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Autore: Sottopelle    02/07/2015    0 recensioni
"Falene sugl'occhi" rappresenta la solitudine di una persona la cui vita viene man mano consumata dai vizi ed i peccati che ormai fanno parte della nostra routine quotidiana; è un viaggio che analizzerà il mondo odierno attraverso gli occhi di chi è nato e cresciuto nel degrado della città dei nostri giorni, fatta di apparenze piacevoli ma che nascondono verità ben più drammatiche, al limite del tragico. Un pellegrinaggio interiore che probabilmente, e lo dico con sincerità, non ha un capolinea preciso, ma non è forse l'ignoto a rendere l'esplorazione più emozionante?
Genere: Introspettivo, Satirico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Il tragitto fino a casa non sembra mai così fottutamente lungo quando si ha fretta di chiudersi in casa. È tutto ciò che riesco a pensare mente, stivali affondati nella neve, cerco di allontanarmi il più possibile da ogni qualsiasi locale che inizi per “d”, dal sentore di alcol misto a sudore, dai poliziotti che mi chiedono informazioni su Anna (passato d’alcolista, tossicodipendente, malattie), da Johan e i suoi occhi strabici. Non sono nemmeno certa che questa sia la strada giusta, ma nel vedere i marciapiedi vuoti, le auto parcheggiate e la neve che inizia ad attaccare al suolo, la situazione sembra già farsi più sopportabile. Mi appoggio ad un lampione, col cuore che sembra sul punto di scoppiare, le gambe che tremano. Mi ci abbandono spalla contro metallo, quasi fosse l’unico riparo a me concesso, con le scene appena vissute impresse nella mente in maniera pressoché indelebile. Con le mani tremanti cerco l’accendino nella tasca, ho bisogno di quiete, mi dico, senza nemmeno accorgermi che, man mano, mi sono accasciata a terra, nella neve. Non sento niente, ed allo stesso tempo tutto mi sta soffocando: il cielo nero, l’aria fredda, la neve, il ricordo di Johan, di Anna e dei suoi capelli finti, dei paramedici che scuotono la testa e stendono quel telo bianco sula corpo di Anna, la sensazione claustrofobica della gente addosso, il respiro mozzato, l’ansia dell’essere in mezzo a sconosciuti, l’ansia di sapere di star per avere un attacco d’ansia e di conseguenza l’ansia di mettere a tacere in fretta  i meccanismi più oscuri del mio cervello che mi fanno salire l’ansia. E la lista è ancora lunga. Con gli occhi offuscati guardo il bagliore rossastro della cenere accesa, tremolante perché le mie mani stesse lo sono. Respiro ed inspiro. Sento che mi sta venendo l’emicrania. Respiro ed inspiro. Ho gli occhi lucidi, ma piangere è l’unica cosa che voglio fare. Respiro ed inspiro. Cerco di concentrare la mia attenzione su quelle poche macchine che passano per strada. Madri, padri che tornano nelle loro case, dai loro figli. Si sentiranno dire: “Mi sei mancato!” dal proprio coniuge, con allegato un bacio sulle labbra, che ormai ha perso ogni significato ma è solo abitudine. L’amore è transitorio. Per i primi anni ti sconvolge ogni giorno, ti fa sentire felice, soddisfatto, riempe ogni vuoto che ti sei portano nell’animo fino a quel momento. E senti di poter vivere così per sempre. Ci credi veramente. Ma l’amore è fuoco, e come ogni incendio, dopo essere divampato ovunque, dopo aver bruciato ogni qualsiasi superficie infiammabile, dopo aver ridotto in cenere tutto, si estingue. Rimani cenere, consumato e poi dimenticato, ma l’ammettere che ciò sia successo veramente equivarrebbe al rinnegare tutti i sentimenti felici provati in passato, e nessuno sa rinunciare alla propria felicità. L’essere umano vive per credere nelle proprie illusioni: le crea, le venera, e cerca di distruggere le illusioni degli altri. Questo è il vero ciclo della vita. Si cerca così di trovare pretesti per fingere di amare ancora, nonostante la consapevolezza di non provare più nulla si faccia ancora più grande, ti ripeti che sai amare, che stai amando, e ti sembra di tornare in quei momenti in cui eri veramente in grado di farlo. Credi che nulla sia cambiato da allora, ti imponi che sia veramente così. Dici di farlo per te, perché senz’amore non saresti nulla, di farlo per la tua presunta anima gemella, perché la potresti ferire, dici di farlo per i tuoi figli, perché altrimenti soffrirebbero, perché devono imparare fin da subito che la vita non può essere felice, ma le illusioni possono renderla tale. È triste, il destino degli uomini.
Una signora, la cui testa sbuca da un immenso cappotto di pelliccia che sembra quasi ingoiarla, mi guarda con sguardo compassionevole.
Tutto bene, cara?, dice.
I suoi occhi parlano di una compassione finta, irreale. Quando tornerà a casa, appenderà il cappotto all’attaccapanni, andrà da suo marito seduto sulla poltrona del salotto e parlerà della ragazza seduta sotto il lampione a piangere. Povera creatura!, dirà al marito. E lui annuirà senza nemmeno ascoltare pienamente alle parole di lei. Lei parlerà delle lacrime ormai secche sulle mie guance, e si sentirà più felice perché ha visto qualcuno che è messo peggio di lei. Si sentirà fortunata, e dunque più felice, mettendo così a tacere la tristezza universale che affligge costantemente ogni persona di questo mondo.
Sto bene, dico.
Cerco di sorridere quando tutto, di me, sembra dire il contrario. Dalla mia voce tremante ai miei occhi rossi di pianto, dall’odore di fumo che ha impregnato ogni cosa che mi appartenga ai capelli scompigliati, come se non avessi casa in cui tornare.
Mi rivolge ancora uno sguardo carico di pietà e, senza dire nulla, si allontana. Di passaggio anche lei, su questa terra.
Non so quanto tempo ho passato a terra, a mente vuota, ma so che, quando finalmente decido di alzarmi, s’intravedono all’orizzonte le sfumature di un sole non ancora sorto. Nonostante il mal di testa che, ferocemente, divora ogni parte del mio cervello, mi sembra che la situazione sia già migliorata: niente tremori, respiro quanto meno stabile, il solito ritmo cardiaco accelerato. Tornare a casa, ora, sembra una cosa molto più facile.
Il vento accoglie i miei movimenti lenti con fitte improvvise di gelo, rendendo insensibili le mie mani, ormai viola per i geloni, e la mia faccia insonne. Il ritmo dei miei passi stanchi scandisce il tempo, interrotto dalle auto che passano e il suono dei clacson, i colpi di tosse della gente che incrocia la mia strada, gli squilli di cellulare, le loro voci che dicono cose che per me non hanno senso; persiste, come un germe, quella sensazione di essere circondata da troppe, troppe persone, nonostante non vi sia poi tanta gente in giro a quest’ora. Ed è proprio per questo che, nel vedere quelle mura biancastre ormai a me familiari e che si identificano ormai come “casa”, mi spunta quasi un sorriso di sollievo, e la morsa al petto s’allenta.
Chiudendomi la porta alle spalle, mi accorgo di come questi muri bianchi con tanto di intonaco cadente non mi sono mai parse così rassicuranti. Questo è un posto mio, e nessun altro può accedervi, più o meno. Mi sfugge un sospiro liberatorio, e sento di dover festeggiare il mio arrivo a casa quasi incolume, accendendomi una sigaretta.
Il computer è acceso, con aperto il video di Ewa Chodakowska che mi insegna in polacco come fare gli addominali. E io il polacco nemmeno lo capisco. La tazza di caffè è lì affianco, coi residui di caffè di qualche settimana prima sul fondo. Sono di passaggio anche in questa casa, mi dico. E tuttavia, nonostante io non abbia intenzione di permanere qui più a lungo di quanto non debba fare, ho comunque voluto rendere “mio” questo posto, ad esempio appendendovi i quadri (imitazioni malriuscite di Van Gogh, per lo più) che più mi piacevano, scegliendo i vasi che più mi piacevano, i fiori, le piante, i mobili che più mi piacevano. E che, a guardarli ora, non mi fanno più né caldo, né freddo.
Sul tavolino del salotto c’è una scatola di Xanax e la mia mano sembra impaziente di prenderla, di illudermi di stare bene almeno per un po’. Soffocare temporaneamente i miei pensieri nei fumi di farmaci. A questi pensieri mi viene da ridere, perché io stessa ho bisogno di illudermi quando ho sempre cercato di vedere la verità in ogni cosa. Ed è così che prendo consapevolezza, ancora più di prima, di quanto sia veramente triste il destino degli uomini.








Ho poche cose da dire, su questo capitolo: penso parli da sé, dunque ve lo lascio smaltire autonomamente, che possiate esser d'accordo o meno con quanto scritto. Rinnovo ancora una volta l'invito a recensire, forse invano, ma ci provo comunque. Non mi resta che augurarvi una buona serata, ragazzuoli!
  
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