, le braccia snelle. I vestito che indossava, intriso di pioggia, le stava appiccicato addosso. I capelli erano raccolti in una treccia pesante, da cui gocciolavano rivoletti di acqua.
Non si voltò subito verso di me, ma quando lo fece rimasi, per un breve istante, senza fiato. Sì, era bella come la ricordavo. Forse anche di più. In un volto di porcellana brillavano due occhi verdi come smeraldi e insolitamente penetranti.
«Joy» disse, con un sussurro. «O, forse, dovrei chiamarvi Vostra Grazia.»
«Joy va benissimo» tagliai corto, brusco. «Cosa vuoi? Perchè sei... tornata?»
Lei sospirò. Tremava, doveva essere gelata. Eppure non provavo pietà per lei. Qualcosa si era incrinato in me nell'esatto istante in cui i suoi occhi avevano incontrato i miei. Il passato mi era caduto addosso come una valanga, travolgendomi. Camelia, Rebecca, Nayden. Gourry. Lina.
Lina.
Guardare Camelia mi faceva ricordare quello che aveva passato Lina. Non lo avevo mai superato del tutto. I capelli bianchi che mi sporcavano le tempie, ad appena trent'anni, ne erano la prova.
«Io... non avevo un altro posto dove andare. Mia madre è morta.»
Rimasi in silenzio. Non avevo parole di cordoglio da offrirle.
«Mi fermerò solo una notte, se accetterai di ospitarmi. Sono in viaggio verso il Continente.»
Incrociai le braccia al petto. Fuori infuriava la tempesta, non potevo cacciarla via, anche se avrei desiderato farlo.
«Solo una notte concessi. Ripartirai all'alba, ti presterò una carrozza. Ti condurrà fino al porto. Non voglio che Anouk ti veda. Non deve sapere che sei stata qui.»
Camelia annuì, poi i suoi occhi si spostarono verso la porta.
Anouk era sulla soglia, aveva ascoltato ogni cosa.

Era passato un mese, e Camelia era ancora lì. Cercavo di evitarla, le rivolgevo il minor numero di parole possibile. Buongiorno, buonasera, non toccare le rose. Cose di questo tipo. Desideravo ardentemente che se andasse, lo desideravo più di ogni altra cosa, ma Anouk, dopo lo smarrimento iniziale, sembrava essersi legata a lei in una maniera che mi lasciava sconcertato. Non capivo se il suo atteggiamento era una ripicca nei miei confronti, oppure se davvero il fatto di aver ritrovato quella donna, con cui in fondo era cresciuta considerandola una sorella, avesse risvegliato in lei sentimenti sopiti ma mai scomparsi.
Le guardavo, dal ballatoio, passeggiare insieme nel giardino, ridere in modo complice e sussurrarsi segreti all'orecchio. Mi sentivo escluso da quella loro ritrovata sorellanza, ed ero preoccupato per Anouk. Non volevo che si affezionasse a una persona che, lo sapevo, potevo essere subdola e perfida.
Quando avevo provato a discuterne con mia sorella, tuttavia, la sua risposta era stata capace di farmi rimanere senza parole.
«Sei solo geloso. Pretendi che viva qua, con te, senza amiche, senza altri che te, che sei arrabbiato per la maggior parte del tempo.»
«Io sarei arrabbiato? Senti da che pulpito! E comunque non sono geloso, affatto.»
Però lo ero. Guardavo Camelia aggirarsi in quello che un tempo, quando io ero ancora un mercenario senza un soldo, era stato il suo palazzo, e mi facevo il sangue amaro. Era cresciuta lì, conosceva ogni angolo di quel castello tenebroso, si muoveva con una naturalezza che io ci avevo messo mesi ad acquisire.
La guardavo e non sopportavo i suoi capelli di seta, le labbra rosse e turgide, il seno stretto nel corpetto. Era tanto bella da levare il fiato. Ma era stata la donna del mio perfido fratello, la sua anima, ne ero certo, era altrettanto nera. Avevo giurato a me stesso che non mi sarei lasciato irretire.
Anche se non toccavo una donna da tanto, troppo tempo. Anche se lei mi lanciava occhiate che mi facevano ribollire il sangue nelle vene.
Non avrei ceduto, ne andava della mia sopravvivenza.

Poi, una sera, Camelia bussò alla porta della mia stanza.
Era tardi, Anouk dormiva da un pezzo. Le aprii, ma rimasi sulla soglia, impedendole di entrare. Lei indossava la camicia da notte, aveva i piedi nudi e i capelli sciolti sulle spalle.
«Sono venuta a dirti che domani parto. Ho approfittato fin troppo della tua ospitalità.»
«Bene» fu il mio unico commento. Averla tanto vicina offuscava la mia razionalità. La odiavo, la disprezzavo, ma il mio corpo non era d’accordo. Il mio corpo la voleva al punto che le mani mi formicolavano per il desiderio che avevo di posarle sulla sua pelle liscia e candida. Ero un uomo, dopotutto, e avevo passato troppe notti solitarie.
Anouk aveva ragione. Vivere lì, isolati da tutto e da tutti, ci stava consumando.
«Saluta Anouk per me. Mi mancherà. E mi mancherai anche tu.»
«Bugiarda.» Le parole mi erano uscite spontanee, e non mi pentii di averle pronunciate.
Lei sgranò leggermente gli occhi.
«Credi che ti stia mentendo? Perché dovrei? Non ho problemi ad ammettere quello che provo: mi sei sempre piaciuto, Joy. Forse non le hai mai notate le occhiate che ti rivolgevo, quattro anni fa.»
«Stavi con mio fratello, quattro anni fa.»
«Accordi. Semplici accordi. Non significava niente.»
«Accordi pericolosi, che ti hanno fatto fare una brutta fine» replicai, aspro. Non le avrei permesso di fare breccia nella mia corazza.
«Sì, hai ragione. Ma, credimi, ho scontato fino all'ultimo le mie colpe. Ho sbagliato, e ho pagato. Sto cercando di essere una persona migliore. Tu ci sei riuscito, perché io non dovrei quantomeno provarci?»
La sua espressione comunicava una fiera dignità.
«Dove andrai?»
«Te l'ho detto, nel Continente. Non c'è più nulla che mi tenga legata alla Penisola, ho perso tutte le persone che mi erano care. Tranne Anouk. E te. Ma voi non mi volete nella vostra vita.»
«Anouk ti vuole» dissi, e mi diedi subito dell'idiota. Era la mia occasione per liberarmi di lei, invece stavo facendo di tutto per trattenerla. Che diavolo mi diceva il cervello.
Forse non era il cervello, a farmi parlare in quel momento. O, forse, le sue parole sul fatto di diventare una persona migliore mi avevano colpito più di quanto fossi stato disposto ad ammettere.
«Sì, forse Anouk vorrebbe che restassi. Ma non è lei a decidere, e io non voglio importi la mia presenza.»
«Saggia decisione.»
Camelia sospirò. Le sue labbra si schiusero, mostrando il bianco dei denti, e il petto si alzò e si abbassò sotto la stoffa leggera della camicia da notte. Era scollata e io riuscii a scorgere la pelle candida e la linea dei seni. Fu come se mi avessero colpito dietro la nuca, per un attimo mi mancò il respiro.
«Addio, Joy.»
«Addio.»
Prima ancora che potesse darmi le spalle l'avevo trascinata dentro la stanza, chiudendo la porta e spingendoci Camelia contro.
Se non fosse stata così bella, non avrei ceduto. Se non fossi stato tanto solo, se...
Le strappai la camicia, aprendola sul petto, e affondai il volto tra i suoi seni, morsicandoli. Lei non protestò. La sentii infilare le dita sottili tra i miei capelli e gemere.
«Era questo che volevi?» domandai, accarezzandola tra le gambe. Non portava biancheria intima.
Le afferrai la gola con una mano, costringendola a sollevare il viso verso il mio. Sotto alle dita sentivo i muscoli tesi del suo collo, il lieve pulsare delle vene. Gli occhi di Camelia erano verdi come acqua di lago, ne possedevano la stessa insidiosa profondità.
«Allora, era questo che volevi?» domandai di nuovo, esigente, con voce roca.
«Sì» confessò lei, con un orgoglio che mi strinse le viscere in una morsa di desiderio.
La presi lì, contro la porta, in silenzio. La mia bocca era troppo impegnata ad assaggiare la sua pelle. Le sollevai una gamba, tenendo l'incavo del ginocchio nel palmo della mano, e mi spinsi in lei. Per tutto il tempo non la baciai sulle labbra. Non lo feci nemmeno dopo, quando eravamo scivolati sul pavimento, le membra aggrovigliate e i respiri affannosi.
«È stato un errore» dissi, provando a scostarmi da lei. Eppure bramavo il suo corpo come un assetato brama l'acqua. Non mi era bastato quello che mi ero già preso, ne volevo ancora. Con le dita percorsi la curva dei suoi fianchi, l'avvallamento dell'ombelico, la dolce rotondità del seno pieno. Sì, era stato un errore, ma volevo continuare a sbagliare. Mi piegai su di lei, prendendo un capezzolo tra le labbra. Camelia sospirò, la bocca aperta e gli occhi chiusi, e io sentii l'eccitazione pervadermi di nuovo. Le divaricai le gambe e la amai ancora, sul pavimento, tra i vestiti laceri e ammucchiati per terra. Senza tenerezza, senza sentimento. Era solo disperato desiderio. Era un bisogno che sentivo l'urgenza di levarmi.

Quando sorse il sole guardai Camelia dormire nel mio letto. La schiena bianca, i capelli neri come la notte sparpagliati sul cuscino. Le ciglia erano tanto lunghe da sfiorarle le guance. Nel sonno non sembrava una perfida intrigante.
Avrei dovuto svegliarla, ricordarle che doveva partire. Aveva detto che lo avrebbe fatto, e io mi sarei finalmente liberato di lei. Invece rimasi in silenzio. Rimasi in silenzio anche quando, dopo qualche ora, lei si svegliò e mi posò una mano sul petto, proprio sopra il cuore.
«Non mandarmi via. Permettimi di restare.»
Anouk ne sarà felice, pensai solo, le labbra serrate. E io avrò qualcuno che renderà meno gelide le mie notti.
«Ci devo pensare» risposi, freddo, senza guardarla. Desideravo con tutto me stesso potermi accendere una sigaretta, invece avevo smesso di fumare quattro anni prima. Un'altra cosa che dovevo a Lina Inverse, accidenti a lei.
Detestavo ammettere che quella notte, per un breve istante, avevo immaginato che i capelli che stringevo tra le dita, mentre facevo l'amore con la donna che in quel momento avevo accanto, fossero rossi come il fuoco.

Qualunque decisione avessi immaginato di prendere sulla possibilità o meno che Camelia restasse a Solaria, venne influenzata da ciò che accadde a colazione.
Anouk sedeva davanti a una tazza di cioccolata e aveva due lunghi baffi marroni disegnati sotto al naso. Le sedetti di fronte, sorridendo al pensiero che, anche se faceva la dura, c'erano momenti in cui sembrava ancora una bambina.
Se avesse saputo cosa era accaduto quella notte, a poche porte dalla sua camera da letto, mi avrebbe rovesciato quella cioccolata bollente direttamente nei pantaloni. Non potevo darle torto. Ero suo fratello, e Camelia sua sorella. Il che faceva apparire la nostra unione come qualcosa di torbido e incestuoso.
Anouk mi guardò con le sopracciglia aggrottate. Non aveva perso l'abitudine di tenere la metà ustionata del suo volto coperta dai capelli; era una cicatrice che avrebbe portato per tutta la vita, un dolore che non sarebbe mai scomparso. Non avrei dovuto stupirmi del fatto che stesse vivendo l'adolescenza in maniera tanto traumatica.
«Nottataccia? Hai una faccia.»
Mi passai una mano tra i riccioli disordinati, cercando di renderli meno ribelli.
«Non ho chiuso occhio» ammisi, tacendo, ovviamente, sul motivo per cui non lo avevo fatto.
Afferrai il pacco della corrispondenza, che il maggiordomo si premurava di lasciarmi ogni mattina sul tavolo della colazione, e distrattamente, con il coltello, iniziai a lacerare le buste. Le scartai una dopo l’altra, annoiato, fino a quando non me ne capitò in mano una dai bordi neri. Sbattei le palpebre, stupefatto. Il sigillo di ceralacca portava lo stemma della famiglia Gabriev.
Avevo visto quello stemma centinaia di volte. Quando io e Gourry eravamo mercenari non facevano che arrivargli missive da Elmekia. I suoi non si erano rassegnati alla sua fuga con l'arma leggendaria e non mancavano di scrivergli per ricordarglielo. Gourry, alla fine, non le leggeva nemmeno più le loro lettere.
Con una certa apprensione aprii la busta ed estrassi il foglio che conteneva.
Anouk, dall'altro lato del tavolo, si accorse della mia espressione torva.
«Funerale?» domandò, con noncuranza. Eravamo esperti di tutto ciò che riguardava la morte.
«Sì» risposi, sospirando. «Il padre di Gourry Gabriev.»
Senza rendermene conto strinsi la pergamena tra le dita tanto forte da stropicciarla.
Camelia entrò nel salone in quel momento, indossando una vestaglia che non faceva altro che mettere in risalto la forma, pressoché perfetta, del suo corpo. I capelli, appena lavati, erano lisci e lucenti. Mi resi conto che non mi ero levato nemmeno metà della voglia che mi pervadeva quando la vedevo. Accidenti a me.
«Buongiorno» disse, ignorandomi ma posando una carezza tra i capelli di Anouk, che le sorrise. Mi resi conto che Anouk bramava le attenzioni di Camelia come si brama il sole. Poi mi ricordai che, quattro anni prima, Camelia era altera e capricciosa, e non le avevo mai visto rivolgere un gesto di affetto ad Anouk.
Forse era davvero cambiata. Forse stava provando con tutta se stessa a essere una persona migliore.
Sedette a un lato del tavolo, evitando il sguardo, e io mi incupii ulteriormente. La nostra convivenza, se fosse rimasta, si sarebbe rivelata complicata e pericolosa. Tuttavia, per il momento, avevo questioni più urgenti da risolvere.
«Devo andarci. Gourry Gabriev è il mio migliore amico» dissi, rivolgendomi solo ad Anouk.
Lei posò il cucchiaio sul tavolo.
«Ti allontani dal Ducato?» domandò, sollevando le sopracciglia. Era stupefatta, in quei quattro anni non avevo mai messo piede fuori da Solaria.
«Non posso esimermi» risposi, e mentre lo dicevo mi resi conto che, dopo quattro anni, avrei incontrato di nuovo Lina. Deglutii.
C'era solo un problema. Chi sarebbe rimasto a Solaria nel periodo in cui sarei stato via? Anouk era troppo piccola per sovrintendere un Ducato. Quel Ducato, soprattutto.
Camelia sembrò leggermi nel pensiero quando, con noncuranza, mentre imburrava una fetta di pane, disse: «Non preoccuparti, Joy. Resterò io con Anouk. Ce la caveremo benissimo da sole, vero tesoro?»
Spostai lo sguardo tra di loro, accigliato. Non avrei dovuto accettare il suo aiuto. Non avrei dovuto fidarmi di lei. Ma volevo rimettermi in viaggio.
Più di ogni cosa desideravo allontanarmi da Solaria per un breve periodo. Prendermi una pausa, anche se per un motivo tanto triste.
Inoltre, anche se detestavo ammetterlo, volevo rivedere Lina. Erano passati quattro anni.
«Starò via solo qualche giorno» dissi, più a me stesso che a loro.
Anouk e Camelia sorrisero.


  
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