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Autore: Utopia2    25/07/2015    1 recensioni
Matteo e Margherita, due ragazzi apparentemente opposti ma legati da un grande vuoto comune, riusciranno a 17 anni a trovare ciò che molti cercano per tutta la vita: l'amore.
Ma non c'è bene senza male e insieme si avvieranno verso l'autodistruzione.
"A cosa stai pensando?"
"Non è l'amore ma il fatto che stiamo entrambi male che ci unisce"
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Nessuno aveva niente a che vedere con me o con quel che provavo: dove mi trovavo –in nessuno posto– che cosa facevo –niente– e cosa volevo –sempre niente.
[...]nessuno sembrava corrispondere alla mia particolare pazzia."



  
Salve a tutti, Margherita Ricci.
1.75, capelli neri, occhi verdi, sedici anni, figlia unica.
Nient’altro.
Da un anno a questa parte ho perso tutto.
Una personalità? Si, la avevo.
Non è mai stata una delle migliori, in ogni caso.
Inizialmente introversa, tremendamente orgogliosa e, a dire degli altri, addirittura simpatica.
Passioni? Quasi non me le ricordo più.
Mi piaceva ballare, sì.
Facevo danza moderna.
Ero portata, mi dava soddisfazioni, mi piaceva.
So del passato ma mi sono persa nel presente.
Ho cercato di spiegarvi in breve che persona ero; che persona sono non so dirlo.
Forse è anche troppo considerarmi una persona.
Le persone sono dotate di un’anima e a me sembra che la mia mi abbia abbandonata da un bel po’.
La vita era riuscita a darmi solo sofferenze.
La vita mi ha insegnato che ‘vivere’ è un’utopia; si può sopravvivere, se si è capaci.
La felicità avrà sempre un suo limite di tempo e non ce ne si deve approfittare.
Nessuno è felice a lungo termine.
Chi è felice sarà doppiamente triste quando la sofferenza busserà alla porta.
Ho capito che è meglio aspettarsi poco e niente dalla vita, che Dio non ha regolato bene le dosi di bene e di male da spedire sulla Terra.
Nessuno mi conosce veramente, tanto meno io.
Prima era diverso, oserei dire quasi normale.
Prima c’era Daniele.
Prima c’ero io.
Non mi affido più al karma.
Nessuno riuscirà mai a darmi tanto bene quanto il male che ho patito.
Ma vado avanti.
Il dolore lo nascondo.
Giuro, da fuori posso quasi sembrare una persona normalmente stabile, ma dentro è tutto un casino.
Le sedute dallo psichiatra mi avevano solo fatto capire che il male che ho dentro non se ne andrà mai via, ma che qualche sorriso e una battuta buttata lì giusto per ricordarsi che si è ancora dotati di senso dell’umorismo, basta alle persone per fargli capire che stai bene.
Ed è così che dopo la terza seduta mi stancai di rivelare i miei drammi a quell’uomo, non li avrebbe capiti.
Avrebbe solo detto le solite frasi preparate e prescritto qualche pillola che avrebbe alleviato il dolore per qualche ora, niente più.
Alla quinta o sesta seduta lo psichiatra rassicurò mia madre dicendole che stavo di nuovo bene. Lei gli credette, ma sapeva che non era affatto così.
Tipico della gente convincersi che tutto va bene anche se si sa che tutto va male.
Tipico della gente, non tipico mio.
Dopo quelle inutili sedute mia madre pensò fosse meglio cambiare ambiente, trovarne uno più sicuro.
Quale luogo migliore se non la capitale?
E quindi eccomi qui, Via Catania 46, Roma.
La città non mi dispiace affatto.
Mi piace il fatto che abbia una storia da raccontare.
Tutti ne hanno una, vincono le originali, le più belle.
Io ne ho una.
Originale, sì. Drammatica. Per certi punti di vista anche coinvolgente.
Il male ha concluso bruscamente la storia e non ho avuto il coraggio di iniziarne una nuova.
In ogni caso, nuova città, nuove persone, nuova vita. Vediamola così.
††† 14 Settembre, ore 7.
Suona la sveglia, primo giorno di scuola.
Mi alzo, prendo un paio di jeans e una maglietta a caso dall’armadio e mi preparo.
Non sono mai stata una di quelle ragazze che ci mette le ore per decidere cosa mettersi.
La scelta è limitata e tutto quello che ho nell’armadio mi piace allo stesso modo.
O forse mi fa schifo tutto allo stesso modo.
Beh, fatto sta che mi lavo i denti, la faccia, mi metto le scarpe ed esco.
Il caldo romano e la forte umidità si fanno sentire subito.
Guardo il cellulare.
7:30.
Bene, posso andare con calma.
La nuova scuola sta in fondo alla strada, una decina di minuti a piedi.
Mi accendo una sigaretta e, senza volerlo, la mente fa un breve viaggio nel passato.
Ritorna a quel giorno.
Quel 7 Dicembre, l’inizio della mia fine.
Inizio a piangere inconsapevolmente.
Le lacrime mi solcano il viso ma non ci faccio caso.
Il dolore è così forte che mi isola dal resto per un paio di minuti.
La mente finisce il suo tour nel passato.
Smetto di piangere, apro gli occhi.
Un ragazzo si intanto era fermato davanti a me e ora mi guarda con preoccupazione.
“Tutto okay?”
Rifletto un attimo sulla giusta risposta da dare.
“Si, tranquillo” mento.
7:45.
Ora di andare.
“Devo andare, scusa”
“Dove vai a scuola?”
“Newton”
“Anche io” e l’aria preoccupata precedente viene sostituita da un sorriso.
Un bel sorriso.
Sorrido anche io, non sapendo come continuare la conversazione.
“Classe?”
“III D”
Sorride di nuovo.
Ora un po’ di più, quasi una risata.
“Beh allora piacere nuova compagna di classe, sono Edoardo, per gli amici Ed.”
“Margherita” questa volta non ricambio il sorriso.
7:50.
Si inizia a far tardi.
Mi alzo.
Ci incamminiamo.
Silenzio.
Poi:“Sei di qui?”
“No, mi sono trasferita una settimana fa”
“Ah, da dove vieni?”
“E’ indispensabile saperlo?” rispondo annoiata.
Non si controlla l’apatia.
“No” risponde freddo.
Silenzio.
Arriviamo a scuola.
Mi fa vedere dove si trovava la classe.
Mi siedo all’ultimo banco.
Si siede vicino a me.
Entra la professoressa d’inglese.
“Abbiamo una nuova alunna qui, presentati cara”
Mi alzo, “Margherita Ricci”, mi siedo.
“Nient’altro?”
“Nient’altro”
Mi ero già rimediata delle occhiate strane, ma non brutte.
Ricordare il passato mi faceva male.
Ora sono solo Margherita Ricci.
Forse neanche quello.
   
 
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