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Autore: Nurelnico    30/06/2015    2 recensioni
Newton Creek, una piccola città del South Dakota, dove forse le persone sanno più di quello che vogliono dire. Mentre Ryan e Victoria cercheranno di trovare le risposte ai loro dubbi, tra bugie, rapimenti, incomprensioni e paura, la storia ruoterà intorno ad un circo abbandonato nella zona di Hampton, nella periferia della città, che forse non è poi così abbandonato come si credeva da tempo, ma è il luogo ideale per nascondere qualcosa di importante ed evitare che qualche ficcanaso vada a curiosare.
Però la curiosità è una brutta bestia, soprattutto se alimentata dalla speranza.
Dal capitolo 2 "«anzi, non è bene neanche che vi siate incrociati. Devo gestire meglio gli orari» disse sedendosi sulla poltrona come tante altre volte."
è il mio primo esperimento, quindi vorrei avere dei commenti da voi lettori su come migliorare. Spero che vi piaccia e che con il passare dei capitoli vi appassioni.
Dal capitolo 3 "Salì e partì facendo stridere gli pneumatici sull’asfalto.
-Devo assolutamente tornare a casa.-"
Genere: Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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La sveglia strillava il suo richiamo. Era già la terza volta che ripeteva quel suono fastidioso.
Un braccio si allungò fuori dal letto cercando tentoni la fonte dell’allarme e, dopo averla trovata, la scaraventò a terra.
«Ho capito, ho capito.» Disse una voce assonnata. «Mi sto alzando!» Lentamente si liberò dal “bozzolo” creato con le coperte e si avviò verso il bagno strofinandosi gli occhi.
Chiuse la porta alle spalle e si guardò allo specchio.
«Perfetto…» commentò osservando la massa disordinata che la sera prima aveva chiamato capelli.
Victoria Skyfell, diciottenne brillante e arguta, era alle prese con il più classico dei suoi problemi: svegliarsi.
Si passò le mani tra le varie ciocche mentre sbadigliava, poi prese la spazzola e iniziò il rituale che sapeva perfettamente che le sarebbe costato l’ennesimo ritardo a scuola.
Dopo più di mezz’ora aprì nuovamente la porta e scese a fare colazione, portandosi dietro i vestiti da indossare. Sul tavolo c’erano già pronte la tazza con il latte e la scatola dei biscotti. Si sedette con calma e iniziò a mangiare mentre controllava il cellulare, assaporando la dolcezza dei biscotti fatti in casa dalla mamma il pomeriggio precedente.
Mangiò solamente tre biscotti prima di chiudere la scatola e di svuotare la tazza nel lavello.
Finì di vestirsi in cucina, prese le chiavi della macchina e il sacchetto con il pranzo. Uscì sul vialetto e salì in macchina e provò a mettere in moto il vecchio rottame Ford che i suoi genitori le avevano comprato spacciandolo per una “macchina”, ma com’era prevedibile, il mezzo singhiozzò un paio di volte, rimanendo fermo.
«Dai, brutto scemo! Muoviti!» urlò sbattendo una mano sul volante, girando nuovamente la chiave.
Questa volta l’auto sembrò collaborare e si accese scoppiettando, accompagnata da un sospiro di sollievo della ragazza, che finalmente riuscì a partire.
Impiegò poco meno di quindici minuti ad arrivare nel parcheggio della scuola e si sorprese nel notare di essere in ritardo di soli dieci minuti. Parcheggiò, scese e raggiunse con calma l’armadietto nel corridoio principale.
«9…7…1…9…» ripeté i numeri utilizzati per la combinazione del lucchetto. Afferrò veloce il quaderno di storia moderna e richiuse lo sportello, avviandosi lungo il corridoio piastrellato color panna che tanto odiava e che avrebbe dovuto sopportare ancora per poco.
Il corridoio era deserto, ma si sentivano ugualmente le voci dei vari professori che spiegavano a ragazzi palesemente ancora addormentati che annuivano in maniera poco convinta.
Si fermò davanti alla porta dell’aula del signor Fintch, il suo professore di storia moderna. Un uomo di una certa età, con dei folti baffi bianchi, considerati illegali in ventotto stati e cinque paesi europei, che spesso amava perdersi nei suoi ricordi della guerra del Vietnam e di com’era un’epoca differente.
Fece un respiro profondo ed entrò, andando con decisione verso il suo posto, nella speranza di passare inosservata.
«Oggi è nettamente in anticipo, signorina Skyfell.» Disse in tono sarcastico. «Sarei quasi tentato di chiudere un occhio, ma se lo avessi fatto nel ’65, ora mi ritroverei con un buco supplementare in testa grazie a quei maledetti vietcong!» sbatté un pugno sulla cattedra, come a voler rafforzare la sua affermazione, mentre fissava la ragazza con i suoi occhi azzurri come il ghiaccio.
«E adesso, se è così gentile da fare una passeggiata fino alla presidenza…» con un ampio gesto del braccio le indicò la porta.
La ragazza dai capelli castani si alzò molto lentamente dalla sedia, sperando che l’insegnante cambiasse idea, ma il suo sguardo duro non ammetteva repliche, così come il gesto di indicare la porta che aveva da poco varcato.
Alla fine era di nuovo in quell’orribile corridoio e sarebbe di nuovo dovuta andare a fare visita al preside McGrant.
Si avviò verso l’ufficio del preside, percorrendo un altro corridoio altrettanto anonimo in cui gli armadietti facevano da scudo per il muro.
La porta della presidenza era del tutto identica a quella delle altre aule, una semplice porta in compensato rivestita con un pannello che cercava di imitare un legno scuro e sul vetro opaco c’era stampata la scritta “preside McGrant”.
Bussò e attese di essere invitata a entrare.
Il preside era un uomo sulla cinquantina, con un fisico asciutto tipico di chi aveva passato una vita come atleta e solo da poco aveva appeso gli scarpini al chiodo. I capelli scuri contribuivano a dargli un’aria più giovanile, così come la perfetta rasatura, sinonimo di meticolosità e ordine mentale, così come il vestito grigio chiaro che indossava in quel momento.
«Signorina Skyfell,» esordì con calma, «anche oggi è mia ospite? Prego si sieda» disse indicandole la sedia di fronte alla sua scrivania.
«Che cosa è successo oggi? In ritardo come al solito?» chiese con tono pacato.
La ragazza abbassò lo sguardo evitando quello del suo interlocutore.
«Si, anche se questa volta è stato solo di dieci minuti!» rispose la ragazza cercando di far comprendere all’uomo il suo punto di vista.
«Il signor Fintch mi ha detto di uscire, nonostante mi sia impegnata molto per evitare di fare tardi!» aggiunse cercando di discolparsi, mentre guardava il preside negli occhi come a voler rafforzare la sia affermazione.
«Immagino.» Disse l’uomo dai capelli scuri. «So bene che sono cose che succedono. Ai miei tempi, che lei ci creda o no, ero un ragazzo molto fico!» mimò il gesto delle virgolette insieme all’ultima parola prima di farsi una grossa risata.
Alla fine il preside era una persona buona, sapeva farsi rispettare e capiva quando era il momento di essere intransigenti, ma riusciva sempre a dosare il giusto quantitativo di autorità.
«Purtroppo, però, i suoi ritardi sono stati già troppi, signorina Skyfell.» Esordì guardandola negli occhi e tornando a essere il preside serio e intransigente.
«Non posso più chiudere un occhio su questo problema, quindi vorrei che si trattenesse alcuni pomeriggi per recuperare le ore che ha perso. Cominciando da oggi.»
Victoria rimase immobile sulla sedia, ascoltando le motivazioni legate alla scelta della punizione.
-Adesso come lo dirò a mamma?- Pensò, iniziando già a immaginare tutti i rimproveri che facevano da gran finale a ogni brutta notizia riguardo alla scuola.
«Va bene.» Si limitò a rispondere, alzandosi dalla sedia e uscendo dall’ufficio per tornare in aula.
Il resto della giornata scolastica proseguì senza troppe emozioni.
La lezione di storia era andata praticamente tutta persa, ma riuscì a seguire normalmente quella di letteratura e quella di scienze. Almeno quelle non le avrebbe dovuto recuperare, perché non erano proprio le sue preferite.
Arrivò anche l’ora di pranzo. Il classico momento in cui si notava alla perfezione quanto poco fosse interessante per tutti gli altri studenti, specialmente dopo che la storia di sua sorella Diana era diventata di dominio pubblico.
Nessuno si sedeva più con lei, non la invitavano alle feste, non aveva amici, nessuno la salutava per i corridoi.
Prima la evitavano, temendo forse che il rapimento fosse una malattia contagiosa, pensò, poi col passare del tempo e con l’archiviazione del caso, era lentamente diventata invisibile.
Non aveva mai avuto grandi amici a causa di un carattere molto introverso che spesso era frainteso come “senso di superiorità” e anche quei pochi l’avevano lasciata sola nel momento più critico.
Però col passare dei mesi era diventata una situazione sopportabile in cui entrambe le parti sembrava avessero stretto un accordo di reciproca indifferenza: come se uno non esistesse per l’altro.
Finì di mangiare il panino che le aveva preparato la mamma e lasciò il cortile per andare nello studio del professor Fintch per scontare almeno parte della sua punizione.
Tanto vale andare a poggiare prima la borsa, pensò avviandosi ancora verso il suo armadietto con un sospiro sconsolato. Era solita finire in questo genere di situazioni, ma questa volta si era “impegnata” per non fare casini eppure aveva sbagliato ancora.
Aprì lo sportello e vide una busta bianca, tipo quelle da lettere, cadere ai suoi piedi.
La raccolse da terra e iniziò a esaminarla: una semplicissima busta bianca, nessun mittente, niente destinatario o francobollo.
Chi potrebbe averla messa qui dentro, si chiese mentre la apriva. In quel momento notò come le mani le tremavano e come il cuore le battesse, ma si diede subito della stupida per via di quest’ansia immotivata.
La busta conteneva una fotografia e un messaggio.
Tirò subito fuori la foto che ritraeva il profilo marcato di un ragazzo giovane, aveva i capelli scuri portati molto corti e si notava una barba nelle prime fasi della ricrescita che gli contornava il viso. Gli occhi erano castani e sembravano puntare qualcosa molto lontano.
Dopo aver esaminato attentamente la foto cercando di capire se conoscesse il ragazzo, prese il foglio e lo aprì per vedere cosa ci fosse scritto.
Sgranò gli occhi leggendo le poche parole stampate in mezzo al foglio.
 
Trova il ragazzo e troverai la tua sorellina.
Seguilo e ti porterà da lei.
 
Si guardò immediatamente intorno, ma il corridoio era deserto. Nessun rumore, tranne le voci ovattate provenienti dal cortile.
Guardò nuovamente il biglietto e la foto, mentre il cuore accelerava come se volesse balzarle fuori dal petto e le mani faticavano a tenere la presa.
Allora c’è qualcuno che sa’, pensò ancora incredula.
Chiuse lo sportello dell’armadietto e iniziò a correre fino ad arrivare alla macchina.
Salì e partì facendo stridere gli pneumatici sull’asfalto.
-Devo assolutamente tornare a casa.- questo era l’unico pensiero che riusciva a formulare insieme all’immagine di sua sorella.
  
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