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Autore: breeb    11/07/2015    2 recensioni
[I Dalton]
[I Dalton]Cosa accadde dopo la Grande Evasione del 1887? Che ne fu dei quattro fratelli Dalton, che intrapresero una estenuante fuga attraverso il deserto diretti verso una nuova vita? Qual genere di avventure e disavventure, quali esperienze umane costellarono le vite dei più temuti banditi del West? Che fu del loro bottino? A partire da Joe, i Dalton si raccontano brevemente rivelando segreti scottanti ed inaspettati.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Placidamente, calava la sera.
Lo scricchiolio della ghiaia sotto le scarpe produceva un certo senso di compiacimento, in Jack Dalton. Quel pomeriggio, poi, faceva da colonna sonora al fitto intreccio di pensieri e rimembranze che saturavano la sua stanca - e solitamente poco fervida - mente. Mascherato d’un volto visibilmente pensoso, non si sforzò nemmeno di celare quella sensazione di malinconia che l’affliggeva da qualche giorno a quella parte. In religioso silenzio, muoveva ogni passo con meticolosa applicazione, pur rimanendo assolutamente concentrato su quel febbrile ed intensissimo fluttuare di pensieri.
Era fuggito di casa per qualche ora, soffocato dagli affari e troppo stanco persino per riposare. Aveva portato con sé solamente il bastone da passeggio e uno spasmodico desiderio di rimanersene scompagnato. La sorte aveva voluto che quella sera non vi fosse quasi nessuno a Yosemite Park.
Jack, dopo aver percorso qualche metro, si accorse che l’oggetto di tanto subbuglio a livello mentale era senz’altro una marcata nostalgia per il passato. Gl’era balzato in capo, giustappunto, l’episodio culminante della propria gioventù, che non poté non ricordare con gran concitazione: la Grande Evasione. Jack avvertiva dopo tanti anni la stessa emozione nel ricordarne i dettagli. Correva l’anno 1887 ed egli era poco più che un giovanottino reduce da una relativamente breve ma considerevolmente ricca carriera di rapinatore. La banda criminale allestita assieme ai fratelli era una delle più temute del West. Quasi gli scese una lacrima. Tossicchiò chinandosi la bombetta sulla fronte. Dopo il primo arresto, ad ogni modo, l’evasione parve per lungo tempo una vagheggiante illusione: Joe, il più vecchio della nidiata Dalton, imbastì, con piglio autoritario degno della propria madre, un’infinita successione di tentativi di fuga, di piani minuziosissimi che tuttavia conobbero l’uno dopo l’altro una spietata concatenazione di fallimenti. Proprio quando Joe pareva essersi arreso, l’occasione di evadere si presentò ai Dalton su un piatto d’argento. Jack ricordava ancora alla perfezione ogni frangente di quella notte gloriosa che spianò loro la strada verso la libertà: la concitazione di quegli istanti non l’aveva mai più dimenticata e talora si ripresentava nella modernità sconquassando il suo corpo appesantito dal tempo.  Non aveva scordato nemmeno lo sguardo di Joe, che s’era illuminato donandogli inaspettato vigore, nonostante il volto mal rasato per la frustrazione, gli occhi scuri impietosamente solcati dalle occhiaie e le mani corrose dai lavori forzati. L’unico che all’epoca non parve dimostrare sincera eccitazione fu Averell, che anzi diede l’impressione d’essere piuttosto abbattuto; ma Jack riconobbe che in ciò non vi fosse nulla di particolarmente strano, poiché il fratello minore non era certo noto per l’essere sveglio. Dopo la fuga nella notte, Jack rammentava il tortuoso e devastante cammino attraverso il deserto che per lunghissimo tempo aveva fatto a pezzi i loro corpi estenuati. Ma poi, dopo quasi un mese di fuga, su suggerimento di Ma’ Dalton, i quattro avevano raggiunto il Messico, ove permasero per qualche tempo e si procurarono false identità e relativi documenti.
– E fu così – disse Jack ad alta voce – che i Dalton lasciarono gli Stati Uniti con in tasca la libertà ed una nutrita somma di denaro.
Denaro, si disse tra sé, frutto di numerosissime rapine post-evasione.
Fu in Messico che Jack si imbatté nell’uomo lungimirante e sagace che avrebbe rivoluzionato la sua vita: Solomon Finnegan, geologo e mineralogista, commerciante, ma, soprattutto, incorreggibile truffatore. Jack lo conobbe presso un casinò, nel periodo di sperpero danaroso cui i Dalton si abbandonarono immediatamente dopo la Grande Evasione. La vena illecita che caratterizzava il giro di affari di Finnegan solleticava la malcelata indole Dalton che pulsava viva in Jack e lo condusse diritto tra le braccia di quel magnate abbandonando i suoi fratelli. Finnegan, che, avido com’era, lavorava perlopiù da solo, accettò con inaspettato garbo la presenza di Jack Dalton e lo condusse con sé in un viaggio memorabile.
Jack lasciò, per un istante, che la meravigliosa tonalità del cielo l’assorbisse, facendogli accantonare il passato per un po’. Il suo sguardo stanco danzò tra i sontuosi ricami delle nuvole, indiscusse protagoniste di quel cielo estivo tinto d’un arancio inusualmente affascinante. Jack  Dalton respirò profondamente, in preda ad una certa nostalgia, e solo poi si lasciò nuovamente naufragare in quell’impetuoso sgorgare di ricordi che quel giorno aveva deciso di popolare la sua mente. Gli scappò una smorfia divertita, al ricostruire il buffo profilo di quel furbissimo figuro con cui aveva trascorso parecchi anni della propria giovinezza, alla ricerca dei tesori più disparati: Solomon Finnegan era un ometto scaltro, evidentemente cupido, smaniosamente innamorato di ogni qualsivoglia prospettiva di guadagno, persino della più misera. Espertissimo nel proprio lavoro, scrutava il mondo dalla sua modestissima altezza e tendeva ad arricciarsi gli enormi baffi grigi ogniqualvolta pensasse. I suoi occhietti sottili ed incavati guizzavano da un angolo all’altro delle enormi cartine geografiche che portava con sé, al fine di individuare le migliori mete per l’estrazione dei minerali più pregiati. Una volta stabiliti ingegnosi itinerari in tale o tal altro luogo, istruiva meticolosamente Jack in merito ad ogni minimo dettaglio e, dopo avergli spiegato come preparare il Bagaglio Perfetto – come lo chiamava lui –, saltava assieme al suo novello discepolo sulla prima carovana. I viaggi erano estenuanti, vista la scarsa avanguardia dei mezzi di trasporto dell’epoca, ma Jack, da buon Dalton, si faceva motivare dalla prospettiva di guadagno cui Finnegan continuamente faceva riferimento.
Jack calciò un sassetto e si fermò ancora una volta ad ammirare il panorama. Si sistemò la bombetta che, a parer suo, non stava mai come avrebbe dovuto e solo poi si guardò attorno alla ricerca di una panchina libera. Cominciava ad avere la sua bella età e gli anni di fatiche giovanili si riflettevano ora sul suo benessere, rammentandogli ad ogni passo d’avere un’anca ammaccata, un polso perennemente dolorante e qualche problema posturale. Jack, aguzzando la vista dietro agli occhialetti tondi, individuò un grosso masso all’ombra di un grande pino e vi si precipitò, pur con le difficoltà del caso. Quando si sedette, una piacevole brezza gli accarezzò il volto. Fu allora che si ricordò del suo primissimo viaggio con Finnegan. Dopo quasi due mesi di tribolazioni per terra e per mare aveva messo piede in una terra lui sconosciuta ma estremamente affascinante, l’Africa. Jack trascorse in quel continente quasi dieci dei propri anni. Le giornate africane di Jack Dalton e Solomon Finnegan erano fitte e pesanti, ma ricche di scoperte, guadagni ed affari. Ciò che maggiormente riempiva la loro quotidianità era un durissimo lavoro d’estrazione, talvolta sotto il sole battente. Vi era poi il commercio delle pietre, la parte a parere di Jack più coinvolgente, ma che impiegava solo un terzo del loro tempo. Jack ammirava particolarmente la brillante versatilità che Finnegan dimostrava nell’adattarsi alle diverse culture africane, alle nuove circostanze, atmosfere: non si lamentava mai delle enormi fatiche cui sottoponeva il proprio corpo, né delle misere sistemazioni in cui perennemente lui ed il suo allievo incappavano. Sapeva sinceramente apprezzare le talvolta improponibili tradizioni culinarie delle regioni in cui si stabiliva, senza mai negare una buona parola per ogni pietanza, nemmeno per alcune inguardabili sozzerie che fu costretto a ingurgitare. Dalla sua bocca non giungeva mai una lamentela circa i climi differenti, le condizioni di vita né era da lui quella spocchia occidentale che Jack aveva sempre identificato come tipica dei Nordamericani e degli Europei. Piuttosto egli impiegava le proprie energie per studiare il territorio ed una strategia di guadagno vincente. Era solito insinuarsi scaltramente nelle complesse ramificazioni dei sistemi commerciali dei disparati luoghi e, con l’aiuto di una truffa magistralmente studiata, figlia principalmente d’un sapiente ed apparente intreccio di competenza e cieca fiducia in sé stesso, arricchirsi all’inverosimile. Finnegan eresse un impero vendendo a molto più del dovuto ogni genere di oggetto a chi l’avrebbe pagato generosamente, perlopiù gli spietati colonizzatori dell'ovest, ed acquistando presso altri, per quattro soldi, beni che in Occidente avrebbero fruttato profitti da capogiro. Tuttavia, la maggior parte del Tesoro, rimase intatta per oltre otto anni, con la promessa d’essere venduta una volta in America di modo d’aumentare certamente e spropositatamente l’ammontare di un ipotetico guadagno. Per anni accumularono non solo minerali ma anche stoffe, vasi, opere artigianali con la prospettiva di un commercio futuro.
Dalton sospirò, dichiarandosi ben contento di aver potuto collaborare con un tale, intraprendente genio del raggiro. Finnegan morì di colera nel 1894, nel Sud dell’Africa. Jack ne fu sinceramente dispiaciuto e si riserbò di dedicare una degna sepoltura a quello che, bene o male, era divenuto un caro amico.  Nonostante l’evidente cupidigia, Finnegan non era certo un uomo avaro: lasciò al suo benvoluto discepolo la propria parte di Tesoro e le indicazioni per raggiungere una cava che prometteva ritrovamenti straordinari, a patto che Jack avesse raggiunto personalmente quello spropositato guadagno che li aveva motivati sino a quel momento e che l’anziano non avrebbe potuto conoscere. Fu nell’aprile del medesimo anno che Jack Dalton fece conoscenza diretta della Dea Bendata; Finnegan ci aveva visto giusto e Dalton prelevò dal suolo sudafricano i diamanti che successivamente decretarono la sua immensa fortuna.
Jack ridacchiò tra sé e sé, alzandosi e risiedendosi su quel grosso masso che risultava essere piuttosto malagevole. Dandogli uno sguardo, come fosse un’occhiata di rimprovero per la sua scomodità, Jack s’accorse che la luce del tramonto svaniva mano a mano. Con mano tremante, estrasse dal taschino una minuscola fiaschetta in alluminio e bevve qualche sorso d’acqua.
Nel 1895, ormai più che trentenne e desideroso di mettere le mani consunte dagli scavi sul denaro che gli spettava, Jack fece ritorno negli Stati Uniti con lo zaino colmo delle ultime pietre preziose prelevate ed un carro che aveva viaggiato con lui dall’Africa, persino per mare, a bordo della nave St. Mary. In tale carro Jack aveva nascosto il Tesoro, mascherandolo con stoffe di scarso valore, provvedimento che consentì al bottino di giungere illeso a destinazione.
Dalton si lasciò sfuggire una grassa risata che risuonò nei dintorni del parco semi deserto: a quell’epoca quasi non gli sarebbe più servita una nuova identità per sfuggire alla Giustizia; avrebbe potuto fare a meno di quella seconda identità, non gli sarebbe servito quel secondo nome, “Malcom Porton”, che gli era stato affibbiato in Messico nel 1887 con tanto di fasulla documentazione. E ciò poiché, di ritorno dall’Africa, aveva la barba lunga, incolta, la pelle dorata e un intreccio di ciondoli tribali appeso al collo.
Subito dopo il suo arrivo in suolo statunitense, Jack decise di stabilirsi per qualche tempo presso Ma’ Dalton, la quale gioì al poter riabbracciare almeno uno dei propri quattro figlioli. Jack fu sinceramente lieto di scoprire che il Tesoro trasportato dall’Africa avesse un valore inestimabile e, vendendo parte di esso raggiunse una considerevole facoltà economica. Il bandito Jack Dalton era divenuto un rispettato avventuriero, presso cui le dame più nobili potevano acquistare meravigliose gemme, stole e carabattole che egli faceva passare per pezzi unici al mondo. Jack, in ogni caso, temendo ancora eventuali ripercussioni giudiziarie risalenti al passato, si sbarazzò della propria, reale identità e rimpiazzò “Jack Dalton” con quel Malcom Porton che un poco odiava.
Jack si alzò in piedi, con l’intenzione di dirigersi verso casa, poiché l’imbrunire un poco l’inquietava. Ogni tanto si concedeva una sigaretta e decise che in quel momento fumare gli avrebbe fatto bene. Avrebbe chetato quel burrascoso emozionarsi dovuto a quel turbinare di ricordi. Estrasse dal taschino sinistro una  sigaretta che conservava per le emergenze - come quella, d’altro canto – ed un accendino di prestigiosa fattura che aveva acquistato per vezzo.
Accese la sigaretta.
Si ricordò in quell’istante, proprio quando la fiamma divorava il capo della sigaretta, che appena tornato in America, dopo essersi concesso qualche giorno di tregua, aveva acquistato una villetta elegantemente arredata in riva a Lake St. Louis, in Missouri. Trascorse poi qualche mese nell’ozio decidendo di premiare ben otto anni di fatiche con qualche mese di vizi. Sperperò parte della propria fortuna senza alcun ritegno, ma impiegò il proprio denaro anche per la propria istruzione. Un uomo di successo, si disse all’epoca, non avrebbe potuto essere analfabeta. Prese dunque lezioni di lettura, scrittura ed economia di base presso un insegnante privato per sopperire alla propria ignoranza. Fu uno sforzo immane, ma Jack si sentì gratificato.
Tuttavia fece presto a sentire il peso della noia e si mise alla ricerca di qualcosa di nuovo. Accadde che inaspettatamente – e legalmente, cosa ancor più buffa – vinse al casinò. Considerata l’impressionante vincita, Jack convenne fosse cosa astuta investire sull’acquisto dello stabile e rilevare l’attività, che sapeva fruttare bei verdoni all’attuale proprietario. Quest’ultimo cedette alla lauta liquidazione che Dalton – o per meglio dire Mr. Porton – gli offrì e Jack divenne il nuovo titolare dell’impresa.  Dopo una furba ristrutturazione che richiese un ulteriore investimento, il locale antecedentemente malandato divenne meta di clienti d’un certo livello: meravigliose sale finemente decorate e Sale ampie, esteticamente piacevoli, dotate delle roulette e dei biliardi più raffinati ed illuminate da lampade di grido resero a Jack i guadagni sperati ed egli si vide autorizzato a conservare la rimanente parte del Tesoro del Periodo Africano. Naturalmente, da buon Dalton, si riserbò di truccare parte delle roulette, arricchendosi ancor di più mediante la truffa. Inoltre, Jack decise di non liberarsi della casa chiusa che aveva scoperto convivere con il casinò all’interno dello stabile (e che ora gli apparteneva). 
Divenuto in quel periodo parte della cerchia degli uomini più potenti dello Stato del Missouri, Jack Dalton, ufficialmente Malcom Porton, conobbe l’apice della propria ricchezza, assistendo al miracolo con occhi lucenti d’orgoglio. Fu proprio allora che l’impero faticosamente edificato minacciò di crollare rovinosamente. E accade quella che Jack ricordava come La Disgrazia.
Jack lasciò che il tabacco gli avvolgesse i polmoni e chiuse gli occhi per un attimo. 

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