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Autore: Biszderdrix    25/06/2015    1 recensioni
Come possiamo sapere se siamo pronti per le sfide del mondo? Come possiamo sapere se saremo all'altezza di ogni nemico? Ma soprattutto... se fossi tu stesso il tuo nemico?
L'intera saga di Dragon Ball e degli eroi che tutti amiamo riscritta dalle origini del suo stesso universo, per intrecciarsi a quella di un giovane guerriero, che porta dentro sé un potere tanto grande quanto terribile, dai suoi esordi fino alle sfide con i più grandi nemici, e la sua continua lotta contro... sé stesso.
Se non vi piace, non fatevi alcun problema a muovere critiche: ogni recensione è gradita, e se avete critiche/consigli mi farebbe piacere leggerli, siate comunque educati nel farlo.
Genere: Avventura, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO TRENTASETTESIMO- DI PADRE IN FIGLIO

La sveglia suonò, implacabile, alle sei esatte.

La spensi più velocemente che potei, in modo da non svegliare un’ancora dormiente Pamela: in fondo era comunque un sabato mattina, dopo cinque giorni di lavoro mi parve decisamente scortese, per usare un eufemismo, svegliarla così. Fortunatamente, ieri sera aveva alzato un po’ il gomito, e dormiva piuttosto profondamente.

Scesi dal letto e mi diedi una sciacquata veloce in bagno, per poi tornare silenziosamente in camera. Andai verso l’armadio, dal quale estrassi degli indumenti non banali, legati a ricordi indissolubili: quella tuta biancorossa era stata una compagna di vita. Sul retro si poteva vedere chiaramente il simbolo del Supremo. Ovviamente, non era la stessa tuta con la quale iniziai il mio addestramento anni fa, ma era comunque un oggetto dal quale non mi sarei mai separato, anche al costo di farmene dare sempre di nuove.

La indossai rapidamente, e dopo aver impacchettato qualche cosa da mettere sotto i denti, aprii la porta di un’altra camera da letto, dove un bimbo dormiva profondamente nel suo letto.

«Sveglia, sveglia!» dissi, scuotendolo un attimo, ricevendo un paio di mugugni come risposta.

«Keiichi! Sveglia!» dissi, questa volta con più forza, costringendolo ad aprire gli occhi.

«P-Papà… cosa c’è?...» disse, nel bel mezzo di uno sbadiglio.

«Alzati e vestiti, dobbiamo andare.» gli dissi con fermezza, ricevendo uno sguardo perplesso e comunque piuttosto assonnato come risposta. «Metti le stesse cose che metteresti per l’ora di ginnastica, capito?»

Mi annuì lentamente, ancora piuttosto assonnato, al che chiusi la porta e andai a prenderci qualcosa per la colazione: afferrate due mele, lo aspettai all’ingresso del nostro appartamento. Arrivò che ancora si stropicciava un po’ gli occhi, e il primo morso che diede alla mela non fu dei più convinti.

«Ma dove dobbiamo andare, papà? La mamma non viene?» mi chiese, con lo stesso tono assonnato.

«Lo scoprirai presto. Andiamo ora!» dissi, prima di uscire. Vidi però che stava per prendere la scala che andava verso il basso.

«Dove credi di andare?» gli dissi, prima di fargli cenno di seguirmi sul tetto. Lui, piuttosto perplesso, mi seguì, mentre terminava la sua mela. Una volta raggiunto il tetto del condominio, mi voltai verso di lui, e dissi: «Se pensavi di viaggiare in macchina, ti sbagliavi: adesso sali sulle mie spalle.»

Mi piegai sulle ginocchia per facilitargli il compito. «Questo credo ti sveglierà.» dissi, prima di lanciarmi a tutta velocità verso l’alto. Sentii la sua presa stringersi improvvisamente sui miei vestiti, mentre lasciava cadere il torsolo della mela. Raggiunto il livello delle nuvole, mi fermai, e potei sentire il suo respiro piuttosto affannoso: doveva essere stato un gran bello spavento.

«Tutto bene?» gli chiesi.

«NON FARLO PIÙ! Non mi piace!» mi disse, piuttosto irritato.

«Tranquillo, è stata la prima e ultima volta. Ora però, dobbiamo andare.»

Presi quindi il volo, più tranquillamente, verso un’altra zona della città: una zona che per anni era stata casa mia. Quando poi iniziai a sorvolare il bosco, la cercai spasmodicamente con lo sguardo finché non la vidi: atterrai in mezzo all’erba, che in quel posto sembrava non crescere veramente mai.

Non appena atterrai, mi fermai un attimo mentre i ricordi mi inondavano la mente. A quel posto erano legati passaggi fondamentali della mia vita, e in quel momento mi parve di riviverli tutti, ancora una volta: il giorno in cui mio padre iniziò ad allenare me e Pamela; il giorno in cui il suo addestramento terminò, e andai a vivere alla Kame House; il giorno in cui mi guadagnai il suo rispetto come guerriero, quando lo superai definitivamente.

Ma anche il giorno in cui mi lasciò.

Il giorno in cui ritrovai i suoi vestiti, quelli di mamma, quelli di Kira, vuoti, abbandonati, segno del passaggio di quel mostro di Cell, la definitiva vendetta di quel bastardo del dr. Gelo.

Il giorno in cui Doomshiku smise di essere solamente un incubo d’infanzia.

«Papà?»

La vocina mi colse di soprassalto, facendomi ritornare nuovamente concentrato sul presente. Mi voltai, per incontrare lo sguardo perplesso di mio figlio, che nel frattempo era sceso dalle mie spalle.

«Va tutto bene, papà?» mi chiese, piegando leggermente la testa di lato.

Io continuai a guardarlo, e in quel momento potei sentire una sensazione di forte calore riempirmi il petto.

«Si… Si, Keiichi, va tutto bene, tranquillo.» gli risposi, e il suo sorriso non fece che aumentare quella meravigliosa sensazione. In quel momento compresi come, in quel momento, un nuovo ricordo si stava aggiungendo alla collezione: quello di un nuovo inizio, di una nuova generazione di Ryder, che nonostante tutto quello che avevano attraversato, c’erano ancora,  e saranno sempre pronti a combattere.

«Wow, che strano posto!» disse Keiichi, quando poté osservare per la prima volta la piccola radura circolare che mi era così familiare.

Ed ecco, che i ricordi tornarono, in quel momento, ad essere ciò che erano sempre stati, e mi concentrai nuovamente sul motivo per il quale, questa mattina, avevo portato qui Keiichi.

«Lo percepisci anche tu? Bene, perché prima di spiegarti perché siamo qui, dobbiamo meditare, visto che non l’abbiamo ancora fatto, ok?» gli dissi, mentre mi mettevo seduto a gambe incrociate sull’erba. Lui non se lo fece ripetere due volte, e si mise seduto a sua volta.

In un attimo, i nostri respiri si sincronizzarono, e iniziò la nostra meditazione: in un attimo fummo raggiunti dalle tracce di energia vitale di tutta la zona. La foresta, come ogni giorno, era una vera e proprio tempesta di percezioni.

Non che non fossi ormai abituato a quelle che erano le percezioni di quella zona, erano tutte familiari a miei sensi, comprese quelle della comunità di dinosauri stanziatasi in queste zone da appena qualche anno, un evento per questi territori: ma meditare in questa radura era sempre speciale, le percezioni arrivavano da ogni dove ed erano tutte chiare e facilmente identificabili.

Era come un punto di convergenza, nel quale tutti i flussi di energia si univano in un unico grande insieme, che permetteva una completa armonia con tutto l’ambiente intorno a noi.

Quando mi accorsi che era già passato qualche minuto, decisi di interrompere la nostra meditazione: Keiichi ne uscì sobbalzando, cosa che mi fece sorridere sul momento, pensando a quello che capitava anche a me quando avevo la sua età.

“Però, a me capitava perché ero in grado di raggiungere una connessione così forte con il flusso da perdere la concezione di me stesso, cosa dovuta alla mia grande energia… mi chiedo perché Keiichi abbia le stesse reazioni” pensai, ricordandomi che comunque quella non era la prima volta che gli succedeva. Ma non diedi troppa corda a quel pensiero: Keiichi era un hatwa normalissimo, forse ancora inesperto nella meditazione.

«Allora figliolo,» gli dissi, con forza «perché credi ti abbia svegliato così presto e portato qua?»

Lui assunse un’espressione pensierosa, mentre avvicinava il pugno chiuso alla bocca, come se volesse farmi credere di sapere la risposta. Infatti, poco dopo, disse: «Non lo so, papà.»

Lo guardai affettuosamente, prima di cominciare il mio breve discorsetto: «Qui, il tuo bisnonno ha allenato tuo nonno, e tuo nonno ha allenato me e tua madre. E qui, oggi, io inizierò ad allenare te.»

I suoi occhi si illuminarono per un istante, finché non saltò con il pugno verso l’alto, gridando: «SI!»

«Ehi ehi, frena l’entusiasmo: voglio che tu sappia che non sarà semplice. Voglio sapere se è quello che vuoi, perché nel caso non c’è nessun problema.»

«Scherzi, papà? Lo voglio assolutamente!» disse, elargendomi l’ennesimo sorrisone «Voglio diventare forte come tutti voi altri!»

«Lo immaginavo.» gli risposi, con maggiore calma.

Mi soprese vedere quanto somigliava a me e a sua madre: le mi ambizioni, il suo temperamento. Forse era il caso, quindi, di dare il via alle danze.

«Bene, allora, inizieremo con alcune kata. Sai cos’è una kata?»

I movimenti laterali del capo mi fecero realizzare che cosa gli era mancato rispetto al sottoscritto: una passione per un mondo precluso, nel quale lui invece era nato e cresciuto.

«Le kata sono i movimenti base del combattimento: da esse, poi, possiamo sviluppare nuovi colpi, mosse, perfino nuovi stili di lotta. Ma senza le fondamenta, ogni casa crolla, giusto?»

A quel punto, gli mostrai quegli stessi movimenti, che un tempo mio padre spiegò a me. Gli spiegai come dovesse essere in armonia con il flusso di energia circostante per poter imparare ad eseguirle al meglio.

Provò una, due, tre volte, e in tutti i casi finì con il sedere per terra. Mi sorprese comunque la sua concentrazione: normalmente era un ragazzo vivace, sorridente e attivo, ma in quel momento sembrava un’altra persona, dalla serietà che ci stava mettendo.

«Ok, basta così, per adesso!» gli dissi, mentre si rimetteva in piedi un’altra volta «Adesso ci dedicheremo al lavoro fisico: seguimi.»

Lo condussi fino all’imbocco di un familiare sentiero, o almeno, lo era per me. «Le istruzioni sono le stesse: seguimi, e stai al passo.»

Allora iniziai a correre lungo il sentiero a tutta velocita: mi voltai giusto un secondo, per vedere che Keiichi aveva recepito la cosa al volo, e mi stava seguendo a razzo. Allora proseguii, senza più voltarmi, lungo quel sentiero che per un anno rappresentò una vera tortura, sia per me che per sua madre.

Nonostante fossero passati anni, ricordavo perfettamente ogni ostacolo, dalla più nascosta radice alla buca più larga e profonda. Dopo qualche minuto potei sentire che l’aria si faceva più rarefatta, e il paesaggio più spoglio: non mancava molto, per niente.

Quando poi arrivai allo spiazzo in mezzo ai monti, sentii immediatamente dei passi più piccoli e rapidi immediatamente dietro di me: su questo fu decisamente più bravo dei suoi genitori, ma ne uscì decisamente più stanco.

«Riposati pure qualche minuto, ti servirà.» gli dissi.

«Papà, io posso fare tutto, ma questo è necessario perché diventi forte come voi?»

Mi voltai, guardandolo negli occhi. «Questo, e molto di più, figlio di mio, se vuoi anche solo sfiorare i livelli di Goten e Trunks.»

«Allora lo farò! Farò tutto quello che mi dirai di fare!» disse, rialzandosi improvvisamente in piedi.

Sorrisi affettuosamente tra me e me, e mi sedetti sul bordo dello strapiombo. «Vieni qua un attimo.» gli dissi, dando dei colpetti al terreno al mio fianco.

Keiichi si sedette al mio fianco, e rimanemmo in silenzio per qualche istante. Presi un profondo respiro, poi gli chiesi: «Bello il panorama, eh?»

Lui annuì, sorridendo come sempre. Allora proseguii: «Questo è quello che tuo nonno fece vedere a me e a tua madre il nostro primo giorno di addestramento: quello che lui voleva dirci, era che ogni cosa ha a che fare con qualcosa di più grande: la stessa montagna, sulla quale noi siamo seduti, si sente minuscola quando guarda al cielo.»

Lui mi ascoltava, incantato, mentre gli parlavo: «Tuo nonno ci spronava a non arrenderci mai, a capire che nessun ostacolo è impossibile da superare: infatti mi piace vederti così determinato, figlio mio. Ma c’è una cosa che voglio tu comprenda.»

A quel punto mi guardò, sospettoso, e mi venne un peso al cuore per quello che stavo per dirgli: l’ultima cosa che volevo era quella di dargli un dispiacere.

«Vedi, il nonno ci spiegava che era importante prendere coscienza dei propri limiti, quando si trattava di doverli superare: però, ai tempi, nessuno era a conoscenza dei saiyan, Keiichi. E quindi, non voglio che tu parta con il presupposto di diventare quello che non sei: noi siamo hatwa, non siamo una razza guerriera. Possiamo diventare degli abili combattenti, ma non ai loro livelli.»

Lui rimase per un attimo basito, prima di pormi una pesantissima domanda: «E allora tu, papà? Come hai fatto?»

A quel punto, fui io a rimanere di sasso: a Keiichi era stato spiegato di appartenere ad una razza aliena, ma non cosa fosse sopito dentro il suo vecchio. E non ero preparato a rispondere, non credo lo sarò mai, in realtà.

Fui costretto ad improvvisare, cercando di non mortificare anche le sue ultime briciole di entusiasmo: «Vedi, Keiichi, anch’io mi sono applicato molto, in tutta la mia vita. Ma in più, ho… qualcosa, dentro di me, che mi permette di essere quasi più forte di tutti i saiyan. Ma è una cosa che è capitata solo a papà, e che non ti auguro assolutamente.»

Fu allora che la delusione fu evidente sul suo viso, e mi si spezzò il cuore a vederlo così già il primo giorno: rimediare era d’obbligo.

«Con questo, non voglio dirti che non diventerai forte: imparerai anche tu ad utilizzare il tuo ki e a combattere come gli altri. Tu hai poi un grande temperamento, che ti renderà un avversario ostico per chiunque. Prima di tutto, devi diventare un guerriero: e un guerriero non si giudica solo dalla sua forza e potenza, ma anche dal suo cuore, dal suo carattere, dal suo temperamento: ed è per questo che io non voglio tu perda il tuo entusiasmo. Voglio che tu impari a non arrenderti mai, di fronte a qualunque situazione e ostacolo, e a migliorarti sempre e comunque, perché l’allenamento di un guerriero non finisce mai, e non avviene solo tramite l’allenamento del fisico. Ti è chiara questa cosa?»

Ci guardammo negli occhi per pochi istanti, ma a me parvero una vera eternità: la sua espressione era ora impercettibile, finché non si allargò nuovamente in un sorriso affettuoso.

«Tutto chiaro, papà.»

A quel punto, gli cinsi le spalle col mio braccio e lo strinsi a me, entrambi i nostri sguardi che ora ammiravano il panorama di fronte a noi.

Dopo qualche istante di silenzio, volsi lo sguardo verso il grande lago Shoen, e mi sorse un dubbio, che gli girai: «Ti ho mai portato al lago Shoen, Keiichi?»

«No papà!»

«Uhm, allora quando sarai più preparato andremo a fare una sessione laggiù, ti andrebbe?»

«Eccome!» mi rispose, con lo stesso entusiasmo che era ora tornato forte come prima, nonostante la chiacchierata di qualche istante fa. Rimanemmo ancora per qualche minuto in contemplazione del panorama, finché non mi resi conto che stavamo perdendo fin troppo tempo.

«È il caso di rimettersi al lavoro, forza!» lo spronai, e lui si mise immediatamente in piedi di fronte a me.

Guardai dietro di lui, e vidi una parete di roccia a cui erano legati altri bellissimi, ma faticosi, ricordi. «Girati.» gli dissi, e mentre guardava il fianco della montagna, gli impartii le istruzioni «Vedi questa parete? Ecco, poco più in alto c’è uno spiazzo come questo, solo un po’ più piccolo: voglio che tu faccia avanti e indietro tra questo e quello spiazzo.»

Si voltò a guardarmi e, contro ogni mia aspettativa, aveva sul volto un’espressione di pura determinazione. «Intendi rimaner fermo lì ancora per molto? Forza!» gli gridai, spronandolo, così che potei vederlo correre verso la parete a gran velocità.

E mentre lo guardavo cercare con rapidità l’appiglio successivo, sentii dentro me un calore nuovo: un calore che da quel momento avrei definito come orgoglio.

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Quando decisi che la giornata era finita, mi caricai un esausto Keiichi sulle spalle, e mi misi lentamente in volo. Volai alto, cercando di non farmi notare: era comunque il tardo pomeriggio di un sabato, in giro c’erano parecchie persone.

Lo sentii poggiare la testa sulla mia nuca, era palesemente molto stanco: oggi, mi aveva mostrato di avere anche lui una vera predisposizione al combattimento. Aveva eseguito ogni esercizio che gli avevo chiesto, senza fiatare, mettendo in mostra delle già ottime doti fisiche. Non aveva fatto che rendermi ancora più orgoglioso.

«Papà, aspetta!»

Mi fermai improvvisamente a mezz’aria, non appena sentii la sua voce squillarmi nell’orecchio. «Che c’è?» gli chiesi, cercando di voltarmi verso di lui, per quanto mi fosse possibile.

«Puoi atterrare quaggiù cinque minuti, per favore?» mi chiese, così che mi ritrovai a guardare verso il basso: quello che vidi mi lasciò decisamente di stucco.

«Vuoi davvero che ci fermiamo qua?»

«Si, cinque minuti!»

Non obbiettai ulteriormente, e atterrai lentamente, cercando di non farmi notare, sul prato che Keiichi mi aveva indicato: il prato del cimitero. Scese di corsa dalle mie spalle e con passo deciso iniziò a serpeggiare tra le lapidi. Io lo seguii più lentamente, consapevole di dove fosse diretto.

Quando raggiunsi il punto, e lo vidi seduto a gambe incrociate, come in contemplazione, capii che la mia deduzione era stata corretta: era andato a cercare le tombe della famiglia.

Mi sedetti al suo fianco, posandogli una mano sulla spalla, e misi anch’io a leggere, per l’ennesima volta, i nomi incisi sulla lapide.

«Era forte il nonno, papà?»

La domanda mi lasciò spiazzato: non mi aveva mai, fino a quel momento, fatto domande sui miei genitori, i suoi nonni. Nemmeno domande su sua zia.

«Beh… Il nonno…»

Ripensai improvvisamente a tutti i momenti passati con loro, la mia famiglia, ma soprattutto con mio padre: ripensai ai suoi insegnamenti, che ora stavo passando a mio figlio; ripensai ai suoi sorrisi, al suo rispetto; ripensai al giorno in cui lo superai definitivamente in potenza, quando non avevo nemmeno tredici anni. Eppure, lui per me sarà sempre un gradino più in alto.

Mi voltai verso Keiichi, che mi guardava, in attesa di una risposta. A quel punto, gli sorrisi affettuosamente, prima di accontentarlo: «Il nonno era, e resterà sempre, uno dei più forti che io abbia mai incontrato.»

A quel punto, sul viso di mio figlio ricomparve un sorriso carico di ammirazione, il suo sguardo che si alternava tra la lapide e il mio viso. Lo strinsi ancora di più a me, e rimanemmo in contemplazione della lapide, la luce del sole del tramonto che si rifletteva sulla lucida pietra.

Finché non mi resi conto che era il tramonto: «Oh cacchio! È tardissimo! Tua madre ci scuoia vivi!»

Ci rialzammo immediatamente, e misi subito in posizione per prendere il volo: ma Keiichi non mi saltò immediatamente in spalla. Mi voltai, e lo vidi in piedi di fronte alla lapide. Posò quindi la mano sull’incisione che recitava: “Damon Ryder (3/8/721- 15/5/767), brillante scienziato e padre devoto, una luce che ci illuminerà sempre”.

«Grazie, nonno.» disse, piano.

Sentii una lacrima scendermi lungo il viso: non ero riuscito a reggere ulteriormente. In quel momento mi sentii ancora più pieno di orgoglio. «Dai, Keiichi, andiamo: tua madre sarà già molto preoccupata.»

Lo potei immediatamente sentire arrampicarsi sulla mia schiena, e a quel punto presi il volo: casa non era molto distante, ma avevo semplicemente una voglia matta di volare, di sentirmi fisicamente al settimo cielo, perché in quel momento era lì che si trovava la mia anima.

Quando poi vidi finalmente il tetto della nostra abitazione, iniziai la discesa, il pensiero già rivolto alla cena che ci aspettava in tavola: mi resi conto solo in quel momento di avere una gran fame.

Finché non sentii Keiichi sporgersi leggermente verso di me: «Papà, e zia Kira com’era?»

Capii immediatamente che le prossime sarebbero state delle lunghissime giornate.


NOTE DELL’AUTORE
I’m finally back, my friends! La lunga assenza è stata purtroppo causata da una grande vicinanza tra i miei impegni, e a certe cose bisogna comunque dare la priorità. Ora ho comunque trovato qualche giorno per poter aggiornare e magari proseguire il mio lavoro sulla storia (anche se sarà comunque un’estate travagliata!)

Come avevo annunciato, ci saranno un bel po’ di capitoli filler, che mi servono da tramite tra le saghe. Questo capitolo, per quanto breve, resta uno dei miei preferiti tra tutti quelli che ho scritto: ho voluto creare un tramite tra le generazioni che spero vi sia piaciuto come è piaciuto a me scriverlo.

Dragon Ball è proprietà di Akira Toriyama.

Buone vacanze a tutti, alla prossima!
   
 
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