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Autore: LeMuseInquietanti    10/01/2009    4 recensioni
Gavroche&Eponine >>>>>Abiti dimessi per coprire i resti dei ricordi smessi, incartati in cappotti troppo vecchi e stivali dai colori spenti. L’espressione persa di chi ancora non si è mai trovato per davvero. Un passo incerto, titubante. Si muoveva lungo i marciapiedi con l’aria di dover partecipare ad un funerale. I viali scoloriti dal pallore della brutta stagioni, ingobbiti per gli stenti. Ostello dei morti di fame, albergo di lusso che di notte contava più di centocinquanta stelle. << Tra i miserabili, noi siamo i signori >> sussurravano i monelli per strada,
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Brotherhood.
Gavroche + Eponine




Il freddo penetrava sotto gli abiti bucherellati, quella mattina d’inverno.
Su Parigi candidi fiocchi di neve erano scesi formando un manto gentile che ovattava nel suo braccio il rampante volo delle carrozze lungo i viali.
Gli alberi rachitici si commiseravano, chinavano il capo velato di gelida brina, inchinandosi ai passanti.
Abiti dimessi per coprire i resti dei ricordi smessi, incartati in cappotti troppo vecchi e stivali dai colori spenti. L’espressione persa di chi ancora non si è mai trovato per davvero. Un passo incerto, titubante. Si muoveva lungo i marciapiedi con l’aria di dover partecipare ad un funerale.
I viali scoloriti dal pallore della brutta stagioni, ingobbiti per gli stenti. Ostello dei morti di fame, albergo di lusso che di notte contava più di centocinquanta stelle.
<< Tra i miserabili, noi siamo i signori >> sussurravano i monelli per strada, quelli che avevano ormai quasi l’età per accedere alla cerchia degli uomini d’onore, con la lama nascosta nella tasca interna del soprabito. Mormoravano prendendo per il colletto le nuove reclute, bambini con il viso smunto e sporco, il respiro smorzato dal freddo. Le labbra bluastre, da cui fili di nebbia salivano al cielo. << viviamo in una pensione di lusso, possiamo spostarci da una stanza all’altra a nostro piacimento, e passiamo la notte sotto le stelle a inventare parole e a scambiarci le avventure. Beh, il pranzo non è il massimo, su quello dovrebbero lavorarci. >>
I monelli vivevano in una grande gabbia a forma di elefante, un mostro di rottami storti al centro di uno spazio vuoto, un deserto dove le oasi erano minuscoli cantieri morti, gli operai in quei giorni avevano fermato i lavori con i loro scioperi. Si diceva che ci sarebbe stata una rivoluzione, lo balbettavano le donne con timore al mercato rionale, tra un po’ di pane e delle mele mezze marce si sentiva nell’aria la voce del popolo. Stava per esplodere. Di nuovo. Quel mostro a due teste capace di rivoltarsi all’improvviso contro il suo domatore e di trasformarlo in vittima.
Tutti avevano paura della rivoluzione, dopo quanto era accaduto solo dieci anni prima.
Ma a Parigi il sangue nonostante la neve ribolliva nelle vene dei giovani sognatori, che si sa, sono i peggiori sanguinari sul campo di battaglia.
I monelli ancora troppo piccoli per capire l’importanza della rivoluzione, passavano il loro tempo a fare le formiche.
Presentandosi ad ogni ora agli angoli delle strade, bloccavano le carrozze, mendicavano un briciolo d’attenzione rincorrendo i passanti, per una volta non fischiavano le puttane con quella maniera acerba di chi agisce senza comprendere bene cosa significhi inseguire le gonnelle ma lo fa per sentirsi grande, un po’ come fumare quella roba che faceva lacrimare e tossicchiare.
I monelli piagnucolavano e mostravano gli occhi dolci, gelavano e maledicevano la notte gelida, si riunivano in drappelli per erigere un coro di lamenti fino a far impazzire di dolore le giovani passanti, le belle parigine dai capelli luminosi e dai nasi appena storti che si affacciavano dallo sportello delle carrozze, abitacoli dove il freddo penetrava solo per sbaglio, e porgevano con l’aria rattristata alla vista di simile spettacolo, qualche monetina nelle mani del bambino più piccolo.
Solo quando la carrozza sfuggiva, perdendosi nel marasma della capitale i bambini buttavano a terra la maschera del dolore e dei patimenti e mandavano a quel paese la bella damigella che aveva porto loro un soldo per comprarsi da mangiare e andare agli spettacoli di quart’ordine a vedere le loro sorelle recitare a gambe scoperte e a fischiare gli scemi della situazione e a schiamazzare nel buio impenetrabile della notte pungente rincorrendo i cani e sfuggendo alla morte, sempre con quel maledetto sorrisino beffardo sulle labbra.
I monelli sapevano corrompere anche la morte, diceva con orgoglio il loro capo, che non era né forte né grande, ma abbastanza sveglio da sembrare a tutti gli altri degno del grado di comandante. Questi aveva un viso vispo e colorito, appuntito per gli stenti dell’inverno ma mai spento in qualche triste espressione di sconforto.
Indossava abiti dalla dubbia pulizia, comunque passabili, ed un cilindro che doveva aver scroccato a qualche stupido signorotto che aveva avuto la malasorte di sedergli vicino all’opera. Gli altri bambini chinavano il capo quando lo scorgevano passare, gli consegnavano il bottino delle loro ore a spasso per i bassifondi e poi per le vie dei ricchi. Lo chiamavano << signore >> nonostante avesse al massimo dodici anni.
Solo pochi potevano degnarsi di camminare con lui, a meno che non si trattasse dei monelli appena reclutati, quelli che qualche madre aveva dimenticato di tirarsi appresso durante un’uscita o che il padre aveva sbattuto << a giocare >> fuori di casa e dai suoi pensieri, lasciando loro la porta chiusa per giorni e giorni. Per quei bambini il capo si comportava un po’ come da nuovo padre, insegnava loro il gergo e le regole del loro mondo, mostrava loro la bellezza d’essere liberi e padroni del proprio successo, e solo quando era sicuro che potessero cavarsela da soli li lasciava andare o riusciva ad affrancarli al suo gruppo di fedeli.
Gavroche era un cavaliere senza titolo o portafogli in fondo.
Gli piaceva perdersi nelle strade parigine, schernire le passanti della sua stessa classe sociale, e adorava scrutare nella folla, con un po’ di sano alcol in mano seduto in un locale all’aria aperta, perso a metà tra fantasia e realtà.
La realtà non l’aveva mai schiacciato, nonostante lui fosse diventato troppo presto uno senza casa e senza cognome. Suo padre non lo riconosceva più, sua madre non lo aveva mai riconosciuto.
Entrambi erano vivi e vegeti, ma era come se fossero morti.
O meglio, con amarezza se l’era ripetuto fino a perdere anche quell’angoscia che prima gli strappava il cuore dal petto, lui per loro non era niente.
Materiale organico da smaltire al più presto.
Gavroche aveva anche due sorelle, che lo avevano salvato dalla morte per fame quando era nella culla e nessuno pensava a lui. O meglio. Lui ricordava di avere tre sorelle.
O forse quella terza ombra luminosa che parlava con lui trattandolo come fosse la cosa più bella che avesse mai conosciuto al mondo era solo un suo sogno, qualcosa che non esisteva davvero.

Gavroche quel giorno era tornato al grande elefante saltellando in modo vispo. Si era innamorato di una ragazzina.
Aveva i capelli rossi e lavorava in una bettola. Quindici anni appena e un sorriso che prometteva il paradiso. Un sorriso che lui poteva comprare per qualche lauta mancia. Presto avrebbe ottenuto anche più delle sue labbra, si era detto tutto serio.
Aveva l’età giusta per diventare un uomo per davvero. Anche se uomo lo era da quando aveva tre anni e doveva guadagnarsi il pane e guardarsi le chiappe da cani porci e soprattutto, uomini.
Ripensò per stare allegro alla sua bella. Lavorava alla stessa locanda in cui ogni tanto vedeva passare quell’altra sventurata di sua sorella Eponine, che doveva avere anche lei più o meno quell’età. Eponine però sembrava già più vecchia. Solo i suoi occhi mostravano il cuore di ragazza che dentro la caricava di stupide illusioni. Tipo la passione per quel giovanotto dall’aria incantata, povero in canna, che sua sorella seguiva ogni giorno silenziosa come un gatto, per i vicoli di Parigi, fino ad un cancello che pareva inespugnabile per ogni miserabile di rispetto dove il giovane si fermava, gli occhi disperati e rosi dall’angoscia fissi alle finestre apparentemente disabitate oltre l’uscio, e con i pugni serrati in tasca, i piedi piantati rabbiosamente nel terreno. Diventava un albero incapace di smuoversi di lì, metteva su radici, e quella fessa di Eponine si accovacciava dietro l’angolo, con l’abito che avrebbe finito per ucciderla per come la copriva malamente, e i capelli da sventurata mal pettinati lungo le spalle, sciolti dal vento e dalla foga dell’inseguimento. Sembrava una puttana di cinquant’anni, illusa ancora di piacere agli uomini e delusa dalla vita malsana che aveva dovuto sopportare. Guardare quel giovane uomo, poco più grande di lei, doveva essere un palliativo alla sua tristezza.
Sapere di non poterlo mai avere, era solo un’assicurazione per il suo cuore.
L’unica cosa che non le avevano strappato volente o nolente, era proprio quell’amore di cui nessuno sapeva cosa farsene.
Non poteva donargli né un nome né una dignità, solo i suoi sguardi più sinceri, la sua presenza silenziosa, la vigilanza costante sugli affari suoi.
Era un fantasma buono, non si sarebbe intromessa negli affari d’amore di Marius. Le bastava poter amare la bellezza melensa della sua schiena, rivolta sempre verso di lei.
Gavroche capiva questo con un’occhiata, e con il suo fare schietto, quella stessa mattina, forse esaltato dalla bellezza della sua Marie, aveva fermato Eponine e con i suoi occhi celesti fissi in quelli della sorella aveva borbottato << da quando sono le gonne a far le poste ai calzoni? >>
Eponine lo aveva fulminato, non riconoscendo la voce lievemente cambiata del fratello, che stava crescendo a vista d’occhio, e solo dopo alcuni secondi sussurrò un << fatti i fatti tuoi >> con un accenno pericoloso di rabbia nella voce roca.
<< faresti meglio a prenderti quel pidocchioso che ronza attorno casa tua da qualche tempo, prima che lui prenda te senza nemmeno assicurarti un futuro o che la Signora ti derubi anche del respiro. Non hai una bella cera. Sembri più vecchia di tua madre >>
Eponine gli aveva assestato un calcio negli stinchi, tentando di mantenersi più silenziosa possibile. Gavroche le si era accovacciato accanto, cacciò dalla tasca quello che sembrava un liquore stantio e glielo porse con fare caritatevole << bevi, ti rincuorerà >>
<< Non ne ho bisogno, grazie >> replicò lei, arrossendo dalla rabbia.
Marius si voltava udendo quei bisbigli, ma dalla sua posizione non riusciva a scorgere nulla di quanto accadeva davvero a pochi metri da lui.
<< Lui non ti amerà mai >> disse con calma il monello, sospirando << tutti abbiamo le nostre gatte da pelare. Vedi me, innamorato di una locandiera. Tutti sanno che quelle ti castrano in un modo o nell’altro. O peggio, ti incastrano. E poi gli altri usano le tenaglie e ti assicurano un lavoro all’opera. Evirati unitevi >>
Eponine sorrideva, vedendo che suo fratello non aveva perso il suo spirito ironico. Era deperito e cresciuto. E lei invecchiata.
<< Strano che tu mi abbia riconosciuta. Hai ragione. Assomiglio a nostra madre sempre di più >>
Gavroche la osservò silenzioso.
Scosse il capo, dopo aver bevuto un po’ dalla bottiglia << non è vero. Tu non hai la barba. >>
Eponine scoppiò a ridere allegramente. << meglio dire non ancora >>
<< se fossi stata ricca, a quest’ora saresti con lui >> mormorò il bambino. In fondo, era solo un fratello. Acerbo, aspro, falsamente coraggioso.
Un piccolo uomo abbandonato a se stesso che non voleva lasciare andare una sventurata.
Erano due miserabili legati da una catena inossidabile.
Fratelli.
<< non sono i soldi che mi mancano, per stare con il signor Pontmercy. Mi manca un viso angelico, un’aria famigliare che mi inquieta ed un riserbo che non mi si addice. >> si rassettò la veste sospirando. << Non è questo che mi impedirà di seguirlo. Piuttosto tu perché mi segui? Dovresti odiarmi. Tu vivi per strada >>
<< Tu hai la strada in casa >> replicò alzando le spalle il bambino, cacciando dalla giacca una mela e mordendola sonoramente.
Eponine annuì, di malavoglia. << Fratelli nelle disgrazie >> sussurrò, mentre Marius, come sempre, riusciva a scavalcare il cancello, e lei a scorgere un braccio candido che si protendeva verso il giovane. Una mano esile ed elegante. La mano che univa i loro destini.
Eponine si morse le labbra, e si diede piccoli pizzicotti alle gambe. << diavolo. Fa male più di questo >> mormorò.
Gavroche le diede una pacca sulla spalla, offrendole di nuovo il liquore << fratelli nelle disgrazie >> ripetè con fare da filosofo in fasce.
Eponine tra le lacrime non potè far a meno di lasciar cadere quella bottiglia piena di veleno e di stringerselo al petto.
Singhiozzarono insieme fino a stordirsi.
FINE


Altra storiella scardinata e senza pretese. Se avete retto fino a qui e siete rimasti insoddisfatti, lapidatemi pure. Se vi ha strappato un'emozione, mi farebbe piacere che me lo faceste sapere >,<
Spero che alla mia affezionata Alaide possa piacere.
Ti ringrazio molto per le recensioni precedenti.
Presto pubblicherò una Eponine/Marius. Io li adoro insieme. <3
Maria
  
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