Benvenuti alla seconda parte di questo racconto.
Grazie ad AlfiaH per la recensione che ha lasciato
allo scorso capitolo.
Ringrazio chi abbia letto il primo capitolo e chi
abbia segnato la storia in qualsiasi modo.
Buona lettura! J
His
Last Vow
Mycroft Holmes entrò nella propria casa e si
diresse a passo deciso verso lo scantinato.
Giunto qui, aprì una porta segreta, celata dietro
una scaffalatura, che rivelò l’esistenza di una stanza finemente arredata.
Sherlock scattò in piedi appena sentì la porta
aprirsi:
“Come sta John?” chiese con ansia.
Mycroft sbuffò:
“Come vuoi che stia? – rispose quasi seccato – È un
uomo distrutto dal dolore, ma è anche un militare e sta facendo appello al proprio
addestramento per non crollare. Starà bene.”
“Ne sei sicuro?” chiese Sherlock titubante.
“Sherlock, ti ho sempre detto che i sentimenti non
sono un vantaggio. – ribatté Mycroft in tono pedante – Quello che sta passando
John, ne è una dimostrazione lampante. John Watson è un uomo che si fa sempre
coinvolgere emotivamente, è molto empatico. Questo lo porta a soffrire ed a
essere ferito facilmente. Come ti ho detto, i sentimenti non sono un vantaggio,
ma un’arma in mano al tuo nemico.”
Sherlock distolse lo sguardo dal fratello:
“Ho fatto l’amore con John. – confessò con un filo
di voce – E gli ho detto che lo amo.”
Mycroft fissò il fratello minore incredulo. Aprì la
bocca un paio di volte, ma valutò che quello che stava per dire fosse sempre
sbagliato.
“Sei impazzito? – proruppe infine – Ti rendi conto
di quello che hai fatto a quel povero uomo? Gli hai detto di amarlo e ti sei
suicidato davanti a lui!”
Sherlock si voltò verso il fratello con uno sguardo
furioso negli occhi azzurri:
“Sai anche tu che Moriarty non mi ha lasciato altra
scelta! – sibilò – Se non avessi inscenato la mia morte, John, Lestrade e la
signora Hudson sarebbero morti. E non potevo permetterlo. Ora potrò distruggere
l’organizzazione di Moriarty senza che la vita di nessuno sia messa in
pericolo.”
“Questo lo so, è il piano che abbiamo organizzato insieme.
– ribatté duramente Mycroft – Però, dire a John che lo ami e suicidarti davanti
a lui! Hai idea di quanto sia distruttivo tutto questo per un uomo come lui?
Cosa ti è passato per la testa quando lo hai fatto?”
Sherlock distolse lo sguardo dagli occhi del
fratello.
Esitò a lungo, prima di rispondere:
“Ne avevo bisogno. – sussurrò alla fine – John ha
detto di amarmi. Ora ho un motivo in più per tornare vivo dalla mia missione.
Devo tornare da lui.”
Mycroft sospirò, ma evitò qualsiasi commento.
“Ho bisogno che tu faccia una cosa per me. –
aggiunse Sherlock – Voglio che tu mi prometta di sorvegliare John.”
“Sai che lo farei comunque.” rispose prontamente
Mycroft.
Sherlock si girò verso il fratello.
Il suo sguardo era deciso, ma sul fondo si poteva intravedere
il dolore del distacco:
“Promettimelo. – insistette – Promettimi che non lo
lascerai mai solo.”
Mycroft Holmes sapeva di non potere negare nulla al
proprio fratellino.
Malgrado tutto quello che gli aveva sempre detto
sul provare sentimenti, Mycroft sapeva che, in realtà, lui stesso non era immune
dal sentimentalismo:
“Te lo prometto. – disse – Mi prenderò cura di
John, mentre tu sarai in missione. Farò in modo che non gli capiti nulla di
male.”
Sherlock sorrise riconoscente:
“Grazie, Mycroft. Ora posso partire.”
Erano trascorsi quattro mesi dalla scomparsa di
Sherlock.
John aveva tentato di continuare a vivere a Baker
Street, ma tutto gli ricordava Sherlock e lui non riusciva a convivere con quel
costante dolore.
Si era così trasferito in un appartamento che si
trovava vicino all’ospedale in cui lavorava.
Stava finendo di sistemare le sue poche cose,
quando sentì un leggero bussare alla porta.
Pensando al benvenuto di un qualche vicino, andò ad
aprire.
Con sua grande sorpresa si trovò davanti un sorridente
Mycroft.
“Buongiorno, John. Posso entrare?”
John strinse i pugni ed inspirò, ma riuscì a
rispondere quasi gentilmente:
“Entra pure.”
Mycroft entrò e studiò la disposizione del piccolo
appartamento:
“Carino. – disse – Come stai?”
“Bene. Grazie. – rispose meccanicamente John,
chiudendo la porta – Cosa vuoi, Mycroft?”
Mycroft si voltò a guardare John e gli sorrise:
“Ho saputo che hai lasciato Baker Street e volevo
essere sicuro che stesse andando tutto bene.”
John si irrigidì visibilmente:
“Mi stai facendo sorvegliare?”
Mycroft si appoggiò all’ombrello:
“Mi sto tenendo informato su quello che fai. –
rispose – Posso sapere perché hai lasciato Baker Street per … questo?” con
l’ombrello fece un gesto largo indicando l’appartamento.
“Non sono affari tuoi.” ribatté in tono duro John.
“Se era un problema di affitto, avresti potuto
dirmelo. – insisté Mycroft, ignorando il tono di John – Mi avrebbe fatto
piacere aiutarti.”
John aprì e chiuse i pugni, come se stesse
valutando se e dove colpire Mycroft:
“Stai fuori dalla mia vita. – sibilò – Non ho
bisogno del tuo aiuto o dei tuoi soldi.”
Mycroft sospirò, abbassando gli occhi:
“Scusa, non volevo offenderti. – disse – È solo che
… – esitò un attimo prima di continuare
– John, tu sei l’ultimo legame che mi resta con Sherlock.”
John trattenne il respiro. Tutto si sarebbe
aspettato da Mycroft, tranne questo.
“Sherlock era il tuo miglior amico, ma era anche
mio fratello. – continuò Holmes – So che avevamo un rapporto conflittuale, ma
questo non significa che non gli volessi bene. Mi manca moltissimo. Stare con
te, prendermi cura di te, mi aiuta a sentirne un po’ meno la sua mancanza.”
John riprese a respirare normalmente:
“Mi dispiace. – disse in tono più dolce – Non
volevo essere scortese. Posso offrirti un the?”
Mycroft sorrise, anche se si sentì un po’ meschino.
Era sicuro che facendo appello ai sentimenti che lo
legavano a Sherlock avrebbe ottenuto l’attenzione di John, ma lui sapeva che
suo fratello fosse vivo ed il suo dolore era fittizio, mentre il dottore
soffriva veramente per la perdita del più giovane degli Holmes.
Comunque, dovette ammettere con se stesso quanto
fosse vero che sentisse la mancanza di Sherlock, che aveva sempre sorvegliato
da lontano, per essere sicuro che non si mettesse nei guai e che stesse bene.
Ora Sherlock era in missione da solo, dove lui non
poteva proteggerlo.
Prendersi cura di John in quel modo, era davvero
come occuparsi di Sherlock.
“Come vanno le cose? Come passi il tuo tempo?”
chiese, conoscendo perfettamente la risposta.
Anthea gli aveva fatto rapporto e gli aveva detto
che John si era buttato nel lavoro.
John mise il bollitore sul fuoco e si lasciò
sfuggire un sorriso sarcastico:
“Perché, non lo sai?”
Anche Mycroft sorrise. John gli piaceva perché
aveva una intelligenza decisamente superiore a quella della gente comune. Nulla
a che fare con il livello degli Holmes, certo, ma era pur sempre un uomo fuori
dal comune. Poteva capire perché a Sherlock piacesse la sua compagnia.
“So che lavori molto. – rispose – Però nella vita
non esiste solo il lavoro. Esci con qualcuno?”
John stava preparando un vassoio con delle tazze e
cercò dei biscotti negli armadietti, valutando se andassero più o meno bene da
offrire a Mycroft.
“Non ho tempo per la vita sociale. – ribatté in
tono neutro – Sto lavorando molto.”
Mycroft studiò il manico del proprio ombrello, come
se lo vedesse per la prima volta.
Era presto perché John prendesse in considerazione
una nuova relazione, ma cosa sarebbe successo il giorno in cui si fosse sentito
attratto da qualcuno?
Watson credeva che Sherlock fosse morto, quindi
aveva tutto il diritto di rifarsi una vita.
Di andare avanti.
Questa era una eventualità che Sherlock non aveva
assolutamente considerato.
“Capisco. – disse – Però non puoi vivere come un
recluso, solo casa e lavoro.”
John sospirò, levando il bollitore dal fuoco:
“Per ora non me la sento di fare vita sociale.”
tagliò corto.
Presero il the in silenzio.
Quando ebbero finito, Mycroft fissò John negli
occhi:
“È stato piacevole prendere il the insieme.” si
alzò per andarsene.
“È stato piacevole anche per me.” ribatté John, più
per cortesia che per convinzione.
In realtà, vedere Mycroft gli faceva sentire ancora
di più la mancanza di Sherlock, ma non era nel carattere di Watson dire al
fratello del suo migliore amico che non voleva vederlo perché lo faceva
soffrire troppo.
“Dovremmo farlo regolarmente.” propose Mycroft.
John si sentì prendere dal panico. Non sapeva se
avrebbe potuto sopportare di incontrare Mycroft regolarmente, ma non voleva
nemmeno ferirlo. Per quanto i rapporti fra i due fratelli Holmes fossero stati
effettivamente strani, John aveva sempre saputo che erano molto più legati di
quanto volessero far credere e di quanto volessero ammettere loro stessi.
Non voleva aumentare il dolore che Mycroft doveva
provare, negandogli la propria compagnia.
“Pensaci.” suggerì Holmes, notando come John fosse
impallidito.
“Certo.” sussurrò John in risposta.
Accompagnò Mycroft alla porta e la chiuse alle
spalle del visitatore.
John si appoggiò con la schiena alla porta chiusa e
si lasciò scivolare verso il basso, fino a sedersi in terra.
Nella sua mente rimbombò la voce di Sherlock:
“Ti amo.” gli diceva e saltava.
John digrignò i denti per allontanare il ricordo
della caduta.
Non voleva ricordare Sherlock per QUELLA.
Voleva ricordarlo per la sua magnifica intelligenza,
per la sua esuberante vitalità, per il suo coinvolgente entusiasmo di fronte
alle cose più strane.
Si rilassò e sorrise.
Sì.
Poteva farcela.
Poteva sopravvivere.
E, forse, poteva aiutare Mycroft a fare
altrettanto.
Nel corso dei sette mesi seguenti, John ricevette
altre visite di Mycroft, sempre senza preavviso.
John non si metteva mai in contatto con lui, ma
Mycroft sapeva quando poteva trovarlo in casa e si presentava per prendere il
the insieme.
Ogni tanto gli proponeva una serata a teatro o di
cenare in qualche ristorante.
Le prime volte, John era stato riluttante, ma aveva
accettato, più che altro nella speranza di essere di aiuto a Mycroft nel
superare il dolore della morte di Sherlock.
Watson si sentiva come se per lui non ci fossero speranze,
mentre per Mycroft poteva esserci la salvezza.
All’inizio la loro conversazione era quasi
inesistente.
Se Mycroft chiedeva come stesse andando, John
rispondeva:
“Bene. Grazie.”
Mycroft sapeva che era la risposta che John dava a
chiunque gli domandasse come si sentisse.
Era automatica.
Significava:
“Va tutto bene. È tutto a posto. Non chiedermelo
ancora perché non ti dirò mai che sono a pezzi.”
Mycroft supponeva che John non riuscisse ad aprirsi
veramente nemmeno con la sua terapista, malgrado la vedesse regolarmente.
Con il passare del tempo, questi incontri con il
maggiore degli Holmes erano diventati una piacevole routine anche per John.
Il maggiore degli Holmes gli aveva raccontato
qualche aneddoto su Sherlock bambino, riuscendo a strappare a John qualche
risata sincera.
Mycroft si sentiva molto soddisfatto di sé, quando
riusciva a far ridere John.
Aveva notato come gli si illuminassero gli occhi e
prendessero vita.
Purtroppo quella luce se ne andava rapidamente, ma
Mycroft contava di riuscire a farla resistere sempre più a lungo.
Un giorno, John aveva tentato di spostare
l’argomento sul lavoro di Mycroft:
“Se ti parlassi della mia giornata in ufficio, –
aveva risposto Mycroft , scherzando – poi dovrei ucciderti.”
“Allora dovrei insistere per sapere cosa tu abbia
combinato. – disse John senza alzare gli occhi dal liquido ambrato che aveva
nella tazza – Sono sicuro che mi uccideresti velocemente e senza farmi
soffrire.”
La risposta di John aveva fatto accapponare la pelle
a Mycroft.
Non era riuscito a vederlo negli occhi, ma gli era
sembrato che ci fosse qualcosa di strano nel tono della voce di John.
Pochi giorni dopo sarebbe stato il primo
anniversario del suicidio di Sherlock e Mycroft temeva che John stesse pensando
di togliersi la vita.
Il giorno dopo, John tornò a casa e scoprì di
essere stato derubato.
Chiamò sia Lestrade che Mycroft, che arrivarono a
casa sua quasi simultaneamente.
John era furioso:
“Chi è stato di voi due?” chiese senza preamboli.
Con aria innocente, Mycroft domandò:
“Perché mai uno di noi due avrebbe dovuto
svaligiare il tuo appartamento?”
John lo fissò negli occhi:
“Come ti sei permesso di mandare qualcuno a rubare
a casa mia? Voglio che tu mi faccia restituire tutto, arma compresa!”
Mycroft sapeva quanto fosse inutile negare:
“L’ho fatto per la tua sicurezza. – disse sulla
difensiva – Non mi è piaciuto il tuo discorso sull’essere ucciso senza
soffrire.”
“Non. Sono. Affari. Tuoi. – sillabò John, come se
stesse parlando con un bambino piccolo – Stai. Fuori. Dalla. Mia. Vita.”
Mycroft valutò se giocare ancora la carta del
legame di John con Sherlock, ma decise che non fosse il caso.
John era veramente arrabbiato ed avrebbe potuto
reagire in qualunque modo.
“Ti farò riavere gli effetti personali ed il
denaro. – disse infine – Non la pistola.”
“Concordo con lui. – intervenne Lestrade – Ora non
sei più coinvolto in indagini pericolose e non hai bisogno di essere armato.”
John passò uno sguardo furioso da un uomo
all’altro:
“Posso sapere di cosa avete paura entrambi? Pensate
che mi voglia suicidare? – John stava praticamente urlando – Sono un medico! Se
mi volessi uccidere, credete che avrei bisogno di una pistola? Sapete quanti
sono i farmaci a cui ho quotidianamente accesso che mi permetterebbero una
morte rapida ed indolore? Li volete elencati in ordine alfabetico o di tempo e
dosaggio di decesso? Pensavo che foste miei amici e che capiste il mio dolore,
ma se dovete solo essere i miei guardiani, non ho bisogno di voi.”
John stava stringendo così forte i pugni che aveva
le nocche bianche.
I nervi del collo erano tesissimi e faceva quasi
fatica a respirare.
“Fuori da casa mia! – sibilò – Subito! Entrambi!”
E voltò le spalle ai due uomini, mettendo fine alla
discussione.
Il giorno del primo anniversario della morte di
Sherlock, John andò, da solo, al cimitero a portare dei fiori sulla tomba e
rimase lì, fermo, rigido ed in silenzio, per un tempo che a Mycroft sembrò
eterno.
Avrebbe voluto andare da John ed abbracciarlo,
consolarlo, rassicurarlo sul fatto che sarebbe andato tutto bene, ma Mycroft si
sentiva in colpa per la menzogna rappresentata da quella lapide, che causava
tanto dolore in quell’uomo fragile e forte allo stesso tempo.
Rimase, così, a guardarlo da lontano, per essere
sicuro che non facesse nulla di stupido.
Per quello, bastava suo fratello.
Dopo la sfuriata, sia Lestrade che Mycroft
evitarono di contattare John per qualche settimana.
Mycroft si rese conto, con sua somma sorpresa, che
gli mancavano gli incontri con il dottore e decise che doveva rimediare al
danno fatto.
In fin dei conti, aveva una promessa da mantenere e
nulla gli avrebbe impedito di mancare alla parola data.
Per John era stata una pessima mattina perché si
era trovato a sostituire un collega assente e aveva più pazienti che tempo.
Quando uscì per chiamare il paziente seguente, si trovò
davanti un sorridente Mycroft:
“Buongiorno John, come stai?”
John lo degnò di un’occhiata frettolosa e gelida:
“Ho molto da fare. – si voltò verso i pazienti in
attesa – Trevis Patterson.”
“Non ti ruberò molto tempo. – proseguì Mycroft –
Volevo solo dirti che ho due biglietti per il Riccardo III, sabato sera. Ti
passo a prendere alle 18. Andiamo a prendere un aperitivo, poi a teatro ed,
infine, ho prenotato la cena da …”
“È uno scherzo?” lo interruppe John, che non sapeva
se essere arrabbiato o sorpreso.
Mycroft non si scompose:
“Volevo solo farmi perdonare per il malinteso di un
paio di settimane fa.”
“Sei perdonato. – tagliò corto John – Signor
Patterson, si accomodi pure.”
“Insisto. – continuò Mycroft – Oramai i biglietti
li ho presi.”
E rimase in attesa, appoggiato all’ombrello, con un
sorriso serafico stampato sulla faccia.
“Dottor Watson, viene?” chiese con impazienza il
signor Patterson.
John non aveva tempo per stare a discutere con
Mycroft:
“Va bene. Ci vediamo sabato sera.” concesse e si
girò per entrare nello studio.
“John? – lo richiamò Mycroft – Non cercare di
eludere l’invito adducendo impegni di lavoro. Mi sono accordato con la cara
dottoressa Sarah Sawyer che non ti dia dei turni di nessun genere, per sabato.”
John si voltò confuso:
“Hai parlato con Sarah?”
Mycroft si esibì in un sorriso sornione:
“Se ti fa piacere, puoi pensare che abbiamo
complottato contro di te, affinché tu abbia una serata di svago.”
“Dottore, allora!” sbottò, impaziente, il signor
Patterson.
John entrò nello studio, con un’espressione seccata
sul viso.
Il sabato sera, John non aveva nessuna voglia di
trascorrere la serata con Mycroft.
Durante l’aperitivo rispose sempre a monosillabi e
si comportò in modo scontroso.
Lo spettacolo teatrale, però, lo colpì molto.
La cena risultò essere molto piacevole.
Mycroft lo riaccompagnò a casa che era molto tardi.
“Grazie per la serata. – disse John nel salutare –
Mi dispiace di essere stato scortese all’inizio. Mi sono sentito un po’ preso
in trappola ed è una cosa che non sopporto. Però, ti dirò che mi sono mancati i
nostri incontri e le nostre chiacchierate. Grazie per avere insistito. Questo è
l’unico complotto ordito alle mie spalle che ti perdono volentieri.”
Mycroft sorrise, compiaciuto per la riuscita della
serata:
“Mi fa piacere che, alla fine, tu sia stato bene.”
John stava per scendere dall’auto, quando Mycroft
lo fermò:
“John, tu lo sai che hai seminato un mio uomo
stamattina, vero?”
Lo sguardo indagatore negli occhi di Mycroft era un
po’ preoccupato ed un po’ curioso.
“Me lo sono immaginato. – confessò John – Spero che
tu non lo abbia rimproverato troppo.”
“Non lo manderò a compiere una missione suicida. –
disse Holmes – Vorrei sapere dove sei andato. Ogni sabato riesci sempre ad
impedire ai miei uomini di seguirti.”
“Non mi piace essere sorvegliato.” ribatté
seccamente John.
“È per la tua sicurezza. – controbatté con calma
Mycroft – In fin dei conti, ci sono tante persone che hanno motivo di volersi
vendicare di Sherlock.”
John lo fissò sorpreso:
“Perché qualcuno dovrebbe farmi del male per
vendicarsi di Sherlock? Lui è morto, non avrebbe senso.”
Mycroft si irrigidì, dandosi dell’idiota per quello
che aveva detto:
“Non puoi mai sapere cosa passi per la testa di
certa gente ed io voglio essere sicuro che non ti capiti nulla.”
John studiò per qualche istante Mycroft:
“E va bene. – disse infine – Se hai qualcosa da
mettere che non sia il tuo solito completo firmato, sabato prossimo ti permetto
di venire con me, così potrai vedere dove trascorro il mio giorno libero. Se ti
va.”
“A che ora devo essere qui?”
“Alle 6.30. Prendiamo la metropolitana.”
“La metropolitana? – la smorfia di disgusto sul
viso di Mycroft era davvero buffa – Non possiamo andare in auto?”
“Metropolitana. – ribadì John, sopprimendo un
sorriso – Prendere o lasciare.”
Mycroft emise un sospiro tragico che fermò il cuore
di John, perché sembrava proprio Sherlock:
“Prendo.”
John lo salutò e scese velocemente dall’auto.
Entrato nel proprio appartamento, si chiese perché
avesse fatto quella proposta a Mycroft.
Troppe cose in quell’uomo gli ricordavano Sherlock,
non permettendo alla ferita della sua perdita di rimarginarsi.
Il seguente sabato mattina Mycroft si presentò puntuale
all’appuntamento con John.
Era vestito in modo ordinario ed a John sembrò
veramente bizzarro vederlo senza il suo solito completo.
“Dove andiamo?” domandò Mycroft curioso.
“Seguimi e vedrai.” rispose John, un po’
misterioso.
Mycroft non protestò e lo seguì tranquillo nella
metropolitana, dove cambiarono diverse linee.
Ad ogni cambio, si avvicinavano sempre più alla
periferia di Londra.
E non certo alla sua parte migliore.
John trovava divertenti le espressioni che
comparivano, fugacemente, sul volto di Mycroft a causa della strana umanità e
degli strani odori che si susseguivano nelle varie carrozze.
Quando uscirono dalla metropolitana, Mycroft capì
di essere in uno dei quartieri più malfamati della città.
“John, tu sai dove siamo, vero?” chiese preoccupato.
“Certo, che lo so. – rispose John – Puoi tornare
indietro, se vuoi.”
Mycroft non fece in tempo a rispondere che furono
avvicinati da due ragazzi di colore, piuttosto robusti, coperti di tatuaggi e
collane di vario genere, con un’aria pericolosa e decisamente armati.
“Ciao doc. Ti sei portato dietro un amico oggi?”
“Buongiorno Vincent. – rispose John affabile – È un
aiuto.”
Vincent squadrò Mycroft dalla testa ai piedi,
cercando di valutarne la pericolosità.
“Il tuo amico sembra innocuo, ma ha lo sguardo
freddo e duro di uno capace di farmi a pezzi con le sole mani.” Valutò il
ragazzo.
John riuscì a nascondere un sorriso:
“A volte l’apparenza inganna. – commentò sibillino,
quindi chiese – A cosa devo il comitato di benvenuto?”
“Hai saputo dei problemi che ci sono stati
stanotte?” domandò Vincent spostando lo sguardo da Mycroft a John.
“No. – sospirò John – Che cosa è successo.”
“I Tigers e i Blues si sono scontrati. – rispose
Vincent – Hanno vinto i Tigers, ma ci sono dei Blues feriti, in giro. Vorrei
che accettassi qualcuno dei miei nel tuo ambulatorio.”
“No.” disse John scuotendo la testa con decisione.
“Doc …”
“Assolutamente no. – lo interruppe John – Sai
perfettamente quali siano i patti. L’orfanatrofio e la clinica sono territorio
neutrale. Siete i benvenuti se avete bisogno di cure, ma non potete venire per
altri motivi.”
“Ches e Puck non saranno facili da gestire, se
dovessero arrivare alla clinica.” obbiettò Vincent.
Nel frattempo erano arrivati altri due ragazzi, visibilmente
appartenenti ad un’altra banda.
“Ehi, doc!” salutò uno dei due nuovi arrivati.
“Buongiorno Michael. Come sta tua madre?”
“Bene, doc. Hai saputo di stanotte.”
“Me lo stava raccontando Vincent e la risposta è no,
anche per te.”
“Ma doc …”
“Ragazzi, siete molto cortesi a preoccuparvi della
mia incolumità, ma non vi voglio fra i piedi. Sono stato chiaro?”
I due capi banda si scrutarono per un po’.
“Possiamo mettere qualche ragazzo fuori a
controllare il perimetro.” propose Michael.
“Così dovrei uscire per impedire che i vostri
uomini si prendano a coltellate? – sbuffò John, cominciando ad irritarsi – Non
voglio nessuno. Andrà tutto bene. Ora devo andare.”
Detto questo, superò i ragazzi e si diresse a passo
deciso verso una grande struttura che si trovava in fondo alla strada, seguito
da un silenzioso Mycroft.
Arrivati al grande edificio, un nugolo di bambini
di varia età si precipitò al cancello salutando allegramente John ed
abbracciandolo appena lo avevano a portata.
“Dottor John, ti sei portato dietro un amico?”
John li salutava sorridendo, accarezzando con
tenerezza la testa dei bambini che lo stavano assalendo. Mycroft si stava
tenendo in disparte, inorridito al pensiero di poter essere abbracciato anche
lui.
Un bambino lo fissò piuttosto perplesso:
“Dottor John, al tuo amico non piacciono i
bambini?”
John evitò di incontrare lo sguardo di Mycroft:
“Ha un grosso raffreddore e non vuole passare i
suoi germi a nessuno.” rispose.
Una donna di mezza età, magra, con i capelli rossi
e corti, di media statura, si avvicinò sorridendo:
“Buongiorno John. Ben arrivato. La sala d’attesa è
già piena.”
John ricambiò il sorriso:
“Allora ho fatto bene a portare un aiuto. – si
voltò verso Mycroft – La signora Carter. Il signor Holmes.”
La signora Carter allungò una mano:
“Elisabeth.”
Holmes strinse la mano della donna:
“Mycroft.”
John era riuscito a liberarsi dei bambini e si era
diretto all’edificio.
Dentro una piccola sala d’attesa, persone di ogni
età lo stavano aspettando.
John salutò e si diresse verso una stanza in cui
era stato allestito un piccolo ambulatorio.
“Cominciamo.” disse infilandosi il camice.
La mattina trascorse in un lungo susseguirsi di
visite.
Mycroft osservava John, sempre sorridente e
comprensivo, pronto a dire a chiunque qualche parola di conforto e di
incoraggiamento. Alcuni gli chiedevano consigli anche su questioni non
prettamente mediche e John cercava di indirizzarli verso la persona giusta.
La signora Carter lo assisteva come infermiera.
Mycroft stava prendendo dei medicamenti da una stanza
attigua, che fungeva da magazzino per le scorte, quando sentì una voce maschile
giovane, ma dura:
“Doc, devi curare mio fratello.”
Mycroft, allarmato, si avvicinò alla porta e
sbirciò dentro il piccolo ambulatorio.
Un giovane ragazzo di colore ne stava sostenendo un
altro ferito ad un fianco, puntando una pistola verso John e la signora Carter.
“Ches abbassa quell’arma. – disse John con voce
calma – Non ne hai bisogno qui dentro. Dovresti portare tuo fratello in
ospedale. Qui non ho le attrezzature adatte a medicare ferite come la sua.”
Il ragazzo era molto nervoso:
“Se non fai quello che dico, andrò fuori e
comincerò a sparare alla gente che aspetta. Finito con loro, mi occuperò dei
bambini. Decidi tu, doc.”
John lo fissò per un attimo:
“Beth, per favore, vai in magazzino a prendere
bende e disinfettante. Ches, sistema tuo fratello sul lettino.”
Mycroft si nascose dietro la porta. La signora
Carter entrò e gli sussurrò:
“Venga. Dietro questa scaffalatura c’è un passaggio
che porta fuori.”
Mycroft non voleva lasciare John solo, ma la donna
lo prevenne:
“Fino a quando medicherà il fratello, Ches non farà
del male ad dottor Watson.”
Mycroft uscì e tirò subito fuori il proprio
cellulare:
“Anthea. – disse appena la donna rispose – Voglio
una squadra speciale all’indirizzo che le darò. Subito.”
Passò quasi un’ora. John finì la medicazione e si
levò i guanti in lattice:
“Ches, io ho fatto il possibile, ma devi portare
tuo fratello in ospedale. Ha perso molto sangue e …”
“Tu verrai con noi.” lo interruppe il ragazzo.
John alzò uno sguardo duro sul ragazzo con la
pistola:
“Forse non mi sono spiegato. – disse – Tuo fratello
non ha bisogno di un medico, ma di cure specifiche che possono essere fornite
solo da un ospedale!”
“Tu saprai cosa fare, se dovesse stare male.”
insisté, caparbio, il ragazzo.
“Ches …”
“Ora basta doc! – urlò minaccioso il ragazzo – Se
non vieni con me, comincio a sparare a lei!”
Il ragazzo puntò la propria arma contro la signora
Carter.
John si mise fra Ches ed Elisabeth:
“Va bene. – si arrese – Andiamo.”
Si tolse il camice, si infilò la giacca, prendendo
la valigetta e mettendo dentro tutto quello che pensava potesse essergli utile.
“Sbrigati, doc! – lo sollecitò Ches e si volse
verso Elisabeth – Se chiami la polizia, il dottore è morto, chiaro?”
John fece un sorriso rassicurante alla donna, che
era impallidita:
“Andrà tutto bene.”
John aiutò il ferito a scendere dal lettino ed
uscirono.
Appena fuori, Mycroft si fece avanti a bloccare il
passaggio ai tre uomini. Al suo fianco c’era Greg Lestrade:
“Stammi bene a sentire, ragazzo. – Holmes esordì in
tono cordiale – Se non metti giù quell’arma e non ti consegni al qui presente
ispettore Lestrade, non farai un altro passo. Chiaro?”
Il ragazzo fissò Mycroft con sguardo duro e stava
per afferrare John, quando vide apparire sul proprio petto delle lucine rosse.
“Ti ho detto quello che devi fare se vuoi uscire
vivo da questa situazione. – continuò Mycroft con voce gelida – Le tue opzioni
non includono il prendere in ostaggio il dottor Watson. La scelta è tua.”
Ches fissò a lungo Mycroft negli occhi freddi, poi
iniziò a piegarsi lentamente.
Appoggiò l’arma a terra e si inginocchiò, mettendo
le mani sopra la testa.
Lestrade si avvicinò rapidamente a lui e gli mise
le manette.
John fece coricare delicatamente il ragazzo ferito
in terra e controllò subito la ferita.
“C’è un’ambulanza, vero? – chiese a nessuno in
particolare – Questo ragazzo deve essere portato subito in ospedale.”
In pochi secondi, John fu avvicinato da paramedici
a cui spiegò cosa avesse fatto.
Lestrade consegnò Ches ai suoi uomini, mentre i
paramedici portarono via Puck.
“John stai bene? – chiese preoccupato l’ispettore –
Sei ferito?”
“Va tutto bene, Greg. – rispose rassicurante Watson
– Non mi ha fatto del male.”
Mycroft, nel frattempo, era stato circondato da un
gruppo di bambini festanti che lo abbracciavano ed urlavano il suo nome, felici
che avesse salvato il “Dottor John”.
Mycroft era decisamente imbarazzato ed accarezzava
la testa dei bambini con la punta delle dita, con una smorfia sulle labbra che
avrebbe voluto essere un sorriso di ringraziamento, ma che, in realtà, mostrava
quanto gli abbracci fossero completamente indesiderati.
John sorrise intenerito dall’immagine dell’imbarazzatissimo
Mycroft che si trovò davanti.
Mycroft aveva fatto arrivare la propria auto ed
ordinò all’autista di andare verso casa sua.
John aveva accettato il passaggio, ma non parlò
durante il tragitto.
Si era reso conto del fatto che Mycroft fosse
arrabbiato, osservando la linea sottile e tirata delle labbra.
“Scendi.” ordinò Holmes in tono secco, quando
arrivarono davanti a casa sua.
John sospirò. Gli sembrò di essere tornato bambino,
con il padre pronto a sgridarlo per qualche marachella che aveva combinato.
Arrivati dentro casa, Mycroft esplose:
“Cosa sarebbe successo se oggi non fossi venuto con
te? – urlò furioso – Ti rendi conto che ora saresti nelle mani di uno stupido
ragazzino che si crede un grande criminale? Avresti potuto farti uccidere!”
“Ti ringrazio per quello che hai fatto. – disse John
in tono ragionevole – Però, non cambierò le mie abitudini per ciò che avrebbe
potuto accadere oggi.”
“Se vuoi fare volontariato, esistono posti più
sicuri! Non è necessario frequentare il quartiere più pericoloso di Londra!”
gridò Mycroft.
“Non hai il diritto di dirmi quello che posso o non
posso fare. – ribatté John, iniziando ad arrabbiarsi – Non siamo niente, l’uno
per l’altro. L’unico legame che abbiamo mai avuto è stato Sherlock e lui non
c’è più. Ti ringrazio per avere cercato di aiutarmi a superare la sua perdita,
ma questo non ti dà nessun diritto di controllare la mia vita. Credo che sia il
caso di mettere fine ai nostri incontri.”
Con un gesto improvviso, Mycroft afferrò il viso di
John e lo baciò sulle labbra.
John si ritrovò catapultato in una piscina, con
altre labbra che lo baciavano.
Labbra di un uomo che ora non c’era più.
Labbra di un uomo che si era tolto la vita davanti
a lui.
Mycroft si staccò da John, ma non gli lasciò il
viso.
Appoggiò la propria fronte a quella del dottore,
che respirava affannosamente:
“Non avrei mai creduto possibile una cosa come
questa, ma io ti amo John. – sussurrò – Mi è stato chiaro oggi, quando ho
pensato che quel ragazzo potesse farti del male. Se ti avesse ferito …”
“Mycroft … no …” la voce di John era appena
percettibile.
Perché tutto questo lo stava riportando a Sherlock?
“Non respingermi, ti prego. – continuò Mycroft – Ti
prometto che non ti ferirò. Voglio solo amarti. Voglio vederti felice. Voglio
essere io a renderti felice.”
Mycroft riprese a baciarlo.
John si lasciò baciare e accarezzare.
“Resta con me stanotte.”
John sapeva che era sbagliato.
Nel suo cuore Sherlock era ancora vivo e John stava
aspettando che tornasse da lui, per dirgli quanto lo amasse e che voleva che
trascorressero il resto della loro vita insieme.
La sua testa, però, gli ricordava crudelmente, ogni
giorno, che non era così.
Sherlock si era suicidato.
Nessuno dei suoi sogni si sarebbe avverato.
Fra le braccia di Mycroft, per la prima volta da
quando Sherlock era morto, John si sentiva veramente vivo.
Si ritrovò a dire di sì con la testa.
Mycroft gli sorrise felice e lo prese per mano, per
accompagnarlo nella propria stanza.
John lo seguì, cercando di dimenticare l’unico uomo
che avesse mai amato in vita sua.
Nota
dell’autrice
Il titolo si riferisce alla promessa che Mycroft fa
a Sherlock poco prima che il fratello minore parta per la sua missione e che
sarà la causa dell’avvicinamento del maggiore degli Holmes a John.
Aspetto i vostri commenti.
A giovedì J