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Autore: Vas Happening_Mary    30/07/2015    4 recensioni
Alekia Margaret Rose è il nome completo, Rose per gli amici.
Odia il buio, l’ansia di sua madre, i telegiornali deprimenti e gli estranei.
Soprattutto quelli belli.
Ama suo padre, l’inverno, la filosofia ed il suo migliore amico Adam.
Farebbe di tutto per lui.
Anche rapinare.
Ma ci sono tante cose che Rose non conosce e che non è in grado di classificare, come il ballare sotto la pioggia, l’uscire di notte senza permesso, l’amare qualcuno incondizionatamente.
O l’essere salvata durante una rapina per poi essere portata in un luogo sperduto.
Perché lei tutto si aspettava, furchè quello.
Non era pronta a scoprire la verità, non voleva sapere chi fossero realmente i suoi salvatori. E non voleva cambiare idea.
Ma avrebbe presto scoperto che era tutta questione di indoli; correre con i lupi non dispiaceva neanche a lei, tutto sommato.
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E, se la trama non vi ha colpiti, date alla storia almeno una possibilità.
Genere: Fluff, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E rieccomi qui dopo una settimana precisa! o quasi. 
Vi avviso che il capitolo sarà composto in buona parte da sms, ma chissene, sono parte della storia. 
Il prossimo aggiornamento sarà in ritardo perchè domani mattina parto per la calabria e ci si rivede dopo il 12! 
Ringrazio le cinque anime che hanno recensito, Lollo e Nuna in particolare che mi seguono praticamente ovunque, a quelle 45 che hanno letto il primo capitolo, a chi ha scelto di continuare e a chi lo farà in futuro. Auguro a tutti una buona lettura!
May.

Ps: troverete in corviso i suddetti messaggi e qualche frase, se non sbaglio, più particolare.



 

Night.


La chiamata di Adam arrivò il giorno dopo, poco prima delle tre del pomeriggio; aveva saltato scuola, di nuovo, ma nessuno in classe sembrò sentire la sua mancanza.
Erano rare le volte in cui si presentava, di solito per gite o corsi speciali che davano punti di credito - non che lui ne avesse bisogno, visto che quell’anno sarebbe stato bocciato a prescindere.
Mi disse di farmi trovare all’angolo della strada la sera dopo alle 10:20, e avrei dovuto portare il solito equipaggiamento: borsa da viaggio, maschere da sub, cacciavite ed un coltello. Lui avrebbe portato la sega, la torcia, e probabilmente anche un sacco di plastica.
Non mi disse nulla sul vestiario, forse perché ormai entrambi avevamo imparato ad usare abiti che mai più avremmo rivisto in vita nostra.
E, credo per questo, quello stesso venerdì chiamai Liz per andare a fare compere al mercato sul confine della città.
Saremmo potute andare ovunque, anche al centro commerciale, ma rischiare di trovarmi registrata su qualche filmato di sorveglianza o trovarmi con uno scontrino in tasca non mi era sembrata una buona idea.
Ci incontrammo direttamente sul posto, dopo quaranta minuti di autobus da parte mia.
“Tutto bene? Ti vedo un po’ giù”.                                       
“No, tranquilla. Pensavo a quanto sia strana la nostra città; come formazione, intendo”.
Lei mi guardò stranita e sorrise, “Dici? Io non ci trovo nulla di male”.
“Una strada grande al centro piena di stradine secondarie ai suoi lati dici che è normale?”.
“Questo è un posto di collegamento, Alek, dovresti saperlo bene”. Si mise meglio la borsa in spalla e prese a camminare verso le bancarelle. “I viaggiatori devono poter scegliere anche di non passare per le stradine, come le chiami tu. Per questo la città è formata attorno alla zerodue, no? E su quella ci sono tutti i negozi più importanti e gli edifici essenziali, come il municipio e la banca”.
La seguii in silenzio, attenta a non pestare residui non identificati sull’asfalto. “Lo so, ma non capisco perché si ostinino a spacciare questo posto per quello che non è”.
Si voltò, “Che intendi dire?”.
“Pensaci,” e la superai. “come volti l’angolo della nona subito ti trovi in una sorta di Bronx, quando poco prima eri immerso nel lusso più sfrenato. Cercano di convincere la gente da fuori che siamo belle persone con una bella cittadina in cui vivere, ma sappiamo tutti che non è così. Sono stata fortunata io a nascere sulla ventiseiesima, mica la città mi ha offerto la possibilità di scegliere”.
“Perché questi ragionamenti all’improvviso? Non hai, non abbiamo nulla di che lamentarci.  La bella casa ce l’abbiamo, diciamo che anche i nostri quartieri sono vivibili. Mi dispiace per quelli come Kyle, ad esempio, che vivono dalla terza alla decima, non per quelli come me e te. La fai sembrare tragica quando non lo è”.
Decisi di far cadere la questione, solo per evitare che alzasse i toni davanti a tutti.
Io credevo sul serio che la mia città fosse strana, collegata da sottovicoli stretti e percorribili solo a piedi, con vie principali tenute essenzialmente bene. Troppi segreti, troppe cose non visibili dalla zerodue.
Entrate tra la folla, fui subito invasa da un forte odore di vecchio e muffa.
Avevo usato la scusa del giardinaggio per portarla lì a comprare vestiti a meno di cinque che poi avrei buttato, e lei mi aveva creduta con un certo entusiasmo anche.
“Guarda lì! Quello rosa!” disse, indicandomi un vestitino che di elegante aveva ben poco.
Scossi la testa e lei mi tirò una gomitata, “Lo dicevo per me, non per te!”.
Guardai qualche passo più avanti, verso uno stand con capelli di lana e maglie a collo alto nere. Sarebbe stata perfetta per sabato; chi in casa non ha almeno una maglia del genere per il freddo?
“Oh, Liz, credo che questa andrà bene” le dissi mostrandole il capo di sottomarca.
Lei arricciò il naso ed alzò le spalle. “Non mi piace molto, ma se è per il giardinaggio …”.
“Lo è”.
“… allora va bene, credo. Non deve essere carina, basta che sia comoda e calda”.
Annuii e presi due dollari dalla tasca. “Si tratta di terreno e possibile fango, dopotutto.  Non posso mica rischiare di rovinare una maglia di marca”.
Pagata quella, decidemmo di completare il giro nella speranza di trovare articoli realmente interessanti, magari da usare tutti i giorni. Lei finì col prendersi una maglia rosa e gialla e delle fasce per capelli, io un paio di scarponi (sempre per il giardinaggio), un pantalone largo marroncino ed una maglia semplice di lana turchese.
Tornai a casa che erano quasi le 8 e, fuori dal mio giardino, vidi qualcosa nella buca delle lettere.
Presi il pacchetto e lo scartai, ritrovandomi con una sfera grigia e imballata tra le mani. Era piccola, dura, ed al tatto sembrava vetro. Allegato c’era un foglietto rosa con una scritta in penna blu, Non mi sembrava il caso di aspettare domani per dartela, considerala come un anticipo e fanne quello che vuoi.  Adam, per forza sua doveva essere, ma l’anonimato per lui valeva anche più di quella sfera.
Me la girai avanti agl’occhi per qualche istante, fino a quando non sentii il motore di una macchina avvicinarsi.
Misi la perla in tasca e mi voltai a salutare mio padre mentre scendeva dalla punto nera.
“Sei tornata adesso? Mi sorprendi, ragazzina; non è che ne stai combinando una delle tue?”.
Mi rincuorava sentirgli dire quella frase, anche se sempre con sfumature diverse. Sapevo che quello era il suo modo di farmi capire che a me ci teneva ancora, anche se era meno presente, come quando ero bambina. La mamma me lo aveva detto.
Gli sorrisi e scossi la testa. Aprì il cofano per prendere alcune buste, probabilmente della spesa, e mi fece segno di entrare in casa con lui.
“Andata bene a scuola? Oggi faceva un freddo in ufficio” disse, e mimò un brivido.
“Da noi si stava bene. Sai, la classe è piccola… un termosifone da un metro è sufficiente, anche se sono rimasta con la felpa tutto il tempo”.
Lui trafficò con le chiavi qualche secondo e poi aprì la porta, “Questa scuola… come dobbiamo fare? Non solo è l’unica in città, quanto è anche mal equipaggiata”.
Le luci all’ingresso erano spente e per poco non inciampai in un giocattolo di Micia.
La mamma, dalla cucina, ci disse di stare attenti al pavimento bagnato e di togliere le scarpe per non sporcare tutto.
“Ma si mangia, almeno?” chiese mio padre, scalzo e contrariato.
“Se ti lavi le mani e se Rose apparecchia la tavola, sì”.
Obbedimmo ed anche quel punto della giornata passò in silenzio tra un pezzo di pollo e l’altro.
Dopo cena, mentre mia madre ripuliva i piatti, io e mio padre andammo a sederci sul divano; lui con il solito giornale, io con il cellulare.
“Prima o poi quei cosi conquisteranno il mondo” disse, senza alzare lo sguardo dalla carta.
“Eppure non ti lamenti quando leggi le news da qui”.
“Touchè”.
Sbloccai lo schermo ed una foto mia e di Adam comparì a grande immagine; aprii la casella dei messaggi, scocciata dal trovarmi ancora senza internet. Ce ne erano tre, rispettivamente da Kyle, Angelica ed un numero sconosciuto.
Kyle mi chiedeva se avessi programmi per sabato, Angelica mi diceva di fare attenzione ed il terzo messaggio… semplicemente con un punto.
La gente è matta, scrissi a Liz.
Perché? :’)
Ho ricevuto un messaggio vuoto da un numero sconosciuto
Quando?
Una ventina di minuti fa
Figo! Un ammiratore segreto!
Sorrisi, E’ vuoto!
Forse non sapeva che dirti! ;)
O forse ti fai troppe seghe mentali
Può essere
Aprii il messaggio di Kyle e gli dissi che il giorno dopo sarei andata con mia madre dall’estetista, cosa del tutto vera, ma evitai di rispondere ad Angelica.
Che si dice a casa? , tornò a chiedere Liz.
Nulla di che, le solite cose. E da te?
Sam rompe, vuole vedere Gray’s anatomy
E lasciaglielo vedere, no?
Pazzissima, stasera fa Once Upon a Time
Digitai una risata ma mia madre mi tolse il cellulare da mano.
“Ti sto chiamando!”.
“Ed io non ti ho sentita”.
“Me ne sono accorta, presa com’eri da questo aggeggio! Và alla porta, ti vogliono, e che sia l’ultima volta che debba riprenderti per una cosa simile!”.
Sbuffai alzandomi e vidi mio padre ammonirmi con lo sguardo.
“Chi è?” chiesi a mia madre, ma lei alzò le spalle.
Attraversai il salone e varcai l’arco che lo collegava all’ingresso principale. “Chi è?” chiesi, stavolta un po’ più forte, in modo che potessero sentirmi.
Nessuno rispose.
Mi avvicinai alla fessura nascosta per vedere fuori, ma era tutto totalmente buio.
“Mamma!” urlai tornandomene in salotto. “Ridammi il telefono!”.
Lei si affacciò dalla cucina e lo lanciò sulla poltrona verde accanto al cammino. “Chi era?”.
“E che ne so, non c’era nessuno fuori”.
“Se ne sarà andato… peccato, sembrava così carino”.
Alzai gli occhi al cielo e mi allungai ad afferrare il telefono. Lo sbloccai ed inviai il messaggio a Liz, notando poco dopo l’icona messaggi ancora illuminata.
Sei troppo lenta.
Ancora il numero sconosciuto.
Chi sei?
Nessuno.
Anche Nessuno aveva un nome.
Ammirevole.
Cambiai rapidamente mittente e tornai sulla chat con Liz.
Oh, mi ha riscritto il tipo. Dice che sono troppo lenta.
Lenta? E per fare che?
Credo si riferisse alla porta, hanno bussato e ci ho messo un po’ ad aprire
Non sarà mica la stessa persona?
Mi morsi un labbro e guardai mio padre rilassato sul divano ancora a leggere.
“Tutto bene?”.
“No.” Risposi. “Mamma!”.
Mi alzai di nuovo e misi il telefono in tasca. “Dimmi com’era fatto il tipo fuori la porta”.
Lei chiuse il cassetto delle posate e si voltò a guardarmi con lo strofinaccio posato sulla spalla sinistra. Era stanca, lo si capiva, eppure tutti quei lavori la tenevano in qualche modo distratta da quello che aveva passato.
“Il ragazzo? Ho visto poco…”.
“Dimmi quello che hai visto”.
“Era alto, abbastanza anche”.
“E poi?”.
Si appoggiò con una mano al tavolo e assunse un’aria pensierosa. “Aveva i capelli neri… e gli occhi luminosi, di questo ne sono certa, erano come giallastri. Aveva addosso una semplice tuta grigia e…”.
“Era da solo?”.
“Beh, sì, certo!” disse annuendo, poi però parve spegnersi. Mi guardò con occhi confusi e schiuse le labbra. “O ne erano due?”.
Sbuffai e spostai con i piedi il tappeto rosso sotto di me. “Hai aperto tu, non io”.
Lei sembrò pensarci su qualche istante, poi però riprese lo straccio e si voltò verso il lavello. “Non mi importa, e non dovrebbe neanche a te”.
Odiavo quando fingeva indifferenza di fronte alla sua sbadataggine. Perché lei faceva così ogni volta che non ricordava le cose; scuoteva la testa, cominciava a fare altro, e diceva che non era importante.
Mi mantenni dal tirarle dietro la padella appoggiata sul tavolo e me ne scappai in camera mia.
Micia abbaiò un paio di volte al sentire i passi pesanti, poi aprii la porta e lasciai che scendesse al piano di sotto.
Mi fiondai sul mio letto e per qualche istante rimasi con la faccia premuta sul cuscino, quasi senza respirare.
Se fossero stati in due, dalla descrizione di mia madre e dall’episodio del giorno prima, sarebbero stati senza dubbio i gemelli.
Mi girai verso il soffitto ed accesi la lampada accanto al comodino.
Mamma non si ricorda , scrissi a Liz.
Cosa?
Se fossero due o uno solo
Perché sarebbero dovuti essere in due?

Aaaaah! No dài, non li vedo così sfacciati!
Ma Elizabeth non sapeva della sera prima, non aveva idea di quello a cui avevo assistito.
Cambiai chat e tornai dall’anonimo, Perché eri fuori casa mia?
Lo ero?
Dimmelo tu.
Lo ero.
Trattenni il fiato e per un attimo pensai di poter urlare da un momento all’altro.
Allora rispondi.
Trovala da sola la risposta, lucciolina.  
Mi alzai di scatto dal letto e lasciai cadere per terra il cellulare. Corsi fuori dalla stanza e scesi le scale due gradini alla volta, entrando nel soggiorno con il fiato accelerato e lo sguardo fisso su mio padre.
“Dove sta il tuo cellulare?”.
Lui si girò lentamente e si aggiustò gli occhiali rossi sul naso da mister patato.
“Credo nel mio giaccone, perché?”.
Mi venne da piangere.
“Rose, stai bene?”.
Si alzò, posò il giornale con attenzione sul tavolino basso e venne ad abbracciarmi. Mi strinse forte e la sua maglia blu catturò una lacrima sfuggita al mio controllo.
Chi diavolo poteva essere così mio intimo da sapere di quel soprannome?
“Mi dici che succede?”. Prese il viso tra le mani sorrise con quell’aria giovane che tanto mi piaceva di lui.
“Nulla… niente di importante”.
Cercai di sorridere anche io, ma l’unica cosa che ne uscì fu una smorfia che mi fece ridacchiare.
“Nick aveva la tua stessa espressione di adesso l’ultima volta che lo vidi”.
Ed il rumore dell’acqua dalla cucina si interruppe.
Alzai un angolo della bocca, nostalgica, e lui sorrise di nuovo.
Erano già passati tre anni dalla scomparsa di mio fratello Nicholas, a quel tempo diciannovenne. Era il suo primo anno in marina, era partito per una nobile causa, ma era stato dato per disperso dopo neanche sei mesi. La notizia fu tragica, distrusse mia madre e mise notevole distanza tra noi ed il resto della famiglia. Mio cugino Matteo, in Messico, non riuscì a partire perché la madre cominciò ad avere paura che capitasse la stessa cosa anche a lui; mia madre ne soffrì molto, si sentì responsabile anche dei sogni dirottati di quel ragazzo.
“Era così felice di partire… ricordo che mi disse qualcosa riguardo una cartolina dall’Egitto. Ma fece la tua stessa faccia perché, nonostante la felicità, non voleva lasciarci”.
Lo ricordavo un ragazzo attivo, con i miei stessi occhi e capelli rasati quasi a zero. Diceva sempre di voler scappare dalla vita che faceva perché non era cosa per lui, lo ripeteva a chiunque gli chiedesse cosa volesse fare da grande. E a diciotto anni, mentre ancora faceva il quinto anno di superiori, si era iscritto alla marina della California.
“Ci chiamò, quando la nave partì dal porto… chiese di te ma dormivi, parlò con la mamma e poi attaccò. Fu l’ultima volta che lo sentimmo”.
Avevo quattordici anni.
“Non dirle così, Malcom. Non era questo l’ultimo ricordo che lui avrebbe voluto di sé”.
Mio padre guardò la mamma, appoggiata contro l’arco in legno, ed annuì. “Hai pienamente ragione, Teresa, ma non sempre le cose vanno come vorremmo”.
Lei abbassò la testa e non rispose, chiudendosi a riccio probabilmente avvolta da una coperta di vecchi ricordi di momenti passati con il suo primogenito.
“Quanto a te,” continuò guardandomi di nuovo. “và a fare quello che stavi facendo, e ricorda che ogni problema può essere risolto a modo suo”.
Era il suo modo di dirmi che voleva restare solo con la mamma.
Salii le scale per la terza volta e sperai di non doverle ripercorrere di nuovo.
Tra mia madre, l’anonimo e la storia di mio fratello, quella serata si rivelò andare di male in peggio.
Trovai il telefono per terra con lo schermo illuminato e due avvisi di chiamate perse.
Angelica.
Non avrei risposto a prescindere, ma un nodo allo stomaco quasi mi impedì di respirare.
Aprii i messaggi e ne trovai alcuni suoi che mi pregavano di richiamarla, altri di Liz che chiedeva di sapere che stesse succedendo.
E poi ce ne era uno suo.
Credevi davvero che fossi tuo padre?
Aveva assistito anche a quella scena.
Dimmi chi sei e facciamola finita.
Buonanotte principessa.
Sospirai e scrissi a Liz che da lì a poco sarei andata a dormire.
Misi il cellulare sotto carica e tirai fuori il pigiama dal cassetto sotto al mobile.
Provai a rilassarmi con della musica che Sam mi faceva sentire in continuazione, qualcosa di simile al classico, un motivo continuo suonato con l’arpa. Era bello, tranquillo… ma dava solo più nervoso in situazioni simili, così spensi dopo neanche mezzo minuto.
Mi misi a letto alle 00:47 precise.
L’ultimo messaggio che lessi fu di Adam.
Spero tu abbia ricevuto il mio regalino, ci tengo davvero tanto a vedertelo addosso in qualche modo. Domani attieniti al piano e andrà tutto bene, come sempre. Ricorda che ti voglio bene Rose, e te ne vorrò qualsiasi cosa succeda tra noi. Promesso.
Non risposi, non lo ritenni necessario; spensi il telefono e mi addormentai con la luce della lampada da un lato e mille pensieri per la testa.
 
 
Sabato mattina, come detto a Kyle, andai dall’estetista con mia madre per fare ‘cose tra donne’.
Il pomeriggio, tornata a casa, scoprii con grande sorpresa del ritorno della linea grazie a mio padre ed un tecnico andato via da poco.
Aprii WhatsApp e sfogliai le conversazioni lasciate in sospeso una settimana prima per poi soffermarmi sul gruppo Diamond, quello con tutti noi soliti clienti.
Notai una questione aperta sul cosa fare quella sera.
Kyle: O Diamond o cinema
Liz: scordatelo, sono due sabati che andiamo al cinema e al diamond ci andiamo tutti i giovedì
Sam: Elizabeth ha fatto la faccia dei waffles xD
Liz: simpatica -.-
Ange: io dico che dovremmo andare tutti al parco
Kyle: così cominciamo a prendere confidenza con i senza tetto
Sam: ?
Kyle: prima o poi lì finiremo a vivere tanto
Liz: Spiritoso come un cocomero d’inverno
Kyle: Parla lei!!
Sam: e se andassimo a mangiare una bella pizza?
Sorrisi e mi decisi ad intervenire, E se invece ve ne restaste ognuno a casa propria?
Liz: AHAHAHAH
Kyle: Ben tornata chica!
Ange: credevo fossi impegnata stasera
Storsi il naso, Lo sono infatti, volevo solo mettere fine alla guerra
Ange: che pensiero carino J
Mi dispiaceva sapere che una delle mie migliori amiche provava a rivoltarsi contro di me ogni volta che ne avesse occasione, ma di certo non la biasimavo.
Ange: ricordate che stasera ci sarà anche Mia
Sam: che paaaallleeeeee
Kyle: bellina lei
Ange: gliel’ho promesso raga, non posso lasciarla sola, non conosce nessun altro
Liz: Ha ragione, magari è simpatica
Lo è
Sam: Rose ma se l’avrai vista si e no una volta! Comunque, che hai da fare stasera?
Vedo Adam, stiamo a casa mia
Liz: sta cosa non mi convince
Kyle: quoto elly
Tranquilli, poi vi racconto tutto. Ora stacco, vado a scaricare un film da guardare.
E anche mentire mi dispiaceva, specialmente a loro, ma che altro avrei potuto fare? Non avrebbero capito, mi avrebbero condannata a prescindere ed era l’ultima cosa che volevo accadesse.
Lasciai il telefono sul comodino e presi a guardare una delle tante puntate dei Simpson.
Quando finì anche la quarta, circa un’ora e mezza dopo, mi decisi a chiamare mia madre per chiedere a che ora tornassero a casa.
Come ogni sabato, lei e mio padre se ne erano andati in giro per la città a fare compere, mangiare, e fare roba da fidanzatini innamorati che –a detta loro- non avrei potuto capire.
“Pronto?”.
“Oh, a che ora tornate?”.
“Tardi” disse, e scoppiò a ridere.
“Stai bene?”.
“Benissimo!”.
“Vabbè. Ma tardi che ora?”.
Esitò prima di rispondere, “Diciamo le due o le tre di domani”.
Alzai gli occhi al cielo e controllai l’ora.
“Sono le 8 e mezza, che avete da fare fino a domani di così tanto importante?”.
“Buona serata tesoro!”.
Ed il suono di una linea che cade mi invase l’orecchio sinistro.
Mi aveva davvero attaccato il telefono in faccia come una ragazzina?
Strinsi i denti e salii al piano di sopra per radunare le mie cose prima di fare una lunga e rilassante doccia.
Tirai fuori dall’armadio il borsone con le cose che sarebbero servite quella sera e preparai sul letto la maglia a collo alto, il pantalone marroncino e gli scarponi contro il fango.
Legai i capelli in una coda alta che avrei trasformato dopo in una sorta di chignon per farci passare la cuffia nera e la maschera da immersioni, mi spogliai ed entrai in doccia.
A primo impatto l’acqua uscì fredda ma non feci nulla per regolarla; una volta uscita, avrei sicuro avuto meno freddo in caso di basse temperature.
Finii tutto nel giro di una buona mezz’oretta, mi vestii e ultimai i dettagli mancanti quali trucco e capelli. Presi dal cassettone sotto la scrivania dei guanti ed un capello da mettere sopra la cuffia; io e Adam lo facevamo per non far capire ad eventuali telecamere di che sesso fossimo.
Prima di uscire, ancora vestita da persona normale, portai Micia a fare un giro del quartiere.
L’aria era fresca, si respirava il sabato sera in ogni angolo e la cosa mi elettrizzava non poco. Adam aveva scelto la serata perfetta perché noi due, almeno, non avremmo potuto correre il rischio di essere sospettati. La mia unica paura era di incontrare dopo qualcuna delle mie amiche… avevo detto che sarei rimasta a casa, ci avrei fatto una figura assurda in quel caso.
Il cellulare dalla tasca vibrò, Manca poco bimba, e tieniti pronta a scavalcare dopo il colpo.
Scavalcare? Scrissi, e aggrottai le sopracciglia.
Non conoscevo la zona in cui era collocato il negozio, ma mai prima d’allora mi aveva detto che avremmo dovuto scavalcare un qualcosa.
Si va nel bosco, piccola. Lasciamo lì la roba, ci cambiamo, e torniamo a prenderla domani pomeriggio.
Adam, ho il borsone con me
E quindi? Lo lanci e poi scavalchiamo, ti aiuto io ;)
Riposi il cellulare in tasca e tornai in casa per prendere il cambio di cui Adam parlava.
Maglia azzurra e Jeans, semplice e per nulla appariscente.
Chiusi Micia in camera mia per evitare che scappasse al rientro dei miei genitori, che quasi sicuramente sarebbero stati ubriachi.
Lanciai il telefono nel borsone, misi la cuffia, il cappello, e chiusi tutto.
Lasciai la maschera attaccata al pantalone ed i guanti nelle tasche, poi presi le chiavi di casa ed uscii.
L’idea di andare a piedi andò a farsi benedire dopo il primo chilometro e mi costrinsi a prendere l’ultimo giro dell’autobus, praticamente deserto per l’orario.
Cominciai a sudare freddo e le mani presero a tremare come in preda a convulsioni.
Dopo 15 minuti circa, quando Adam mi vide scendere e salutare in conducente, venne ad abbracciarmi come era solito fare in qualsiasi situazione.
“Grazie per essere venuta”.
“Ma figurati” risposi, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Mi aiutò a mettere la maschera ed io aiutai lui con la cuffia, poi sbirciò rapidamente nel mio borsone.
“Come ti ho già detto, la sicurezza è inesistente. Hanno cominciato a sistemare però, le scatole ancora piene dovrebbero essere poche. Due ci bastano, altrimenti dovremmo lasciare completamente la città” disse ironico, concedendosi addirittura una risata.
“Sei tesa, vero?” disse e sollevò il martello. “Ora andiamo laggiù, dove sta la macchina verde, e rompiamo il vetro. Dobbiamo agire in meno di dieci minuti Rose, chiaro?”.
Ma “Ti serve solo il martello?” fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Lui mi venne vicino, avvolto in vestiti simili se non uguali ai miei, e mi lasciò un bacio sulla fronte. “Brava la mia ragazza”.
Mi prese per mano e cominciammo a correre verso le indicazioni fornite poco prima.
Adam fece esattamente quello che aveva detto; ruppe il vetro, aprì la porta dall’interno e mi lasciò passare per prima.
All’interno, tutto era disposto come in una classica gioielleria. Vetrine ovunque, teche mezze piene e mezze vuote, poster pubblicitari affissi dietro al bancone. Mi sorpresi di non trovare la solita doppia entrata che caratterizza quei tipi di negozi, ma capii che non fosse il momento più adatto per parlarne.
Mi fece cenno con la testa di seguirlo e scavalcò il bancone per arrivare dietro al magazzino. Aprì la porta con un calcio ed una fila immensa di scatoloni ci piombò addosso. Erano tutti piedi di gioielli, secondo lui, perché lo vidi afferrare più cose ed infilarsele tra le tasche. Presi il primo scatolo che mi capitò a tiro e corsi fuori, verso il muro da scavalcare. Il borsone era pesante, lo scatolo altrettanto, e la testa mi diede la folle idea di fermarmi per trasferire il contenuto del secondo nel primo.
Adam mi corse avanti nel buio e forse neanche si accorse della mia sosta.
Lanciò la scatola ancora chiusa e superò il muro con un salto degno di un atleta professionista.
Io, che di agilità ne avevo davvero poca, trafficai ancora qualche istante con il borsone e poi lo seguii.
O, almeno, ci provai.
Perché, nel buio di quella fredda sera di febbraio, sentii chiari e distinti dei cani abbaiare. Non dei cani qualunque però, facile così; cani della polizia, grossi pastori tedeschi addestrati per questo.
Lanciai il borsone oltre il muro di pietra e mi arrampicai goffamente anche io.
Mi lanciai, letteralmente, dall’altra parte e presi a correre il più velocemente possibile con il borsone in spalla. Non sapevo bene dove stessi andando o dove sarei dovuta arrivare, sentivo solo i cani farsi sempre più vicini ed il mio respiro accorciarsi. 
Arrivò poi il punto che avevo temuto fin dal principio, quello di non ritorno. Quello in cui i piedi smettono di correre, il corpo cade a terra stremato tra ramoscelli secchi, muschio e foglie, e la fine si fa vicina.
Dalla salita su cui mi trovavo riuscivo a vedere i cani correre a fauci spalancate in mia direzione.
Maledetto Adam, lui e la sicurezza che non sarebbe dovuta esserci.
Cercai di rialzarmi tra un affanno e l’altro ma inutilmente: i miei polmoni si rifiutavano di collaborare.
Quando poi vidi i cani a qualche metro da me, quando sentii le voci di alcuni uomini arrivarmi dal punto in cui avevamo scavalcato, accadde qualcosa che non seppi spiegarmi.
Un lupo, perché di un lupo si trattava, sbucò da sopra di me dritto nella loro direzione.
Ma non un lupo qualsiasi; era grande, bruno, quasi tre volte quei cani che a confronto sembravano dei cuccioli. Li lanciò per aria tutti, nessuno escluso, facendoli atterrare in vari punti attorno a noi. Solo allora si voltò a guardarmi ed il mio cuore perse un battito.
Aveva gli occhi blu come l’oceano, proprio come i miei.
In un primo momento mi squadrò, mi venne vicino dalla destra ed emise un ringhio profondo, di gola. Arretrai rapidamente con l’aiuto delle mani e quello abbassò la testa ancora di più alla mia altezza.
“Eccolo! E’ laggiù!” sentii urlare da dove poco prima c’erano i cani, solo che stavolta nessuno si sarebbe avvicinato.
I poliziotti, tre uomini robusti e visibilmente armati, si fermarono di colpo davanti a tanta possenza. Quello di mezzo, che mi sembrò il più giovane, arretrò di almeno una decina di passi.
Io ero ancora coperta, il fiato sempre corto, e l’ansia mi crebbe in petto.
Se quel coso se ne fosse andato all’improvviso, cinque anni minimi di galera non me li avrebbe tolti nessuno.
Eppure quello non sembrò intenzionato a lasciar perdere.
Si voltò verso di loro, spalancò le fauci e si mise in quella che sembrò essere la sua posizione più minacciosa. Io stessa, pur sapendo di essere momentaneamente salva, mi trovai ad urlare talmente forte che come minimo anche Adam arrivò a sentirmi.
“Và via di lì!”.
Ma, quando quello di sinistra cercò di tirar fuori la pistola, un secondo lupo uscì dall’oscurità del bosco. Era nero, fatta eccezione per le zampe di un grigio perla mozzafiato, con occhi gialli come l’ambra, quasi tendenti all’arancione. Afferrò il braccio di quello che gli stava più vicino ed il resto accadde in un attimo.
Il lupo moro mi corse dietro e mi afferrò per il maglione, trascinandomi nel buio più totale alle mie spalle. Continuai a stringere con forza il borsone, più per paura che per altro, fino a quando –non senza un secondo urlo da parte mia- mi trovai sospesa nell’aria.
Stavamo saltando un dirupo profondo almeno diciotto metri e largo quattro come se per lui non fosse assolutamente nulla.
Il borsone mi cadde in avanti ma non ebbi tempo di cercarlo con lo sguardo che atterrammo dall’altra parte.
Il vento mi passava attorno al corpo ancora coperto e l’oscurità si faceva sempre più possente per i miei occhi. Ebbi paura di morire.
Poi, in un secondo salto, di molto più piccolo del primo, la mia testa andò a sbattere contro una roccia.
L’ultima cosa che sentii prima di svenire fu un dolore lancinante ed il fiotto caldo del sangue che scorreva. 
  
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