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Autore: mikimac    08/06/2015    3 recensioni
Sherlock si è lanciato dal tetto del Bart's, fingendo il proprio suicidio,
Prima di partire per la sua missione e distruggere l'organizzazione di Moriarty, Sherlock confessa a Mycroft di amare John e gli fa promettere di prendersi cura di lui, fino al suo ritorno.
Mycroft prende la propria promessa così sul serio, che si innamora lui stesso di John.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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His Last Vow

Benvenuti alla seconda parte di questo racconto.

Grazie ad AlfiaH per la recensione che ha lasciato allo scorso capitolo.

Ringrazio chi abbia letto il primo capitolo e chi abbia segnato la storia in qualsiasi modo.

Buona lettura! J

 

 

His Last Vow

 

 

Mycroft Holmes entrò nella propria casa e si diresse a passo deciso verso lo scantinato.

Giunto qui, aprì una porta segreta, celata dietro una scaffalatura, che rivelò l’esistenza di una stanza finemente arredata.

Sherlock scattò in piedi appena sentì la porta aprirsi:

“Come sta John?” chiese con ansia.

Mycroft sbuffò:

“Come vuoi che stia? – rispose quasi seccato – È un uomo distrutto dal dolore, ma è anche un militare e sta facendo appello al proprio addestramento per non crollare. Starà bene.”

“Ne sei sicuro?” chiese Sherlock titubante.

“Sherlock, ti ho sempre detto che i sentimenti non sono un vantaggio. – ribatté Mycroft in tono pedante – Quello che sta passando John, ne è una dimostrazione lampante. John Watson è un uomo che si fa sempre coinvolgere emotivamente, è molto empatico. Questo lo porta a soffrire ed a essere ferito facilmente. Come ti ho detto, i sentimenti non sono un vantaggio, ma un’arma in mano al tuo nemico.”

Sherlock distolse lo sguardo dal fratello:

“Ho fatto l’amore con John. – confessò con un filo di voce – E gli ho detto che lo amo.”

Mycroft fissò il fratello minore incredulo. Aprì la bocca un paio di volte, ma valutò che quello che stava per dire fosse sempre sbagliato.

“Sei impazzito? – proruppe infine – Ti rendi conto di quello che hai fatto a quel povero uomo? Gli hai detto di amarlo e ti sei suicidato davanti a lui!”

Sherlock si voltò verso il fratello con uno sguardo furioso negli occhi azzurri:

“Sai anche tu che Moriarty non mi ha lasciato altra scelta! – sibilò – Se non avessi inscenato la mia morte, John, Lestrade e la signora Hudson sarebbero morti. E non potevo permetterlo. Ora potrò distruggere l’organizzazione di Moriarty senza che la vita di nessuno sia messa in pericolo.”

“Questo lo so, è il piano che abbiamo organizzato insieme. – ribatté duramente Mycroft – Però, dire a John che lo ami e suicidarti davanti a lui! Hai idea di quanto sia distruttivo tutto questo per un uomo come lui? Cosa ti è passato per la testa quando lo hai fatto?”

Sherlock distolse lo sguardo dagli occhi del fratello.

Esitò a lungo, prima di rispondere:

“Ne avevo bisogno. – sussurrò alla fine – John ha detto di amarmi. Ora ho un motivo in più per tornare vivo dalla mia missione. Devo tornare da lui.”

Mycroft sospirò, ma evitò qualsiasi commento.

“Ho bisogno che tu faccia una cosa per me. – aggiunse Sherlock – Voglio che tu mi prometta di sorvegliare John.”

“Sai che lo farei comunque.” rispose prontamente Mycroft.

Sherlock si girò verso il fratello.

Il suo sguardo era deciso, ma sul fondo si poteva intravedere il dolore del distacco:

“Promettimelo. – insistette – Promettimi che non lo lascerai mai solo.”

Mycroft Holmes sapeva di non potere negare nulla al proprio fratellino.

Malgrado tutto quello che gli aveva sempre detto sul provare sentimenti, Mycroft sapeva che, in realtà, lui stesso non era immune dal sentimentalismo:

“Te lo prometto. – disse – Mi prenderò cura di John, mentre tu sarai in missione. Farò in modo che non gli capiti nulla di male.”

Sherlock sorrise riconoscente:

“Grazie, Mycroft. Ora posso partire.”

 

 

Erano trascorsi quattro mesi dalla scomparsa di Sherlock.

John aveva tentato di continuare a vivere a Baker Street, ma tutto gli ricordava Sherlock e lui non riusciva a convivere con quel costante dolore.

Si era così trasferito in un appartamento che si trovava vicino all’ospedale in cui lavorava.

Stava finendo di sistemare le sue poche cose, quando sentì un leggero bussare alla porta.

Pensando al benvenuto di un qualche vicino, andò ad aprire.

Con sua grande sorpresa si trovò davanti un sorridente Mycroft.

“Buongiorno, John. Posso entrare?”

John strinse i pugni ed inspirò, ma riuscì a rispondere quasi gentilmente:

“Entra pure.”

Mycroft entrò e studiò la disposizione del piccolo appartamento:

“Carino. – disse – Come stai?”

“Bene. Grazie. – rispose meccanicamente John, chiudendo la porta – Cosa vuoi, Mycroft?”

Mycroft si voltò a guardare John e gli sorrise:

“Ho saputo che hai lasciato Baker Street e volevo essere sicuro che stesse andando tutto bene.”

John si irrigidì visibilmente:

“Mi stai facendo sorvegliare?”

Mycroft si appoggiò all’ombrello:

“Mi sto tenendo informato su quello che fai. – rispose – Posso sapere perché hai lasciato Baker Street per … questo?” con l’ombrello fece un gesto largo indicando l’appartamento.

“Non sono affari tuoi.” ribatté in tono duro John.

“Se era un problema di affitto, avresti potuto dirmelo. – insisté Mycroft, ignorando il tono di John – Mi avrebbe fatto piacere aiutarti.”

John aprì e chiuse i pugni, come se stesse valutando se e dove colpire Mycroft:

“Stai fuori dalla mia vita. – sibilò – Non ho bisogno del tuo aiuto o dei tuoi soldi.”

Mycroft sospirò, abbassando gli occhi:

“Scusa, non volevo offenderti. – disse – È solo che …  – esitò un attimo prima di continuare – John, tu sei l’ultimo legame che mi resta con Sherlock.”

John trattenne il respiro. Tutto si sarebbe aspettato da Mycroft, tranne questo.

“Sherlock era il tuo miglior amico, ma era anche mio fratello. – continuò Holmes – So che avevamo un rapporto conflittuale, ma questo non significa che non gli volessi bene. Mi manca moltissimo. Stare con te, prendermi cura di te, mi aiuta a sentirne un po’ meno la sua mancanza.”

John riprese a respirare normalmente:

“Mi dispiace. – disse in tono più dolce – Non volevo essere scortese. Posso offrirti un the?”

Mycroft sorrise, anche se si sentì un po’ meschino.

Era sicuro che facendo appello ai sentimenti che lo legavano a Sherlock avrebbe ottenuto l’attenzione di John, ma lui sapeva che suo fratello fosse vivo ed il suo dolore era fittizio, mentre il dottore soffriva veramente per la perdita del più giovane degli Holmes.

Comunque, dovette ammettere con se stesso quanto fosse vero che sentisse la mancanza di Sherlock, che aveva sempre sorvegliato da lontano, per essere sicuro che non si mettesse nei guai e che stesse bene.

Ora Sherlock era in missione da solo, dove lui non poteva proteggerlo.

Prendersi cura di John in quel modo, era davvero come occuparsi di Sherlock.

“Come vanno le cose? Come passi il tuo tempo?” chiese, conoscendo perfettamente la risposta.

Anthea gli aveva fatto rapporto e gli aveva detto che John si era buttato nel lavoro.

John mise il bollitore sul fuoco e si lasciò sfuggire un sorriso sarcastico:

“Perché, non lo sai?”

Anche Mycroft sorrise. John gli piaceva perché aveva una intelligenza decisamente superiore a quella della gente comune. Nulla a che fare con il livello degli Holmes, certo, ma era pur sempre un uomo fuori dal comune. Poteva capire perché a Sherlock piacesse la sua compagnia.

“So che lavori molto. – rispose – Però nella vita non esiste solo il lavoro. Esci con qualcuno?”

John stava preparando un vassoio con delle tazze e cercò dei biscotti negli armadietti, valutando se andassero più o meno bene da offrire a Mycroft.

“Non ho tempo per la vita sociale. – ribatté in tono neutro – Sto lavorando molto.”

Mycroft studiò il manico del proprio ombrello, come se lo vedesse per la prima volta.

Era presto perché John prendesse in considerazione una nuova relazione, ma cosa sarebbe successo il giorno in cui si fosse sentito attratto da qualcuno?

Watson credeva che Sherlock fosse morto, quindi aveva tutto il diritto di rifarsi una vita.

Di andare avanti.

Questa era una eventualità che Sherlock non aveva assolutamente considerato.

“Capisco. – disse – Però non puoi vivere come un recluso, solo casa e lavoro.”

John sospirò, levando il bollitore dal fuoco:

“Per ora non me la sento di fare vita sociale.” tagliò corto.

Presero il the in silenzio.

Quando ebbero finito, Mycroft fissò John negli occhi:

“È stato piacevole prendere il the insieme.” si alzò per andarsene.

“È stato piacevole anche per me.” ribatté John, più per cortesia che per convinzione.

In realtà, vedere Mycroft gli faceva sentire ancora di più la mancanza di Sherlock, ma non era nel carattere di Watson dire al fratello del suo migliore amico che non voleva vederlo perché lo faceva soffrire troppo.

“Dovremmo farlo regolarmente.” propose Mycroft.

John si sentì prendere dal panico. Non sapeva se avrebbe potuto sopportare di incontrare Mycroft regolarmente, ma non voleva nemmeno ferirlo. Per quanto i rapporti fra i due fratelli Holmes fossero stati effettivamente strani, John aveva sempre saputo che erano molto più legati di quanto volessero far credere e di quanto volessero ammettere loro stessi.

Non voleva aumentare il dolore che Mycroft doveva provare, negandogli la propria compagnia.

“Pensaci.” suggerì Holmes, notando come John fosse impallidito.

“Certo.” sussurrò John in risposta.

Accompagnò Mycroft alla porta e la chiuse alle spalle del visitatore.

John si appoggiò con la schiena alla porta chiusa e si lasciò scivolare verso il basso, fino a sedersi in terra.

Nella sua mente rimbombò la voce di Sherlock:

“Ti amo.” gli diceva e saltava.

John digrignò i denti per allontanare il ricordo della caduta.

Non voleva ricordare Sherlock per QUELLA.

Voleva ricordarlo per la sua magnifica intelligenza, per la sua esuberante vitalità, per il suo coinvolgente entusiasmo di fronte alle cose più strane.

Si rilassò e sorrise.

Sì.

Poteva farcela.

Poteva sopravvivere.

E, forse, poteva aiutare Mycroft a fare altrettanto.

 

 

Nel corso dei sette mesi seguenti, John ricevette altre visite di Mycroft, sempre senza preavviso.

John non si metteva mai in contatto con lui, ma Mycroft sapeva quando poteva trovarlo in casa e si presentava per prendere il the insieme.

Ogni tanto gli proponeva una serata a teatro o di cenare in qualche ristorante.

Le prime volte, John era stato riluttante, ma aveva accettato, più che altro nella speranza di essere di aiuto a Mycroft nel superare il dolore della morte di Sherlock.

Watson si sentiva come se per lui non ci fossero speranze, mentre per Mycroft poteva esserci la salvezza.

All’inizio la loro conversazione era quasi inesistente.

Se Mycroft chiedeva come stesse andando, John rispondeva:

“Bene. Grazie.”

Mycroft sapeva che era la risposta che John dava a chiunque gli domandasse come si sentisse.

Era automatica.

Significava:

“Va tutto bene. È tutto a posto. Non chiedermelo ancora perché non ti dirò mai che sono a pezzi.”

Mycroft supponeva che John non riuscisse ad aprirsi veramente nemmeno con la sua terapista, malgrado la vedesse regolarmente.

Con il passare del tempo, questi incontri con il maggiore degli Holmes erano diventati una piacevole routine anche per John.

Il maggiore degli Holmes gli aveva raccontato qualche aneddoto su Sherlock bambino, riuscendo a strappare a John qualche risata sincera.

Mycroft si sentiva molto soddisfatto di sé, quando riusciva a far ridere John.

Aveva notato come gli si illuminassero gli occhi e prendessero vita.

Purtroppo quella luce se ne andava rapidamente, ma Mycroft contava di riuscire a farla resistere sempre più a lungo.

 

 

Un giorno, John aveva tentato di spostare l’argomento sul lavoro di Mycroft:

“Se ti parlassi della mia giornata in ufficio, – aveva risposto Mycroft , scherzando – poi dovrei ucciderti.”

“Allora dovrei insistere per sapere cosa tu abbia combinato. – disse John senza alzare gli occhi dal liquido ambrato che aveva nella tazza – Sono sicuro che mi uccideresti velocemente e senza farmi soffrire.”

La risposta di John aveva fatto accapponare la pelle a Mycroft.

Non era riuscito a vederlo negli occhi, ma gli era sembrato che ci fosse qualcosa di strano nel tono della voce di John.

Pochi giorni dopo sarebbe stato il primo anniversario del suicidio di Sherlock e Mycroft temeva che John stesse pensando di togliersi la vita.

Il giorno dopo, John tornò a casa e scoprì di essere stato derubato.

Chiamò sia Lestrade che Mycroft, che arrivarono a casa sua quasi simultaneamente.

John era furioso:

“Chi è stato di voi due?” chiese senza preamboli.

Con aria innocente, Mycroft domandò:

“Perché mai uno di noi due avrebbe dovuto svaligiare il tuo appartamento?”

John lo fissò negli occhi:

“Come ti sei permesso di mandare qualcuno a rubare a casa mia? Voglio che tu mi faccia restituire tutto, arma compresa!”

Mycroft sapeva quanto fosse inutile negare:

“L’ho fatto per la tua sicurezza. – disse sulla difensiva – Non mi è piaciuto il tuo discorso sull’essere ucciso senza soffrire.”

“Non. Sono. Affari. Tuoi. – sillabò John, come se stesse parlando con un bambino piccolo – Stai. Fuori. Dalla. Mia. Vita.”

Mycroft valutò se giocare ancora la carta del legame di John con Sherlock, ma decise che non fosse il caso.

John era veramente arrabbiato ed avrebbe potuto reagire in qualunque modo.

“Ti farò riavere gli effetti personali ed il denaro. – disse infine – Non la pistola.”

“Concordo con lui. – intervenne Lestrade – Ora non sei più coinvolto in indagini pericolose e non hai bisogno di essere armato.”

John passò uno sguardo furioso da un uomo all’altro:

“Posso sapere di cosa avete paura entrambi? Pensate che mi voglia suicidare? – John stava praticamente urlando – Sono un medico! Se mi volessi uccidere, credete che avrei bisogno di una pistola? Sapete quanti sono i farmaci a cui ho quotidianamente accesso che mi permetterebbero una morte rapida ed indolore? Li volete elencati in ordine alfabetico o di tempo e dosaggio di decesso? Pensavo che foste miei amici e che capiste il mio dolore, ma se dovete solo essere i miei guardiani, non ho bisogno di voi.”

John stava stringendo così forte i pugni che aveva le nocche bianche.

I nervi del collo erano tesissimi e faceva quasi fatica a respirare.

“Fuori da casa mia! – sibilò – Subito! Entrambi!”

E voltò le spalle ai due uomini, mettendo fine alla discussione.

 

 

Il giorno del primo anniversario della morte di Sherlock, John andò, da solo, al cimitero a portare dei fiori sulla tomba e rimase lì, fermo, rigido ed in silenzio, per un tempo che a Mycroft sembrò eterno.

Avrebbe voluto andare da John ed abbracciarlo, consolarlo, rassicurarlo sul fatto che sarebbe andato tutto bene, ma Mycroft si sentiva in colpa per la menzogna rappresentata da quella lapide, che causava tanto dolore in quell’uomo fragile e forte allo stesso tempo.

Rimase, così, a guardarlo da lontano, per essere sicuro che non facesse nulla di stupido.

Per quello, bastava suo fratello.

 

 

Dopo la sfuriata, sia Lestrade che Mycroft evitarono di contattare John per qualche settimana.

Mycroft si rese conto, con sua somma sorpresa, che gli mancavano gli incontri con il dottore e decise che doveva rimediare al danno fatto.

In fin dei conti, aveva una promessa da mantenere e nulla gli avrebbe impedito di mancare alla parola data.

Per John era stata una pessima mattina perché si era trovato a sostituire un collega assente e aveva più pazienti che tempo.

Quando uscì per chiamare il paziente seguente, si trovò davanti un sorridente Mycroft:

“Buongiorno John, come stai?”

John lo degnò di un’occhiata frettolosa e gelida:

“Ho molto da fare. – si voltò verso i pazienti in attesa – Trevis Patterson.”

“Non ti ruberò molto tempo. – proseguì Mycroft – Volevo solo dirti che ho due biglietti per il Riccardo III, sabato sera. Ti passo a prendere alle 18. Andiamo a prendere un aperitivo, poi a teatro ed, infine, ho prenotato la cena da …”

“È uno scherzo?” lo interruppe John, che non sapeva se essere arrabbiato o sorpreso.

Mycroft non si scompose:

“Volevo solo farmi perdonare per il malinteso di un paio di settimane fa.”

“Sei perdonato. – tagliò corto John – Signor Patterson, si accomodi pure.”

“Insisto. – continuò Mycroft – Oramai i biglietti li ho presi.”

E rimase in attesa, appoggiato all’ombrello, con un sorriso serafico stampato sulla faccia.

“Dottor Watson, viene?” chiese con impazienza il signor Patterson.

John non aveva tempo per stare a discutere con Mycroft:

“Va bene. Ci vediamo sabato sera.” concesse e si girò per entrare nello studio.

“John? – lo richiamò Mycroft – Non cercare di eludere l’invito adducendo impegni di lavoro. Mi sono accordato con la cara dottoressa Sarah Sawyer che non ti dia dei turni di nessun genere, per sabato.”

John si voltò confuso:

“Hai parlato con Sarah?”

Mycroft si esibì in un sorriso sornione:

“Se ti fa piacere, puoi pensare che abbiamo complottato contro di te, affinché tu abbia una serata di svago.”

“Dottore, allora!” sbottò, impaziente, il signor Patterson.

John entrò nello studio, con un’espressione seccata sul viso.

 

 

Il sabato sera, John non aveva nessuna voglia di trascorrere la serata con Mycroft.

Durante l’aperitivo rispose sempre a monosillabi e si comportò in modo scontroso.

Lo spettacolo teatrale, però, lo colpì molto.

La cena risultò essere molto piacevole.

Mycroft lo riaccompagnò a casa che era molto tardi.

“Grazie per la serata. – disse John nel salutare – Mi dispiace di essere stato scortese all’inizio. Mi sono sentito un po’ preso in trappola ed è una cosa che non sopporto. Però, ti dirò che mi sono mancati i nostri incontri e le nostre chiacchierate. Grazie per avere insistito. Questo è l’unico complotto ordito alle mie spalle che ti perdono volentieri.”

Mycroft sorrise, compiaciuto per la riuscita della serata:

“Mi fa piacere che, alla fine, tu sia stato bene.”

John stava per scendere dall’auto, quando Mycroft lo fermò:

“John, tu lo sai che hai seminato un mio uomo stamattina, vero?”

Lo sguardo indagatore negli occhi di Mycroft era un po’ preoccupato ed un po’ curioso.

“Me lo sono immaginato. – confessò John – Spero che tu non lo abbia rimproverato troppo.”

“Non lo manderò a compiere una missione suicida. – disse Holmes – Vorrei sapere dove sei andato. Ogni sabato riesci sempre ad impedire ai miei uomini di seguirti.”

“Non mi piace essere sorvegliato.” ribatté seccamente John.

“È per la tua sicurezza. – controbatté con calma Mycroft – In fin dei conti, ci sono tante persone che hanno motivo di volersi vendicare di Sherlock.”

John lo fissò sorpreso:

“Perché qualcuno dovrebbe farmi del male per vendicarsi di Sherlock? Lui è morto, non avrebbe senso.”

Mycroft si irrigidì, dandosi dell’idiota per quello che aveva detto:

“Non puoi mai sapere cosa passi per la testa di certa gente ed io voglio essere sicuro che non ti capiti nulla.”

John studiò per qualche istante Mycroft:

“E va bene. – disse infine – Se hai qualcosa da mettere che non sia il tuo solito completo firmato, sabato prossimo ti permetto di venire con me, così potrai vedere dove trascorro il mio giorno libero. Se ti va.”

“A che ora devo essere qui?”

“Alle 6.30. Prendiamo la metropolitana.”

“La metropolitana? – la smorfia di disgusto sul viso di Mycroft era davvero buffa – Non possiamo andare in auto?”

“Metropolitana. – ribadì John, sopprimendo un sorriso – Prendere o lasciare.”

Mycroft emise un sospiro tragico che fermò il cuore di John, perché sembrava proprio Sherlock:

“Prendo.”

John lo salutò e scese velocemente dall’auto.

Entrato nel proprio appartamento, si chiese perché avesse fatto quella proposta a Mycroft.

Troppe cose in quell’uomo gli ricordavano Sherlock, non permettendo alla ferita della sua perdita di rimarginarsi.

 

 

Il seguente sabato mattina Mycroft si presentò puntuale all’appuntamento con John.

Era vestito in modo ordinario ed a John sembrò veramente bizzarro vederlo senza il suo solito completo.

“Dove andiamo?” domandò Mycroft curioso.

“Seguimi e vedrai.” rispose John, un po’ misterioso.

Mycroft non protestò e lo seguì tranquillo nella metropolitana, dove cambiarono diverse linee.

Ad ogni cambio, si avvicinavano sempre più alla periferia di Londra.

E non certo alla sua parte migliore.

John trovava divertenti le espressioni che comparivano, fugacemente, sul volto di Mycroft a causa della strana umanità e degli strani odori che si susseguivano nelle varie carrozze.

Quando uscirono dalla metropolitana, Mycroft capì di essere in uno dei quartieri più malfamati della città.

“John, tu sai dove siamo, vero?” chiese preoccupato.

“Certo, che lo so. – rispose John – Puoi tornare indietro, se vuoi.”

Mycroft non fece in tempo a rispondere che furono avvicinati da due ragazzi di colore, piuttosto robusti, coperti di tatuaggi e collane di vario genere, con un’aria pericolosa e decisamente armati.

“Ciao doc. Ti sei portato dietro un amico oggi?”

“Buongiorno Vincent. – rispose John affabile – È un aiuto.”

Vincent squadrò Mycroft dalla testa ai piedi, cercando di valutarne la pericolosità.

“Il tuo amico sembra innocuo, ma ha lo sguardo freddo e duro di uno capace di farmi a pezzi con le sole mani.” Valutò il ragazzo.

John riuscì a nascondere un sorriso:

“A volte l’apparenza inganna. – commentò sibillino, quindi chiese – A cosa devo il comitato di benvenuto?”

“Hai saputo dei problemi che ci sono stati stanotte?” domandò Vincent spostando lo sguardo da Mycroft a John.

“No. – sospirò John – Che cosa è successo.”

“I Tigers e i Blues si sono scontrati. – rispose Vincent – Hanno vinto i Tigers, ma ci sono dei Blues feriti, in giro. Vorrei che accettassi qualcuno dei miei nel tuo ambulatorio.”

“No.” disse John scuotendo la testa con decisione.

“Doc …”

“Assolutamente no. – lo interruppe John – Sai perfettamente quali siano i patti. L’orfanatrofio e la clinica sono territorio neutrale. Siete i benvenuti se avete bisogno di cure, ma non potete venire per altri motivi.”

“Ches e Puck non saranno facili da gestire, se dovessero arrivare alla clinica.” obbiettò Vincent.

Nel frattempo erano arrivati altri due ragazzi, visibilmente appartenenti ad un’altra banda.

“Ehi, doc!” salutò uno dei due nuovi arrivati.

“Buongiorno Michael. Come sta tua madre?”

“Bene, doc. Hai saputo di stanotte.”

“Me lo stava raccontando Vincent e la risposta è no, anche per te.”

“Ma doc …”

“Ragazzi, siete molto cortesi a preoccuparvi della mia incolumità, ma non vi voglio fra i piedi. Sono stato chiaro?”

I due capi banda si scrutarono per un po’.

“Possiamo mettere qualche ragazzo fuori a controllare il perimetro.” propose Michael.

“Così dovrei uscire per impedire che i vostri uomini si prendano a coltellate? – sbuffò John, cominciando ad irritarsi – Non voglio nessuno. Andrà tutto bene. Ora devo andare.”

Detto questo, superò i ragazzi e si diresse a passo deciso verso una grande struttura che si trovava in fondo alla strada, seguito da un silenzioso Mycroft.

 

 

Arrivati al grande edificio, un nugolo di bambini di varia età si precipitò al cancello salutando allegramente John ed abbracciandolo appena lo avevano a portata.

“Dottor John, ti sei portato dietro un amico?”

John li salutava sorridendo, accarezzando con tenerezza la testa dei bambini che lo stavano assalendo. Mycroft si stava tenendo in disparte, inorridito al pensiero di poter essere abbracciato anche lui.

Un bambino lo fissò piuttosto perplesso:

“Dottor John, al tuo amico non piacciono i bambini?”

John evitò di incontrare lo sguardo di Mycroft:

“Ha un grosso raffreddore e non vuole passare i suoi germi a nessuno.” rispose.

Una donna di mezza età, magra, con i capelli rossi e corti, di media statura, si avvicinò sorridendo:

“Buongiorno John. Ben arrivato. La sala d’attesa è già piena.”

John ricambiò il sorriso:

“Allora ho fatto bene a portare un aiuto. – si voltò verso Mycroft – La signora Carter. Il signor Holmes.”

La signora Carter allungò una mano:

“Elisabeth.”

Holmes strinse la mano della donna:

“Mycroft.”

John era riuscito a liberarsi dei bambini e si era diretto all’edificio.

Dentro una piccola sala d’attesa, persone di ogni età lo stavano aspettando.

John salutò e si diresse verso una stanza in cui era stato allestito un piccolo ambulatorio.

“Cominciamo.” disse infilandosi il camice.

La mattina trascorse in un lungo susseguirsi di visite.

Mycroft osservava John, sempre sorridente e comprensivo, pronto a dire a chiunque qualche parola di conforto e di incoraggiamento. Alcuni gli chiedevano consigli anche su questioni non prettamente mediche e John cercava di indirizzarli verso la persona giusta.

La signora Carter lo assisteva come infermiera.

Mycroft stava prendendo dei medicamenti da una stanza attigua, che fungeva da magazzino per le scorte, quando sentì una voce maschile giovane, ma dura:

“Doc, devi curare mio fratello.”

Mycroft, allarmato, si avvicinò alla porta e sbirciò dentro il piccolo ambulatorio.

Un giovane ragazzo di colore ne stava sostenendo un altro ferito ad un fianco, puntando una pistola verso John e la signora Carter.

“Ches abbassa quell’arma. – disse John con voce calma – Non ne hai bisogno qui dentro. Dovresti portare tuo fratello in ospedale. Qui non ho le attrezzature adatte a medicare ferite come la sua.”

Il ragazzo era molto nervoso:

“Se non fai quello che dico, andrò fuori e comincerò a sparare alla gente che aspetta. Finito con loro, mi occuperò dei bambini. Decidi tu, doc.”

John lo fissò per un attimo:

“Beth, per favore, vai in magazzino a prendere bende e disinfettante. Ches, sistema tuo fratello sul lettino.”

Mycroft si nascose dietro la porta. La signora Carter entrò e gli sussurrò:

“Venga. Dietro questa scaffalatura c’è un passaggio che porta fuori.”

Mycroft non voleva lasciare John solo, ma la donna lo prevenne:

“Fino a quando medicherà il fratello, Ches non farà del male ad dottor Watson.”

Mycroft uscì e tirò subito fuori il proprio cellulare:

“Anthea. – disse appena la donna rispose – Voglio una squadra speciale all’indirizzo che le darò. Subito.”

 

 

Passò quasi un’ora. John finì la medicazione e si levò i guanti in lattice:

“Ches, io ho fatto il possibile, ma devi portare tuo fratello in ospedale. Ha perso molto sangue e …”

“Tu verrai con noi.” lo interruppe il ragazzo.

John alzò uno sguardo duro sul ragazzo con la pistola:

“Forse non mi sono spiegato. – disse – Tuo fratello non ha bisogno di un medico, ma di cure specifiche che possono essere fornite solo da un ospedale!”

“Tu saprai cosa fare, se dovesse stare male.” insisté, caparbio, il ragazzo.

“Ches …”

“Ora basta doc! – urlò minaccioso il ragazzo – Se non vieni con me, comincio a sparare a lei!”

Il ragazzo puntò la propria arma contro la signora Carter.

John si mise fra Ches ed Elisabeth:

“Va bene. – si arrese – Andiamo.”

Si tolse il camice, si infilò la giacca, prendendo la valigetta e mettendo dentro tutto quello che pensava potesse essergli utile.

“Sbrigati, doc! – lo sollecitò Ches e si volse verso Elisabeth – Se chiami la polizia, il dottore è morto, chiaro?”

John fece un sorriso rassicurante alla donna, che era impallidita:

“Andrà tutto bene.”

John aiutò il ferito a scendere dal lettino ed uscirono.

Appena fuori, Mycroft si fece avanti a bloccare il passaggio ai tre uomini. Al suo fianco c’era Greg Lestrade:

“Stammi bene a sentire, ragazzo. – Holmes esordì in tono cordiale – Se non metti giù quell’arma e non ti consegni al qui presente ispettore Lestrade, non farai un altro passo. Chiaro?”

Il ragazzo fissò Mycroft con sguardo duro e stava per afferrare John, quando vide apparire sul proprio petto delle lucine rosse.

“Ti ho detto quello che devi fare se vuoi uscire vivo da questa situazione. – continuò Mycroft con voce gelida – Le tue opzioni non includono il prendere in ostaggio il dottor Watson. La scelta è tua.”

Ches fissò a lungo Mycroft negli occhi freddi, poi iniziò a piegarsi lentamente.

Appoggiò l’arma a terra e si inginocchiò, mettendo le mani sopra la testa.

Lestrade si avvicinò rapidamente a lui e gli mise le manette.

John fece coricare delicatamente il ragazzo ferito in terra e controllò subito la ferita.

“C’è un’ambulanza, vero? – chiese a nessuno in particolare – Questo ragazzo deve essere portato subito in ospedale.”

In pochi secondi, John fu avvicinato da paramedici a cui spiegò cosa avesse fatto.

Lestrade consegnò Ches ai suoi uomini, mentre i paramedici portarono via Puck.

“John stai bene? – chiese preoccupato l’ispettore – Sei ferito?”

“Va tutto bene, Greg. – rispose rassicurante Watson – Non mi ha fatto del male.”

Mycroft, nel frattempo, era stato circondato da un gruppo di bambini festanti che lo abbracciavano ed urlavano il suo nome, felici che avesse salvato il “Dottor John”.

Mycroft era decisamente imbarazzato ed accarezzava la testa dei bambini con la punta delle dita, con una smorfia sulle labbra che avrebbe voluto essere un sorriso di ringraziamento, ma che, in realtà, mostrava quanto gli abbracci fossero completamente indesiderati.

John sorrise intenerito dall’immagine dell’imbarazzatissimo Mycroft che si trovò davanti.

 

 

Mycroft aveva fatto arrivare la propria auto ed ordinò all’autista di andare verso casa sua.

John aveva accettato il passaggio, ma non parlò durante il tragitto.

Si era reso conto del fatto che Mycroft fosse arrabbiato, osservando la linea sottile e tirata delle labbra.

“Scendi.” ordinò Holmes in tono secco, quando arrivarono davanti a casa sua.

John sospirò. Gli sembrò di essere tornato bambino, con il padre pronto a sgridarlo per qualche marachella che aveva combinato.

Arrivati dentro casa, Mycroft esplose:

“Cosa sarebbe successo se oggi non fossi venuto con te? – urlò furioso – Ti rendi conto che ora saresti nelle mani di uno stupido ragazzino che si crede un grande criminale? Avresti potuto farti uccidere!”

“Ti ringrazio per quello che hai fatto. – disse John in tono ragionevole – Però, non cambierò le mie abitudini per ciò che avrebbe potuto accadere oggi.”

“Se vuoi fare volontariato, esistono posti più sicuri! Non è necessario frequentare il quartiere più pericoloso di Londra!” gridò Mycroft.

“Non hai il diritto di dirmi quello che posso o non posso fare. – ribatté John, iniziando ad arrabbiarsi – Non siamo niente, l’uno per l’altro. L’unico legame che abbiamo mai avuto è stato Sherlock e lui non c’è più. Ti ringrazio per avere cercato di aiutarmi a superare la sua perdita, ma questo non ti dà nessun diritto di controllare la mia vita. Credo che sia il caso di mettere fine ai nostri incontri.”

Con un gesto improvviso, Mycroft afferrò il viso di John e lo baciò sulle labbra.

John si ritrovò catapultato in una piscina, con altre labbra che lo baciavano.

Labbra di un uomo che ora non c’era più.

Labbra di un uomo che si era tolto la vita davanti a lui.

Mycroft si staccò da John, ma non gli lasciò il viso.

Appoggiò la propria fronte a quella del dottore, che respirava affannosamente:

“Non avrei mai creduto possibile una cosa come questa, ma io ti amo John. – sussurrò – Mi è stato chiaro oggi, quando ho pensato che quel ragazzo potesse farti del male. Se ti avesse ferito …”

“Mycroft … no …” la voce di John era appena percettibile.

Perché tutto questo lo stava riportando a Sherlock?

“Non respingermi, ti prego. – continuò Mycroft – Ti prometto che non ti ferirò. Voglio solo amarti. Voglio vederti felice. Voglio essere io a renderti felice.”

Mycroft riprese a baciarlo.

John si lasciò baciare e accarezzare.

“Resta con me stanotte.”

John sapeva che era sbagliato.

Nel suo cuore Sherlock era ancora vivo e John stava aspettando che tornasse da lui, per dirgli quanto lo amasse e che voleva che trascorressero il resto della loro vita insieme.

La sua testa, però, gli ricordava crudelmente, ogni giorno, che non era così.

Sherlock si era suicidato.

Nessuno dei suoi sogni si sarebbe avverato.

Fra le braccia di Mycroft, per la prima volta da quando Sherlock era morto, John si sentiva veramente vivo.

Si ritrovò a dire di sì con la testa.

Mycroft gli sorrise felice e lo prese per mano, per accompagnarlo nella propria stanza.

John lo seguì, cercando di dimenticare l’unico uomo che avesse mai amato in vita sua.

 

 

Nota dell’autrice

 

 

Il titolo si riferisce alla promessa che Mycroft fa a Sherlock poco prima che il fratello minore parta per la sua missione e che sarà la causa dell’avvicinamento del maggiore degli Holmes a John.

 

Aspetto i vostri commenti.

 

A giovedì J

   
 
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