3.
Qualcosa come un..
«Io
però non l’ho fatto.»
«Cosa?»
«Questo.» Alec girò gli occhi in un gesto che
poteva dire due cose: non era nei piani
e ma tanto lo devo fare lo stesso. A
ben vedere, poteva trattarsi di una somma di entrambe le frasi. «Non ti ho costretto a parlare da solo con il
rischio che la gente ti prendesse per matto.»
Jace, che gli camminava accanto, atteggiò il volto
in un’espressione di cinematografico sdegno. «Ma sentitelo. Giusto, tu e Magnus
mi avete abbandonato a parlare con un lupo mannaro che voleva portarmi a letto.
Io questo lo chiamo par condicio.»
L’altro aveva in mente una parola diversa,
qualcosa che cominciava per v e
finiva per “-endetta”, ma la tenne
per sé. Se ne rimase zitto, impettito nel cappotto scuro, le mani inchiodate
nelle tasche e il mento accomodato nel confortevole abbraccio della sciarpa
grigia. Camminavano su quella via da quelli che gli sembravano secoli, ma uno
sguardo lanciato al grande orologio circolare che torreggiava di fianco ad una
pensilina per autobus gli disse che erano passati solo quindici minuti da
quando avevano lasciato l’Istituto. E un’altra cosa, una considerazione pratica
ed evidente, gli suggerì invece che il verbo più corretto era camminava.
Jace si era reso invisibile a tutti, mondani e
non, e la gente se ne stava semplicemente lontana da lui, aggirando la sua zona
di competenza con spontaneità e noncuranza. C’era chi lo evitava mentre
chiacchierava al telefono, chi passava oltre rispettando una misteriosa e
intangibile distanza di sicurezza. Alec aveva cercato di illuminarlo sulla poca
correttezza di quella decisione, ma il parabatai si era limitato ad un “adesso
è il tuo turno, non il mio”. Semplice e conciso, con lo stesso tono con cui ci
si vuole prendere una soddisfazione o agire per ripicca. Aveva ottimi motivi
per credere che l’opzione giusta fosse la seconda.
Era una mattina fredda, una di quelle in cui
il cielo è basso, gravido e grigio come piombo. Izzy era impegnata con gli
allenamenti e Magnus, almeno a quanto aveva detto, aveva delle urgenze da
sistemare. Non c’era nulla di entusiasmante nel pensiero che Jace avesse quindi
un’estrema libertà d’azione, non quando la notte prima lo avevano trascinato al
The World’s Under There e costretto a
trascorrere due indimenticabili ore in compagnia di uno spasimante logorroico.
C’erano parecchie cose, rifletteva Alec, che già non gli piacevano, prima fra
tutte il fatto che, qualunque cosa fosse stato sfidato a fare, avrebbe dovuto
farla completamente da solo, ben visibile ai mondani, senza la possibilità di
cercare la soluzione negli occhi del parabatai. Naturale; il suo parabatai non
sarebbe esistito, non tra la gente comune, non tra i Nascosti, non quella
mattinata. Fantastico.
«Dove stiamo andando?» domandò, senza mancare
di fargli intendere con uno sguardo che non aveva voglia di accogliere le sue
provocazioni. «Hai almeno idea delle strade che abbiamo preso?»
«Andiamo in un posto», rispose Jace. In faccia
gli era spuntato un sorriso vago, quell’indizio di noncuranza che avrebbe
potuto precedere anche un suo più classico Andiamo
a cercare qualche demone da ammazzare. Ad Alec, neanche a dirlo, non
piacque. «Dovresti goderti un po’ la routine dei mondani. Non è male.
Conosceresti anche più luoghi da frequentare.»
«Non ci sono luoghi che voglio frequentare.
Anzi, non voglio frequentare e basta.»
Due signore che venivano dalla direzione
opposta gli scoccarono uno sguardo e passarono oltre, scambiandosi un’occhiata interrogativa.
Forse, diceva l’espressione di una delle due, il ragazzo aveva delle auricolari
nascoste dalla sciarpa e stava parlando con qualcuno al telefono.
«Ho pensato, dato che sono appena le nove, di
fare colazione e di prenderci un caffè», annunciò Jace. Poi, complice un rapido
calcolo: «Prenderti, ecco. I soldi me
li ha dati Clary.»
«Potresti renderti visibile e prenderlo con me.»
«Hai detto qualcosa?»
«No, niente.» Alec macinò qualche altra
parola, tra cui tanto, che e diverti. Dubitava che Jace lo avesse
sentito, ma fermo restava che il messaggio gli si poteva benissimo leggere in
faccia. Poche cose erano più trasparenti delle maschere di sopportazione che si
metteva addosso quando cominciava a perdere la pazienza.
A Jace, che non colse il borbottio, bastò la
sua faccia. «O preferisci la cioccolata? Il caffè non va bene?»
«Non è questo», si arrese l’altro, continuando
a camminare a passo svelto. «Se non ricordo male, quando abbiamo deciso di fare
questa stupidaggine non abbiamo compreso l’aggravante della crudeltà.»
«Oh, è stato crudele abbandonarmi al bancone
di quel locale per gay», e il suo tono era solenne il giusto per sapere di
sarcasmo. «Mi avete spezzato il cuore.»
«E allora dillo.»
«Dire cosa, Alec?»
«Che mi hai chiesto di rendermi visibile ai
mondani solo per vendetta.»
Un momento di silenzio. Poi Jace, con un
sorriso da orecchio ad orecchio: «Non lo dirò. Preferisco continuare a fartelo
credere; questo genere di crudeltà psicologica è ancora più soddisfacente.»
* * *
Aveva con ingenuità creduto che Magnus e Izzy avrebbero
fatto da giudici per tutto l’arco della giornata. Date le premesse, lo avrebbe
preferito. Jace non era quel tipo di persona da lasciarsi sfuggire l’occasione
di girare una carta a proprio favore; le sue ripicche erano metodiche e, cosa
più importante, indolori solo all’apparenza. Quando si trattava di aguzzare
ingegno e sarcasmo era praticamente insuperabile. Riflettendo su quel che lui e
Magnus lo avevano costretto a fare, Alec si scoprì abbastanza maturo da
riconoscere che una piccola vendetta l’avrebbe meritata. La colpa era più stata
dello stregone che sua (neanche avevano ballato a lungo, a dire il vero), ma
non gli andava di fare polemica. Jace aveva probabilmente patito l’Inferno
seduto al bancone di quel locale, e lui, da bravo parabatai qual era, avrebbe
affrontato la propria parte senza fiatare. Ammesso e non concesso che la sfida
si sarebbe rivelata moralmente accettabile.
Il luogo davanti a cui si erano fermati non
aveva un aspetto malvagio. Era schiacciato fra una libreria e un negozio di
vestiti, con i mattoni rossi ben in vista sulla facciata. Il nome stampato
sulla porta di vetro in simpatici caratteri verdi – The Cloak - non gli era nemmeno nuovo. Di fronte a quel bar doveva
essere passato almeno qualche volta, senza però mai fermarsi. Poi si accorse
che la strada su cui si affacciava era quella che cinque isolati più avanti
incrociava la via in cui abitava Magnus. Quella considerazione topografica
bastò a dirgli che sì, allora ricordava bene. Non se n’era accorto prima perché
avevano preso scorciatoie che lui, di norma, puntualmente scartava.
«È rincuorante sapere che la tua terribile
vendetta è un bar», commentò Alec, ma non nel tono sicuro che avrebbe voluto. Forse
aveva indovinato l’obiettivo del parabatai.
«Già» disse Jace, «sono caritatevole. Ripassa
mentalmente le regole del nostro mondo, perché ti serviranno.»
«Devo considerarlo come un grado di difficoltà
in più?»
«Se può esserti d’aiuto. Dovrai entrare,
mettere gli occhi su una bella ragazza e attaccare bottone. Lo so» aggiunse
alzando la mano quando Alec lo guardò come se avesse appena imprecato, «per te questo
è già improponibile.»
«Perché? C’è anche altro?»
«Offrile qualcosa, forse, e dalle il tuo
numero di telefono. Il tuo.» Jace fece spallucce, neanche stesse affermando che
due più due fa quattro. «Ovvero, detto in breve, rimorchia come se non ci fosse
un domani. In effetti un domani non c’è, dato che la tua giornata da etero è
oggi.»
«Non posso darle il mio numero», si difese
l’altro, non senza un certo impeto. Una coppia che passava in quel momento gli
lasciò addosso uno sguardo incuriosito prima di passare oltre. Auricolari sotto
la sciarpa, sempre. Ovvio, cos’altro? «Là dentro ci sono solo mondani!»
«Il tuo», ribadì il biondo, scoccandogli ora
un’occhiata truce. «Altrimenti mi spieghi dove sta la difficoltà? Certo, tolto
il fatto che parlare con una ragazza è già di per sé un’impresa biblica, per
te. E poi ti basterà sparire dalla circolazione e non rispondere se ti chiamerà
o scriverà. Dato il mestiere che fai, svanire nel nulla non sarà difficile.»
«Grazie tante», sbuffò Alec. Non aveva ancora
mosso un passo verso la porta del bar, attraverso il cui vetro indovinava
qualche tavolino occupato e la curva del bancone di legno verniciato di verde
scuro. C’erano forse sette, dieci persone.
«Il tuo
numero», sottolineò Jace per la terza volta. Aveva fissato gli occhi verso
quelli del parabatai sebbene questi stesse sbirciando nel piccolo locale con
una diffidenza e un’indisposizione quasi teatrali. «Se per il momento non c’è
dentro nessuno di interessante, aspetterai. Il tuo. Giuralo. Giuralo sull’Angelo, o stasera ti trascino in uno
strip club e ti lego davanti al cubo di una spogliarellista per costringerti a
guardare.»
Non era necessario sondare il suo tono di voce
per sapere che sarebbe stato in grado di farlo. Alec incrociò le sue pupille,
rigido nel cappotto e nell’espressione. «E va bene», si buttò. «Lo giuro
sull’Angelo. Felice?»
«Come il sole che sorge su Idris. Prendi i
soldi e entriamo.»
«Ah, entri anche tu? Per controllare?»
«Per accertarmi che non rimorchi un
transessuale. Sarebbe barare.»
Stava scherzando, ma l’altro dovette
contenersi dalla voglia di mollargli uno pugno o uno schiaffo sul braccio. A
trattenerlo fu soprattutto la certezza che, se l’avesse fatto, la gente attorno
lo avrebbe visto picchiare l’aria. Quel genere di attenzione, quella che si
riserva ai matti o alle persone strambe, era proprio quella che voleva evitare.
L’interno era più spazioso di quanto sembrava
promettere l’esterno. Il bar si sviluppava in profondità, diviso in un secondo
locale a cui si poteva accedere varcando un’arcata, così i dieci tavolini nel
primo spazio diventavano venti sommandoli a quelli del secondo. Era un ambiente
ordinato, luminoso a dispetto del suo essere incastrato tra due altre attività.
Al bancone era accomodato solo un trio di uomini che discutevano animatamente
di sport. Non sembravano troppo interessati ai cappuccini che il barista aveva
messo loro davanti da probabilmente cinque minuti tondi, considerando che dalle
tazze saliva ben poco vapore. Quanto ai tavolini, qualcuno c’era, ma Alec non
si soffermò ad osservare con attenzione; supponeva che guardarsi intorno come a
giudicare la clientela non fosse sinonimo di educazione nemmeno fra i mondani.
«D’ora in avanti non cercarmi», dichiarò Jace,
non senza un bel sorriso a coronargli il volto. «Sappi che ho scelto uno dei
migliori bar di Brooklyn. Qui fanno dei caffè ottimi. Ringraziami.»
«Sì, certo», mormorò il parabatai, decisamente
poco convinto. Puntò verso il bancone e si mosse. «Non fiatarmi sul collo.»
Desiderava mettere lì il punto del loro
dialogo, chiudere il caso con quel gentile invito a non mettergli pressione, e
l’altro dovette intenderlo, perché gli offrì un certo vantaggio prima di
andargli dietro, mani nelle tasche e occhi scappati a sbirciare i dintorni
quasi che potesse esserci puzzo di demone nell’aria. Nulla di eccezionale; era
poi sempre quella l’impressione che dava quando si aggirava nella
caleidoscopica realtà mondana. Ottenere una visione d’insieme era di
fondamentale importanza anche mentre non si era a caccia.
Alec si era intanto guadagnato una delle
seggiole accostate al bancone. Tra sé e i tre uomini aveva lasciato un posto di
distanza, come se quell’ostacolo equivalesse ad un confine di sicurezza. Dando
uno sguardo a Jace, lo vide proseguire oltre, verso la seconda stanza del
locale, con passo ora tranquillo e disinvolto. Il pensiero che stesse andando a
farsi un’idea della clientela che sedeva dall’altra parte gli fece provare, se
non disagio, almeno una punta di irritazione.
Poi una domanda. Lì di fronte. «Cosa ti porto?»
Quando tornò a guardare davanti a sé, di
scatto, vide che il barista si era avvicinato e lo osservava con un lieve
sorriso di cortesia. Era magro come un chiodo, brizzolato, guance
inaspettatamente piene. Trovò qualcosa di straniero nel suo accento e nei suoi
occhi color nocciola. Doveva essere qualcosa di europeo.
Rimase qualche istante a fissarlo e basta,
colto totalmente alla sprovvista. La sua espressione, ci giurava, era quella di
uno appena caduto da un pero. O da un campanile, a seconda delle
interpretazioni. Quando si accorse che l’occhiata dell’uomo si era fatta quasi
interrogativa, sfilò un breve e rapido sorriso e pescò un: «Caffelatte. Basta
questo, grazie.»
A caso, si disse. Non gli andavano né il caffè
né il latte, ma forse una somma dei due sarebbe andata bene. Per la verità lo
stomaco gli si era strizzato come un guanto di lattice, ma anche questo era un
dettaglio trascurabile. Doveva essere ansia da prestazione.
Il barista lasciò lo strofinaccio che teneva
in mano in un sottoripiano del bancone. «Subito.»
Stava ancora sorridendo mentre si allontanava
per preparargli quanto chiesto. Alec approfittò di quella tregua per dare
un’occhiata ai tre uomini, che ancora non avevano smesso di commentare, a
quanto poteva intendere, una certa partita di un certo torneo di baseball. Si
domandò cosa i mondani trovassero di entusiasmante in un gioco in cui si doveva
correre dietro ad una pallina come barboncini isterici. Ci stava ancora
pensando, gomiti inchiodati sul bancone e testa appena incassata fra le spalle,
quando una voce gli parlò all’orecchio:
«Poi vai di là. Secondo tavolo a destra.»
Jace. Ovviamente.
Sobbalzò e si voltò di scatto, trovandosi
faccia a faccia con lui. Con il suo sorrisetto. «Ti ho detto di non fiatarmi sul collo», sibilò tra i
denti, dando uno sguardo ai tre per accertarsi che non lo avessero sentito. «Dammi
tempo.»
«La ragazza seduta a quel tavolo potrebbe
anche non averne, di tempo», spiegò il biondo in tono insopportabilmente serio
e competente. Aveva persino arcuato appena le sopracciglia nell’espressione del
mentore che dà consigli pratici al suo diletto, e parlava a bassa voce, neanche
qualcuno avesse potuto sentirlo. L’ipotesi più accreditata era che lo facesse solo
per agire da scomoda e irritante vocina della coscienza. «Forse tra poco se ne
andrà a qualche corso universitario, o al lavoro, o a badare ai poppanti di
qualche sua amica rimasta incinta troppo presto per colpa di un...»
«E va bene, va bene, per l’Angelo», lo interruppe l’altro, alzandosi così di colpo
da rischiare di rovesciare la seggiola. Fece un cenno al barista, indicando
l’altra saletta, e l’uomo, che stava preparando la tazza in quel momento, alzò
la mano di rimando in un gesto disinvolto e noncurante che a parole sarebbe
stato un okay quasi cameratesco.
L’intenzione di Alec era raggiungere quello
stato emotivo per cui si è pronti ad accettare passivamente qualsiasi cosa. La
formula di quella condizione miracolosa e liberatoria era il classico vada coma vada. Funzionava spesso, e
funzionava bene. Aveva funzionato anche con Magnus, durante quel periodo di
frequentazioni vaghe e allusive che promettevano tante belle cose per il
futuro; e se aveva funzionato con lui, con il Sommo Stregone di Brooklyn, con
una personalità così eccentrica, stramba e carnevalesca, perché non avrebbe
dovuto funzionare per far abboccare una stupida, ingenua mondana che si crogiolava
nelle sue stupide, ingenue certezze?
Vada come vada. Facciamolo e basta. Cosa vuoi
che sia. Non può essere più difficile dell’ammazzare un demone. Una convincente
catena di pensieri che si spezzò quando si fermò sull’uscio della seconda
saletta. D’altronde osservare un muro da lontano è molto più semplice che
sbatterci contro il muso.
Là dentro c’era davvero molta più gente. A
giudicare dall’età media della clientela, che si aggirava attorno ai venti,
venticinque anni, quel bar doveva essere la meta favorita da molti studenti e
giovani del posto. Sul fondo della stanza scendeva una scaletta, da cui
presumibilmente si raggiungevano i bagni, e una seconda a chiocciola saliva
invece al piano superiore, dove forse, a giudicare dal cartello “privato”, alloggiava il proprietario.
Solo in un secondo momento guardò verso destra e cercò il tavolo di cui Jace
gli aveva parlato.
Una ragazza in effetti c’era, seduta da sola.
Capelli corti e castani, tagliati sulle spalle, e borsa a tracolla sistemata
sulla sedia accanto. Era presa a leggere un tascabile, o forse era una rivista
esageratamente piccola, e con la mano libera stringeva il bicchierone colmo di
succo d’arancia rossa. Dagli abiti non sembrava una studentessa; più probabile
che stesse semplicemente bevendo qualcosa prima di riprendere una passeggiata.
O prima di andare dalla famosa amica rimasta incinta a cui Jace aveva accennato
giusto per mettergli fretta.
Alec sapeva che il parabatai lo stava
osservando dal bancone. Non c’era bisogno di affidarsi alla runa che li legava
perché si sentisse addosso i suoi occhi. Decise di non dargli la soddisfazione
di vederlo immobile per più di cinque secondi, così si mosse in direzione della
ragazza. Com’è che si diceva? “Via il dente, via il dolore”? Ecco un altro modo
di dire che si addiceva alla perfezione alla circostanza.
Accostate al tavolo c’erano in tutto quattro
sedie. Tolte le due già occupate dalla sconosciuta e dalla sua borsa,
rimanevano quelle giusto di fronte. La cosa davvero positiva era che non c’era
un tavolo completamente libero. Una scusante per sedersi con lei, quindi,
l’aveva. Il pensiero lo consolò.
Non che avesse ben in mente come presentarsi.
I mondani erano però semplici, piuttosto malleabili ed elementari. Non c’era
bisogno di prepararsi un discorso per poter chiedere a uno di loro se ci si
poteva sedere proprio di fronte, a patto di non beccare un evaso o un paranoico
cronico. La tizia non sembrava rispondere a nessuno di quei due casi, così
qualcosa come un “ehi”, chiaro ed essenziale, avrebbe potuto funzionare. Qualcosa
come un...
«Ciao», se ne uscì, fermandosi davanti a lei. Ciao? Sul serio aveva esordito con un
imbarazzante, banale ciao?
La ragazza alzò gli occhi di colpo.
Dall’espressione che gli rivolse, un moto di sbigottimento misto a sorpresa
pura e semplice, doveva essere stata strappata ad una lettura attenta e
appassionata. Portava un paio di occhiali, una montatura nera, grande e lucida,
di quelle che andavano di moda. Le lenti sottili mettevano in risalto la
basilare linea di matita con cui si era truccata gli occhi.
Era carina, si disse Alec. Il suo orientamento
sessuale non gli impediva di riconoscere la bellezza femminile. E la tizia,
anche se semplice, anche se decisamente diversa nel volto e nell’atteggiamento
da Izzy, non era male. Carina, per l’appunto.
Dopo un momento di confusione, lei sfilò un
sorriso sbadato. «Ciao.» Così, per puro riflesso. Poi rimase a guardarlo, con
in faccia una domanda che Alec non tardò ad interpretare.
«Posso sedermi?» chiese. «Non ci sono altri...»
«Oh, sì, certo.» Chiuse quel che stava
leggendo, consegnandogli così il titolo. Una guida turistica. «Fai pure, non ci
sono problemi.»
Il Nephilim capì che probabilmente lei era più
in imbarazzo di lui. Fu una realizzazione rincuorante. Ringraziò e si sedette,
non senza una certa rigidità che, anche volendo, non sarebbe riuscito a
correggere. Si era infilato le mani nelle tasche del cappotto, come a
comprimersi nel minor spazio possibile o, preferibilmente, come a volersi far
assorbire dallo schienale della sedia. L’animata discussione dei tre uomini al
bancone era stata sostituita dal chiacchiericcio vivace dei giovani che
affollavano gli altri tavoli. Ogni tanto, da qualche parte e per qualche
motivo, si levava una risata.
«Sei di qui?» domandò la ragazza. Il suo era
un tono da conversazione.
«Sì. Di qui.» Meditò di limitarsi a quello, e
invece trovò la giusta ispirazione per ricambiare la domanda. «Tu?»
«Sono della Florida. Graceville, contea di
Jackson», disse lei, e batté la mano sulla guida turistica. «Sono qui in
vacanza. È un bel posto.»
«Già.» Alec si mosse, ma giusto il minimo, per
sistemare meglio le gambe sotto al tavolo. Fu allora che un movimento
famigliare gli consigliò di gettare un’occhiata sulla sinistra. Mancò poco che
mollasse la mandibola.
Jace aveva fatto il suo ingresso e, con un
balzo, si sedeva proprio in quell’istante su un tavolo giusto oltre il
passaggio lasciato libero. Mani nel giubbotto, appoggiò la punta dei piedi sul
pavimento e se ne rimase così, accomodato tra due persone che ovviamente non
potevano vederlo e che continuarono a chiacchierare del più e del meno. Quando
si accorse che il parabatai lo aveva notato, gli indirizzò un’alzata di
sopracciglia, un lieve sorriso e un cenno del mento. Di incoraggiamento, forse.
Si era sistemato deliberatamente lì per agire da pubblico.
La ragazza seguì la direzione in cui
guardavano gli occhi di Alec, ma non disse nulla in merito. «E quindi... che
fai, studi?» chiese invece, e lui tornò subito a guardarla, con la sensazione
fisica di essere impallidito di colpo.
«Sì. Cioè, no. O meglio» si riallacciò dopo
qualche tentativo di risposta, «lavoro di qua e di là. Mi adatto.»
Pregò che ci fosse del senso in quel che aveva
detto, poi si ricordò che una delle regole del fascino era il mistero. Un punto
a suo sfavore, dato che restare nel vago e mentire non erano abilità in cui
eccelleva. Magnus gliel’aveva ripetuto così tante volte da fargli venire il mal
di testa. La gente si divertiva a fargli notare che quand’era agitato, in
imbarazzo o nervoso, la sua faccia era un libro aperto.
Lei però non sembrò farci caso. Il suo disagio
pareva anzi darle un po’ di coraggio. Sorrise, poi gli tese la mano. «Monica»,
si presentò.
Alec si sorprese ad accettare la stretta quasi
subito. «Alexander. Alec.» Ritirò il braccio in tempo per permettere al barista
di piazzargli davanti la tazza di caffelatte. Ringraziò con una certa
distrazione.
«Sai, devi essere forse la prima persona del
posto con cui parlo. Eccetto quelli dell’hotel, ovvio.»
«Sì?»
«Sì. Vivi lontano da questa zona?»
Fu tentato di dirle che in realtà aveva il
domicilio in un altro mondo, ma era un pensiero malvagio. Non era poi
un’interlocutrice così fastidiosa. «Non molto», rispose, girando il cucchiaio
nella tazza. «Qualche isolato.»
«E vieni qui spesso?»
«Ogni tanto.» Rettifica: era irritante subire
un interrogatorio. Così sollevò gli occhi e chiese, a bruciapelo: «Sei in
vacanza da sola?»
«Con papà e la sua compagna», disse lei. Dal
tono, era facile capire che la cosa non la entusiasmava. «Non si fida ancora a
lasciarmi viaggiare da sola. I miei diciotto anni non gli bastano.»
«Ce ne vuole, per accontentarli», se ne uscì
Alec, e solo dopo si rese conto di averlo detto. Dopo un attimo sollevò la
tazza e prese qualche sorso, forse nel tentativo di annegare l’argomento
insieme al latte e al caffè. Invano.
Monica sollevò le sopracciglia. «Come sono i
tuoi?»
Senza guardarla, lui si strinse nelle spalle
con atteggiamento blando e rimise la bevanda sul tavolino. «Vanno bene,
immagino», rispose, pensando a quando suo padre gli aveva chiesto perché era
diventato gay. «Né nero né bianco. Sono nella norma.»
Diede un’occhiata a Jace, e quello,
intercettando lo sguardo, sfilò le mani dalle tasche e sfarfallò le dita
nell’aria a mo’ di mulinello, corrugando la fronte in un invito a continuare, a
fare conversazione, per l’Angelo, a parlare, su, quanto ci metti, è così
difficile improvvisare?
«Perché Brooklyn?» domandò, voltandosi di
nuovo verso la ragazza. Era giunto alla conclusione che preferiva la sua faccia
a quella del parabatai. «Ci sono molti altri posti più belli di questo.»
«Scherzi, vero?» Monica scosse la testa e il
suo caschetto castano dondolò allegramente. «Questo posto è la fine del mondo!
Ci sono un sacco di cose da fare e da vedere; da dove vengo io non c’è molto.
Non è esattamente Miami Beach.»
«Dovresti venire sotto Natale. Organizzano un mucchio
di eventi.» Era vero? Clary aveva accennato a qualcosa in merito, qualche tempo
prima. Non aveva idea di cosa si organizzasse per le feste, né di cosa i
mondani fossero soliti combinare di norma per l’occasione.
«Troppo caos», si giustificò lei. «A te piace?»
«Cosa?»
«Il Natale.»
Stava riflettendo sulla risposta quando sentì
lo sbuffo di Jace. Spiò a sinistra, dove lo vide scoccargli uno sguardo
spazientito. Gesticolava furiosamente, gli occhi spalancati e decisamente
eloquenti, e bisbigliava qualcosa come “dai, dai!”, come se con quei gesti potesse cancellare del tutto quel
dialogo che quasi per certo riteneva mortalmente noioso o inutile.
Alec tornò a guardare Monica prima che lei
cominciasse a chiedersi cosa mai trovasse di interessante nel tavolo dall’altra
parte del corridoio. «No», rispose. Poi, vinto dall’irrefrenabile voglia di
convincere il parabatai a smetterla con quel tifo insensato e pressante: «Senti,
mi sono seduto qui perché sei quella più carina del bar. Non l’ho chiesto a te
solo per caso o per una qualche sdolcinata e idiota regola del destino. E poi
pensavo che ti andrebbe un caffè. Se poi posso darti il mio numero, ancora
meglio.» Pausa. «Non sono un maniaco, giuro.»
Sentì qualcosa schioccare, da qualche parte a
sinistra, e si rese conto che Jace si era sbattuto le mani in faccia. Quanto a
Monica, era ghiacciata sul posto.
Ogni tanto gli capitava di trovare del
coraggio. Gli capitava soprattutto con Magnus, che una volta gli aveva fatto
notare quanto le sue uscite improvvise cogliessero sempre tutti quanti di
sorpresa. Gli capitava di perdere la pazienza, di smettere di contare le
pecorelle o di fare qualsiasi altra cosa si facesse per mantenere un certo
margine di neutralità, e il risultato erano frasi chiare, nette, da “questo è quello che penso: o ti va bene, o
ti arrangi”. Era un atteggiamento piuttosto brusco ma giustificabile,
almeno dal punto di vista di uno che, come lui, riteneva potenzialmente
imbarazzante qualsiasi cosa. Se da una parte la gente si lamentava della sua
quasi abituale acidità e tendenza alla prudenza, dall’altra tutti quanti
avevano poi da dire quando lui decideva finalmente di, detto chiaro e tondo,
tirare fuori le palle, quasi non apprezzassero il modo in cui decideva di
accontentarli. Un po’ come Jace in quel momento, intento, lo sentiva di
sfuggita, a recitare qualche maledizione nei palmi delle mani. Era arrivato al
sodo, proprio come voleva, e non gli andava bene? E che diavolo.
C’era però il rovescio della medaglia. Quando
esauriva quella voglia di esporre un pensiero diretto, quando girava
improvvisamente le carte con un atteggiamento da fattelo bastare, addosso gli crollava la certezza di aver fatto o
detto qualcosa di sbagliato. Un po’ come quando era praticamente saltato
addosso a Magnus per la prima volta, salvo poi tradurre una sua abbozzata
resistenza come un divieto e alzarsi dal divano tanto in fretta da rischiare di
inciampare. In quel momento, seduto davanti a quella ragazza, la sensazione che
lo colse fu di un gelo che gli bucò lo stomaco.
Monica lo stava ancora fissando. Sembrava
essersi scordata del succo d’arancia o della piccola guida turistica su cui
ancora teneva la mano. Lo guardava, semplicemente, senza fare nulla, senza
rispondere, con le labbra leggermente socchiuse e il respiro inceppatosele in
gola.
Forse era il caso di parlare. Di fare marcia
indietro, di buttare lì qualcosa di meno, come dire, terroristico. Alec pensò
che forse avrebbe fatto meglio a chiedere a Jace se esistesse un modo giusto
per chiedere il numero ad una ragazza.
Stava per parlare, per balbettare una
qualsiasi cosa, quando una giovane donna si accostò al tavolo, sollevò la borsa
di Monica dalla sedia e si sedette con un sospiro.
«Tuo padre mi ha tenuta al telefono fino ad
adesso», sbuffò, passando la tracolla alla ragazza, che la accolse in grembo
con un certo impaccio. Poi guardò Alec, un angolo della bocca arricciato in una
virgola di curiosità, mentre si frugava nella borsetta – una di quelle grandi
come un pacchetto di sigarette, rifletté il Nephilim – per affondare il
telefono in un qualche antro irraggiungibile. Affiorò un sorriso, uno di quelli
deliziati. «Chi è il tuo nuovo amico, Mo?»
Era forse vicina ai trenta, a dir tanto. A
giudicare dall’espressione, dall’abbigliamento frivolo e ricercato e dalla
pelle ancora liscia, poteva avere sì e no ventisette, ventotto anni. Solo in un
secondo momento Alexander scorse qualcosa di innaturale attorno ai suoi occhi
chiari. Doveva trattarsi di una di quelle diavolerie mondane, lifting o
qualcosa di simile. E allora i conti tornavano e l’età della sconosciuta poteva
aggirarsi attorno ai trentacinque.
«Alec», rispose Monica, ma in tono ancora
distratto. Doveva essersi mentalmente fermato a quel “non sono un maniaco”.
Forse era stato il giuro ad aver
gettato un’ombra sinistra sul messaggio. «È di qui. Stavamo... chiacchierando.»
«Alec?» ripeté la donna. Non aveva ancora
messo da parte il sorriso. C’era qualcosa di civettuolo nel modo in cui lo
guardava. «È un nome singolare.»
«Alexander, a dire il vero», rispose il
Nephilim. Non seppe come, ma ci riuscì. Era affiorato a sua volta da quel
terribile momento di gelo che gli aveva preso lo stomaco.
«Io sono Bev. È un piacere.»
«Mamma... Beverly», si corresse la ragazza.
Sembrava quasi a disagio. Le diede uno sguardo e mosse la mano in un cenno
riassuntivo in direzione di Alec. «È la compagna di papà. Te ne ho parlato.»
«Sì, mi ricordo.»
C’era qualcosa di scomodo, ora. Il patto era
sedersi con una signora, non con due, e le cose peggioravano se la seconda
entrava in scena così, senza preavviso, prosciugandogli il palato e
rovesciandogli addosso l’imbarazzante sensazione che ci fossero dei secondi
fini nel modo in cui la nuova arrivata lo guardava e sorrideva. Trucchi medici
o meno, era comunque giovane per convivere con un uomo che probabilmente aveva
il doppio dei suoi anni. E questo diceva un mucchio di cose poco rassicuranti
sul suo conto.
Alec si umettò le labbra, un gesto rapido e
quasi impercettibile, mentre puntellava le mani sul bordo del tavolo e faceva
per scostare un poco la sedia all’indietro. «Io dovrei...»
Beverly tuffò la mano e gliela posò sul polso,
annullando ogni sua intenzione. E la circolazione. Anche quella. «No, resta,
resta ancora un poco», lo invitò, aprendo il sorriso in una grande espressione
da reginetta del ballo. «Vuoi qualcosa? Cielo, hai degli occhi meravigliosi,
sai? Devi ancora finire quella tazza o sbaglio? Posso offrirti un caffè, un
succo, un...»
«Ho delle cose da fare.» Scappare, in breve.
Eppure non mosse la mano, non tentò di togliersi di dosso le sue dita, se non
altro per paura di parere scortese. Vedeva Jace con la coda dell’occhio e aveva
notato che persino a lui la situazione non andava a genio. Forse a stonare era
il fatto che l’idea iniziale era rimorchiare e non essere rimorchiati, certo non dalla simbolica madre della ragazza
di partenza. Perché non ci stava forse spudoratamente provando? «Non posso
permettermi di fare tardi, davvero. È stato un...», e fu allora che gli suonò
il telefono.
Non ci pensò e affondò la mano nella tasca dei
jeans neri, sfilando l’apparecchio con un’agilità impacciata e precipitosa.
Quando vide che si trattava di un messaggio e che il messaggio era di Magnus,
gli giunse in soccorso la fantastica ipotesi che lo stregone avesse voluto
avvisarlo di un suo prossimo arrivo. Qualcosa come “Ho finito quello che avevo
da fare, arrivo!” o come “Dove siete? Adesso posso raggiungervi!”, sarebbe
stato a dir poco salvifico. E invece, quando aprì l’sms, lesse solo un
Da: Magnus
Spero stia
andando tutto alla grande, coccinella :3 Rendimi orgoglioso (il Presidente ha dato una
testata al cellulare; vuole che ti trasmetta il suo supporto)! Ci vediamo più
tardi
«Mamma e papà?» chiese Beverly.
Con un principio di panico, Alec colse il
movimento con cui la donna si allungò un poco in avanti come a sbirciare.
Chiuse l’sms e si rimise il telefono in tasca. «Solo il mio...» “Ragazzo”? «...amico»,
terminò, deviando in extremis.
«Quello che ti aspetta? È da lui che devi
andare così di corsa?»
«Da lui.» Si alzò, seguito dallo sguardo
adorante di Beverly e da quello perplesso di Monica.
«Senti» cominciò Bev, sempre sorridendo, «non
è che sei gay?»
Lo aveva chiesto nel tono più innocente del
mondo, ma forse fu proprio quella spontaneità a valere come una fucilata. Lui
la guardò, improvvisamente immobile, e Monica sgranò gli occhi voltandosi verso
la compagna di suo padre con la bocca spalancata in una O di incredulo
sgomento:
«Beverly!
Che razza...?»
«È solo una domanda, Mo, e non c’è nulla di
sbagliato!», si giustificò l’altra, lasciandosi sfuggire una risatina. «Voi
giovani siete così suscettibili sul
tema.»
Strisciò la parola suscettibili in un modo tanto melodrammatico da costare ad Alec un
brivido di orrore. «No», rispose, scrostandosi mentalmente di dosso il ghiaccio
che gli aveva puntellato la bocca. Un sì avrebbe reso la sfida non valida, e
non gli andava di rovinare tutta la fatica che aveva fatto per arrivare fino
alla fine. Per l’Angelo, no. «No, non lo sono.»
«Scusami, ma sai, di solito i più carini lo
sono sempre.»
«Beverly!»
«Oh, Mo, sei un disco rotto. Cioè, guardalo!
Non è carino?»
La situazione stava decisamente decollando.
Alec sfilò un fazzoletto dal portatovaglioli che c’era in mezzo al tavolo,
trovò una penna nella tasca del cappotto e scarabocchiò qualcosa.
«Quello è il tuo numero?» chiese la donna,
senza curarsi dell’imbarazzo che stava colorando la faccia della figliastra. «Il
tuo?»
«Se
ti va», biascicò il Nephilim, ma rivolto a
Monica. Poi si fermò, sbirciò Jace, che premeva le labbra
nel tentativo di non
ridere, e fece una considerazione interessante. C’era una cosa su
cui in
effetti non aveva giurato. Aggiunse così un’altra riga di
numeri e passò il
tovagliolo alla ragazza, che si limitò a guardarlo con, negli
occhi, una
vergogna quasi fisica. «Il primo è il mio numero»,
le spiegò, preparandosi alla bugia che sarebbe seguita.
«Cioè, anche il
secondo. Ne ho due.»
«Due!» Beverly. In tono estasiato.
«Uso di più il secondo...»
«Il secondo.» Sempre Beverly, stavolta attenta
e concentrata.
«...a dire il vero. Se vuoi, ripeto.»
Aveva una voglia matta di tirarsi via da quel
teatrino. Le cose erano precipitate troppo in fretta. Sperava, data l’emozionata e fraterna partecipazione di Jace – era ancora seduto sul tavolo, ora
vuoto, e cercava in tutti i modi di non scoppiare a ridere -, che Monica gli
avrebbe scritto, ma sul secondo numero che le aveva dato. O anche Beverly. Una
delle due, insomma. Ovviamente non aveva due telefoni.
La ragazza prese il tovagliolo e mosse le
labbra in un silenzioso “scusa”. Era chiaro che l’atteggiamento della compagna
del padre l’aveva seppellita sotto metri e metri di imbarazzo. Lui abbozzò un
sorriso, un modo per dirle di non preoccuparsi, e questa volta lo fece con una
certa sincerità. Monica era simpatica, dopotutto; aveva la faccia di una buona
amica. Allora non tutti i mondani erano insopportabili. Le avrebbe volentieri
detto che sapeva bene cosa si provava ad essere messi in imbarazzo dai
genitori, ma archiviò la frase semplicemente perché aveva più voglia di levarsi
di torno.
«Allora... vado», annunciò, rimettendo la
penna a posto. «Buona vacanza.»
«Grazie», rispose Monica. Sorrideva, complice
il silenzioso scambio di battute di poco prima. «Buon qualsiasi-cosa-tu-debba-fare.»
Beverly alzò la mano in uno sventolio. «Ciao, Alec.» E lo disse con una certa
inflessione, nella voce, un’inflessione da leggi
tra le righe e capirai.
Tempo di girare i tacchi. Di corsa.
* * *
«Il
caffè», disse Jace.
«Cosa?»
«Non le hai offerto il caffè.»
Alec si arrestò di botto in mezzo alla
scorciatoia che stavano percorrendo e si voltò, l’espressione sorpresa e
indignata. Era chissà come riuscito a non arrossire là dentro, ma stava
recuperando alla grande ora che erano fuori, quasi una reazione tardiva. Pallini
rossi gli erano fioriti sulle guance e un’oscena sensazione di calore gli aveva
preso la punta delle orecchie e la fronte. In confronto, il freddo di quella
mattinata newyorkese era rigido come quello della Groenlandia. «Una tizia di
trent’anni e più ha tentato di provarci con me e tu pensi al caffè che non ho offerto?»
Jace, piantato lì di fronte, forzò una certa
serietà. Non ci riuscì e in faccia gli si allungò, sincero ed esaltato, un gran
sorriso. «È stato uno spettacolo, Alec. Uno spettacolo.»
«Non mi interessa. Scusa, ma l’hai vista?
L’hai vista bene? Quella donna era una pervertita!»
«Parli come se fosse colpa mia.»
«Potrei persino credere che l’abbia ingaggiata
tu.»
«Cosa impossibile, lo sai. Sei stato solo
sfortunato. Con le donne, in fondo, non ti è mai andata alla grande.»
Alec si bevve l’ironia. Rimase a guardarlo per
un lungo istante, la bocca semiaperta in un’espressione di sdegno. Poi, chiaro
e netto: «Allora ti stai divertendo. Ammetti che l’idea di questa giornata ti
piace.»
«Diciamo che ha i suoi vantaggi», si
giustificò Jace, in tono vago e allusivo. «Le tue espressioni sono impagabili.»
«Non sai quanto mi piacciono le tue», lo
rimbeccò l’altro, poi si voltò e riprese a camminare a passo svelto.
«Adesso dove andiamo?»
«Istituto.»
«Istituto?» Il parabatai gli stava alle
costole. «Hai bisogno di una pausa? Sei così traumatizzato?»
Nessuna risposta. Forse era un’affermazione.
«Scrivo a Magnus?» insistette Jace, armandosi
di cellulare. O meglio, cercandolo. Si frugò per qualche secondo nel giubbotto
prima di uscirsene con un: «Merda, l’ho scordato.»
«Era ora che te ne accorgessi. A lui scriviamo
dopo», rispose Alec. C’era un piccolo sorriso sulle sue labbra, un principio di
soddisfazione. Se sul tovagliolo aveva messo quel secondo numero di telefono quando
già si era accorto che il parabatai aveva dimenticato il cellulare all’Istituto,
un motivo c’era. «Mi serve per quel che ho in mente.»
«Cosa?»
«Magnus. Per il tuo turno.»
«Non puoi continuare ad avvalerti di lui per
vendicarti su di me. è un alleato
potente.»
«Io non ti ho vietato di ingaggiare Izzy, mi
sembra.»
«Già.»
«Appunto. Già.»
«Hai ragione, Alec. Non ci avevo pensato.»
Silenzio. E Alec, cogliendo il momento: «Ma
non pensarci adesso. Pensa solo a camminare; voglio allontanarmi da quel bar il
più in fretta possibile.»
Jace sollevò le sopracciglia. «Però era carina
anche lei. La mamma, dico.»
«Jace.»
«Certo immaginarla insieme ad uno che potrebbe
avere anche cinquant’anni...»
«Jace.»
«Okay, la smetto.» Una pausa, poi: «Ti
conviene sbollire l’imbarazzo prima di arrivare all’Istituto. Non vorrai che i
tuoi ti facciano un interrogatorio, vero?»
Gente. Oh, gente. Giugno mi è saltato addosso come un Raziel decisamente inca**ato, mi ha piantato le mani sulle guance, mi ha fissato e mi ha detto, sillabando tutto quanto: "Ti succhierò il tempo libero dall'agenda come sangue dalle vene". In effetti, lo ha fatto.
Ho avuto un sacco di cose da fare e a cui pensare. Sono mortificata per avervi fatto aspettare così a lungo per un aggiornamento; sono impegnata, 'kay, ma prima o poi il capitolo successivo arriva sempre. Voglio che lo sappiate, nel caso in cui dovessi impiegare ancora due settimane tonde per pubblicare. Non vi abbandono *Momento Harmony*
Ho accennato ad un momento raccontato, se non sbaglio, nelle Cronache. Mi riferisco a quel "Un po’ come quando era praticamente saltato addosso a Magnus per la prima volta, salvo poi tradurre una sua abbozzata resistenza come un divieto e alzarsi dal divano tanto in fretta da rischiare di inciampare". Momento epico per noi fan della Malec, vero? Quando lessi quel passaggio per la prima volta rimasi estasiata (?) dal coraggio che Alec a volte riesce a tirar fuori. Cioè, se vuole una cosa e non riesce a pensare ad altro, la fa, punto e basta. Una ragione in più per amarlo.
...Sì, Jace, ma tanto sai bene che non ti considero mai se c'è in giro Alexander. Abituati.
Detto (o scritto?) ciò, passo e chiudo - vi ringrazio, as usual, e stavolta ci aggiungo un "grazie" extra per la pazienza. Mi perdonerete qualche possibile errore di battitura in giro, ma ora come ora sono strafatta e non avrei le forze per rileggere tutto con la dovuta calma; insomma, qui piove, l'aria è mogia, triste. Non ispira voglia di vivere (?) Se vorrete picchiarmi o punirmi in qualche doloroso modo per via del ritardo dell'aggiornamento, fatelo pure - mi sono già riempita di rune del Pentimento per evenienza <3
Dew_