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Autore: Ink Voice    01/08/2015    6 recensioni
Come reagireste alla scoperta dell’esistenza di un mondo celato agli occhi della “gente comune”? Eleonora, credendosi parte di questa moltitudine indistinta di persone senza volto e senza destino, si domanderà per molto tempo il motivo per il quale sia stata catapultata in una realtà totalmente sconosciuta e anche piuttosto intimidatoria, che inizialmente le starà stretta e con la quale non saprà relazionarsi. Riuscirà a farci l’abitudine insieme alla sua compagna Chiara, che vivrà con lei quest’avventura, ma la ragazza non saprà di nascondere un segreto che va oltre la sua immaginazione e che la rende parte fondamentale di quest’universo nascosto e pieno di segreti. Ecco a voi l’inizio di tutto: la prima parte della serie Not the same story.
[RISTESURA+REVISIONE - Not the same story 1.2/3]
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Not the same story'
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I
Il quartiere nord

Chiara continuava imperterrita a strattonarmi malamente, piena di entusiasmo e adrenalina. «Senti, eh!» sbottai liberandomi il polso con un colpo deciso, tanto che lei si voltò sorpresa da quella reazione improvvisa. «Se continui così faccio dietrofront e torno a casa, non mi interessa se hai le allucinazioni o se ti hanno dato qualche sostanza poco leggera per pranzo.»
«Dai, va bene, scusami.» Alzò le mani come in un gesto di resa. «Non ti trascino più, ma seguimi veloce.»
«Chià, posso capire perché insisti tanto su questa storia?» domandai sempre più perplessa mentre, a passo di marcia, attraversavamo l’ennesima strada desolata. Nevepoli a fine estate era più deserta che mai e questa desolazione ci lasciava praticamente campo libero per gironzolare ovunque avessimo voluto, senza incappare in conoscenti sgraditi o amici ficcanaso, per esplorare e conoscere sempre più a fondo la nostra città.
«Tanto so che non mi crederai, quindi zitta e mosca, lo vedrai tra poco. Se continuiamo di questo passo… tra pochi minuti arriveremo!» esclamò saltellando per qualche metro in perfetto stile Heidi.
«Ma perché ne sei così convinta? È questo che non capisco…»
«Perché l’ho visto con questi occhi!» ribatté piuttosto seccata dal mio scetticismo, voltandosi e indicandosi gli occhi marroni, teatralmente spalancati. Sospirai rassegnata, decidendomi a perdere quella battaglia.
Alzai lo sguardo al cielo e lo vidi sporcato da qualche nuvoletta passeggera che non voleva rendere quella giornata perfettamente limpida. Si udiva il canto dei pettirossi che svolazzavano da una casa all’altra e che con ogni probabilità erano più numerosi degli stessi abitanti della città, che la abbandonavano più o meno lentamente. Vivere all’estremo nord di Sinnoh non era una cosa bella per tutti, che la consideravano una sfortuna anziché una caratteristica. I larghi viali di Nevepoli si alternavano a vicoletti pieni di neve che andava ad accumularsi a causa delle frequenti nevicate. Gli alberi stentavano ogni anno a lasciar nascere le proprie foglie per il freddo che erano costretti ad affrontare e sopportare. Per questi versi la mia era una città piuttosto triste, ma io stavo davvero bene. Avevo la mia migliore amica lì, tutti conoscevano tutti e ci si sentiva parte di una grande famiglia.
Per questo vedere un membro della propria famiglia impazzire all’improvviso mi straniva non poco e non riuscivo a smettere di chiedermi cosa fosse preso a Chiara. Controllai prima l’orologio - erano le quattro e tre quarti - e poi la via di fronte a noi, rischiando di andare a sbattere contro la mia guida. In realtà non ci fu alcun pericolo, perché mi bloccai molto prima, spalancando la bocca per lo stupore.
Fino al secondo precedente ero sicura di starmi dirigendo verso il Monte di Nevepoli - che pure a me dalla mia finestra era sembrato scomparso ma mi ostinavo a non crederci, inscalabile per le sue ripidissime pendici. Ora invece mi ritrovavo, insieme a Chiara, davanti un vialetto dal cancello nero semiaperto che poi si apriva su una grande piazza. In essa si intravedevano un paio di costruzioni - o forse solo una - e soprattutto tantissimi alberi. Il bianco della neve perfettamente liscia, distesa sul suolo, andava a confondersi con una nebbiolina densa che sfocava i contorni delle piante e degli edifici, che a questo punto potevano nascondere un’altra identità.
«Dov’è il Monte di Nevepoli?» chiesi con un filo di voce.
Chiara ridacchiò nervosamente per l’emozione. «Io te l’avevo detto.»
Qualche refolo di vento si insinuò tra i miei capelli, come al solito sciolti, e scivolò lungo la nuca per finire ad accarezzare sgradevolmente la mia schiena. Trasalii impercettibilmente, troppo sconcertata da ciò che stava succedendo: c’era qualcosa che non quadrava per niente e avevo un brutto presentimento. Non c’era una ragione che fosse una per pensare che il tutto fosse possibile da spiegare razionalmente, o almeno non la trovavo al momento. Ma tanto dovetti rinnovare ben presto il mio concetto di ‘razionale’.
Chiara mi diede una spintarella che sulle prime mi spaventò, ma poi capii che dovevamo muoverci. Mossi qualche passo incerta, andando per prima, e lei mi seguì. Ci addentrammo nel vialetto fiancheggiato da alberi più vivi e robusti di quelli incontrati fino ad allora e sbucammo in quella larghissima piazza: mi aspettavo di trovare tanti palazzi, magari anche giochi per bambini e giostre, ma invece era totalmente vuota, eccezion fatta per l’ombra di una bassa villetta sullo sfondo del paesaggio che si mostrava ai nostri occhi. Domandai a Chiara se per caso non mi avesse portata in qualche altro quartiere, anche se sapevo bene che nessuno era così vuoto e privo di qualsiasi tipo di costruzione. Lei me lo confermò e quindi riprendemmo a camminare.
Lo strato di neve era molto spesso, come se non fosse stata spalata da tempo: addirittura arrivava oltre le nostre ginocchia e questo ci fece proseguire molto lentamente, lasciandoci assaporare ogni momento dell’avventura che stavamo vivendo. C’era un silenzio talmente denso che mi pareva facesse pressione su ogni punto della nostra pelle, ogni tanto era interrotto da qualche verso di animali - per lo più uccelli - che non riconoscevo. La foschia si diradava poco a poco ad ogni passo mosso. Stringevo insicura la mano di Chiara, che si lasciava sfuggire qualche considerazione futile sul cielo coperto dalla nebbia e sull’atmosfera inquietante.
«Dà un po’ l’idea di essere in un film horror, nevvero?»
«Non sei molto d’aiuto, te lo dico con sincerità» mormorai ironica di rimando. Lei sbuffò.
«Oh, andiamo, quando qualcosa non ti torna sei sempre così poco disponibile a parlare! Faremo una scoperta eccezionale, il Monte di Nevepoli si è dissolto nel nulla e tu pensi a dirmi che…» Cercai di ignorare la parlantina della ragazza, ma non ci riuscii: la sua voce squillante, per niente attutita dal silenzio né dalla neve, mi entrava a forza nelle orecchie che volevano essere intente a captare altri suoni, che potessero aiutarci a capire qualcosa in più, magari. «Almeno fai finta, mi fai venire la depressiooooneee…»
Se solo lo strato di neve fosse stato più alto e non fosse stato così difficile piegarmi, in mancanza di un muro su cui sbattere la testa lo avrei fatto su quello. «Non faccio venire la depressione, sei tu quella poco seria…»
«E perché mai dovrei esserlo?!» squittì lei portandosi avanti a me nel giro di un secondo, mentre io avanzavo con grande fatica combattendo il muretto di neve, che a quanto pareva voleva mettermi fuori gioco.
Feci un sorriso volto a prenderla in giro. «Non so se te ne sei accorta, amica mia, ma guarda dove siamo!»
Finse di guardarsi attorno basita e io fui costretta a ridere, mentre la ringraziavo tra me e me per il suo star alleggerendo la tensione. «Vedi, mia cara? I tuoi occhi ti mostrano un paesaggio freddo e desolante, confinato da lugubri alberi sempreverdi ma tristemente malaticci e una fitta nebbia che non si trova nemmeno in Slender!»
La vidi sbiancare. Quel gioco la terrorizzava. «P… propr… proprio quello dovevi… andare a pescare tra tut… tutti gli altri?» balbettò, istantaneamente spaventata.
«Sì!» sorrisi. Poi le afferrai la mano e iniziai a fare strada, capendo che i ruoli si erano ribaltati.
Stare con qualcun altro, indipendentemente da chi questi fosse, mi infondeva sicurezza. Chiara era disposta a scherzare e quindi anche io lo avrei fatto senza problemi, subito dopo essermi abituata al clima che lei voleva creare, pur sapendo che la situazione era tutt’altro che normale. La conoscevo abbastanza bene per capire che non era poi tanto tranquilla e per questo cercava di giocare, per allentare una forte tensione.
Il cuore mi batteva forte nel petto. Cosa ci stava aspettando? Non ero tanto sicura di volerlo sapere, però la mia - anzi, nostra curiosità avrebbe avuto la meglio anche in quell’occasione.
Per questo nel giro di qualche minuto, affrettando il passo, arrivammo al dunque e ci ritrovammo a fronteggiare i due edificiche avevamo scorto già da prima in lontananza. Una era una strana costruzione ingrigita, prevalentemente metallica e vitrea, che affiorava dalla neve a pochi metri di altezza. Il soffitto infatti era basso e la porta a vetri affatto trasparente era quasi per metà sepolta sotto lo strato glaciale. C’era un accumulo di biancore lì che arrivava a sfiorarci il mento, segno inequivocabile che nessuno passasse di là da moltissimo tempo, altrimenti sarebbe stato un po’ più basso. Non era nemmeno stato spazzato dal vento, che avrebbe ridotto lo spessore della neve proprio come era successo sul resto del vialone. Era inverosimile. C’era un cartello sbiadito e quasi illeggibile che si intravedeva appena, seppellito anch’esso. Chiara si apprestava a leggerlo ad alta voce mentre io studiavo la facciata dell’edificio, cercando qualche informazione.
«Va be’, a parte che non si legge quasi nulla, tu hai idea di cosa sia questa cosa?» chiese, strizzando gli occhi per mettere a fuoco, ben sapendo che quello non l’avrebbe aiutata.
«Per niente» borbottai. «C’è una specie di logo, però. È una sfera divisa a metà e al centro ha un altro cerchio piuttosto piccolo, ma non so proprio cosa possa indicare. Hai capito cosa c’è scritto lì?»
«Mmh… penso di sì, ma mi pare strano…»
«Perché, che dice?»
«Se gli occhi non mi ingannano, qui c’è scritto “Palestra”.»
Inclinai la testa di lato, dubbiosa. «E che roba è? Insomma, che ci fa una palestra qui?»
«Ma che ne so io! Se non mi credi, vieni a vedere.»
«Ti credo, eh. Però non mi pare normale che ci sia una palestra in una zona simile. Anzi, nemmeno credevo che ci fosse un qualche edificio qua, sarebbe stato più normale un luogo assolutamente deserto.»
«Sì, ovvio, ma fatto sta che si tratta proprio di una gym» se ne uscì senza motivo con il suo misero inglese. «E ci manca l’altro palazzo da guardare.»
Annuendo la seguii mentre si avviava autonomamente verso l’altra costruzione. Aveva un’antica facciata, grigia non per il tempo ma di natura. Sembrava fatta di marmo sporco, scuro; le sei colonne che si paravano davanti l’ingresso torreggiavano minacciose sulle loro solide basi, sfiorate appena dalla neve, che intanto aveva fatto sparire quella che doveva essere la scalinata d’accesso. Una sontuosa porta doveva essere stata molto resistente in tutti quegli anni poiché il legno, un po’ rinforzato da qualche parte in metallo, era assolutamente immacolato. Peccato che fosse sprangata da numerose assi di legno inchiodate malamente sulla pietra, come se chi le avesse messe fosse stato di fretta. E c’era anche un breve messaggio infraintedibile  che era stato inciso sul legno della trave orizzontale passante per la metà del portone.
“Vietato l’accesso”.
Questo non fece altro che stuzzicare la nostra curiosità. Mi scambiai un’occhiata d’intesa con Chiara e ci avvicinammo, sperando di trovare qualche spiraglio per osservare l’interno. Però lei mi fece notare qualcosa.
Spostò con un piede, suo malgrado piuttosto tremante, un pezzo di un’asse che si trovava per terra. Ce ne erano anche altre, tutte spezzate in numerosi punti e ammuffite. C’era qualche chiodo conficcato nel muro che in effetti sorreggeva il nulla, osservando con più attenzione lo notammo. Ero abbastanza sicura che non fosse un buon segno, il vento non poteva fare nulla del genere per quanto forte fosse; e poi, se anche avesse strappato le assi dai loro chiodi, non avrebbe potuto ridurle in uno stato tanto rosicchiato e scheggiato.
«Qualcuno è stato qui» Chiara espresse verbalmente i miei pensieri.
«Non molto tempo fa» aggiunsi a bassa voce, completando l’inquietante frase. Ci guardammo un’altra volta, più preoccupate però. Le chiesi, mentre mi chinavo a terra a toccare il freddo legno: «Ma come hanno fatto ad arrivare qui? C’è il Monte di Nevepoli… o meglio, c’era. Credevo fossimo le prime ad arrivare qui.»
«E se qualcuno fosse venuto poco prima di noi? Magari è ancora qui nei paraggi. Potremmo controllare nella palestra!» esclamò lei. La teoria non mi pareva molto convincente, ma cercai di farmi rassicurare da essa.
«Se è aperta, proviamo ad entrare» mormorai, alzandomi e seguendola mentre zompettava nella neve e in pochi secondi arrivava davanti all’altro edificio. Quando la raggiunsi mi beccai parecchia neve addosso perché lei la stava spalando via con le sue mani, molto poco alla volta. Stavo per aiutarla, ma sentii uno strano fruscio alle nostre spalle, quindi mi voltai temendo che ci fosse qualcun altro. Avevo ragione.
Eravamo state raggiunte da una giovane donna. I lunghi capelli di uno strano ma molto bello turchese scuro erano raccolti in una treccia. Era avvolta in un semplice cappotto lungo fino alle ginocchia e la sua altezza mi consentì di vedere che da lì in giù le sue gambe erano nude: avevo freddo solo a guardarla, anche se avevo una maglietta a maniche corte mi ero degnata di indossare dei pantaloni lunghi. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi, visibilmente stretti nonostante la grossa giacca impermeabile. I suoi occhi erano spaventatissimi e si vedeva anche da una distanza di qualche metro. Prese a tremare, diventando di secondo in secondo sempre più pallida. Sulle prime pensai al freddo, ma quella reazione era di paura.
Prima che potesse aprire bocca diedi una gomitata a Chiara, che brontolando qualche frase poco significativa si girò, notando che qualcosa non andava. Spalancò gli occhi alla vista della nuova arrivata proprio come io avevo fatto, per poi tranquillizzarmi un pochino. “Ridotta in questo stato non può essere pericolosa o altro” pensai, giudicandola totalmente innocua. Presi la parola per prima. «Chi sei?»
La donna ignorò la mia semplice domanda e ce ne rivolse un’altra, con un filo di voce: «Cosa ci fate qui…?»
Chiara mi lanciò un’occhiata eloquente e decisi di lasciarla proseguire: era più convincente e spigliata di me quando si trattava di parlare con estranei. «In realtà potremmo chiederti la stessa cosa, e comunque non lo sappiamo. Tu sai qualcosa su questo posto?» chiese in maniera molto informale.
«Che significa che non lo sapete?» Un’altra questione a cui non avremmo risposto, chiaramente, a causa della nostra diffidenza. La donna si avvicinò con velocità inaspettata, a suo agio anche nella neve.
«Senti, oh!» si scaldò la mia compagna. Le diedi una spintarella per farla calmare, ma inutilmente. «Ti ho già detto che non lo sappiamo, non è che c’è un qualche significato nascosto, eh. Le domande le stavamo facendo noi, comunque, se rispondessi ci illumineresti un pochino e noi te ne saremmo grate, ecco!»
«Voi non dovreste essere qui» mormorò l’altra imperterrita quando ormai eravamo a due passi di distanza. Era piuttosto bella, da giovane - era sui trent’anni - doveva essere stata molto carina. I grandi occhi blu erano vitrei, spenti e ancora spaventati per un motivo a noi sconosciuto. Sospirai ed evitai che Chiara peggiorasse le cose. Avevo l’impressione che se si fosse arrabbiata avrebbe mostrato un lato molto più forte e non così inoffensivo.
«Sì, probabilmente non dovremmo, abbiamo scoperto questo posto in circostanze inaspettate» confermai, sperando che un po’ di sincerità non guastasse. «Non lo avevamo mai visto prima e quindi siamo venute a vedere. Potresti dirci almeno il tuo nome? Io…» esitai un po’ prima di presentarci. Con un semplice sguardo chiesi a Chiara se non fosse il caso di rivelarle i nostri nomi e lei fece spallucce come a dire che non cambiava nulla per lei, quindi provai: «Io mi chiamo Eleonora. Lei invece è Chiara.»
«Eleonora e Chiara» ripeté lei abbassando un po’ la testa. Spalancò gli occhi per un secondo finché essi non ripresero la loro forma normale. Con voce ancora più tremante disse: «Sono Bianca. Ora, per favore, andatevene.»
«Cosa?» esclamò la mia amica perplessa. «Perché dobbiamo andarcene…?»
«Non è mia facoltà spiegarvelo. Andate via senza dire nulla di quello che avete visto oggi» ribatté Bianca.
«Ma…! Abbiamo scoperto il quartiere nord, che è comparso al posto del Monte di Nevepoli! Ora che storia è questa? Vogliamo saperne di più!» Ah, Chiara e il suo caratterino. Un’accoppiata scoppiettante.
Bianca parve digrignare i denti, anche questo per poco più di un secondo. La guardavo attentamente. Volevo capire qualcosa in più su tutto quello proprio come Chiara e stranamente non mi sentivo un’intrusa in quel posto, che sembrava essere proprietà privata. Non ci stavo capendo più nulla e la cosa non mi piaceva.
«Non puoi dirci proprio nulla…?» chiesi cercando di essere dolce e mettendoci tutto il tatto che possedevo, anche se dopo qualche altra battuta del genere mi sarei innervosita allo stesso modo della mia amica.
«No» controbatté freddamente la donna, avvicinandosi in maniera piuttosto minacciosa. Un cambio repentino di espressione e atteggiamento consigliarono sia a me che a Chiara di darcela a gambe. «I vostri genitori devono essere preoccupati per la vostra assenza.»
La mia compare era lì lì per rispondere per le rime, ma le presi una mano e mi arresi: Bianca non era affatto disposta al dialogo e continuare non sarebbe servito a nulla. Stava per farci vedere il lato temibile di lei e non ero sicura di voler scoprire una parte di lei meno innocua e priva di forze come mi era parsa all’inizio.
«Togliamo il disturbo» dissi, rivolta più a Chiara che all’altra. La superammo in silenzio e lei si voltò per non darci le spalle: sentii i suoi occhi vitrei, un momento arrabbiati e quello subito dopo spenti e privi di alcuna emozione sulla mia schiena, finché non uscimmo dal quartiere nord - o qualunque cosa esso fosse.
«Ma ti pare normale il comportamento di quella lì?!» strepitò lei appena mettemmo piede sul suolo della città a noi conosciuta. «E poi che razza di capelli aveva?»
«Chià, io non trovo una cosa che fosse una normale nell’intera faccenda, figuriamoci» sospirai.
«Be’, che tutta la situazione fosse strana era… cristallino. Adesso che facciamo?»
Feci spallucce. «Già che ci siamo, andiamo un po’ in giro. Magari al Lago.»
«Ma sì, dai!»
Il Lago era uno dei nostri posti preferiti. Era molto vicino a Nevepoli e, checché ne dicessero molti, era facile accedervi se si era una ragazzina fin troppo curiosa, abbastanza agile o comunque pronta ad arrampicarsi su una parete di roccia che ormai si conosceva come le proprie tasche, con tutte le sue sporgenze e i punti su cui appoggiarsi. Di rado ci eravamo fatte più male del dovuto, qualche livido sparso per il corpo erano i danni più ingenti fino ad allora riportati; di solito ci graffiavamo o poco più, la neve impediva ogni colpo più duro.
Perciò lunga vita al Lago Arguzia!, al quale eravamo arrivate molto presto, continuando a fare congetture su chi potesse essere quella Bianca e che razza di posto fosse quello in cui ci eravamo trovate. Il quartiere nord non era scomparso quando ne eravamo uscite: avrei ritenuto il tutto meno strano se esso si fosse dissolto nel nulla, perché il paranormale in quel momento mi sembrava il modo più plausibile per spiegarsi la nascita di un quartiere mai visto prima.
«I quartieri vengon fuori come funghetti d’autunno» canticchiò Chiara.
Ridacchiai, più spensierata e tranquilla ora che non eravamo in città. «Inoltre vorremmo presentarvi la nuova moda autunno-inverno di quest’anno: abitate in una città che non a caso è definita “delle nevi perenni”? Allora la nostra linea di moda è quella che fa per voi! Vestitevi con uno dei nostri eccezionali impermeabili scoloriti e con un paio di stivaletti primaverili, per il resto camminate pure nella neve senza macchia e senza paura con le gambe praticamente nude! Bando alle calze e ai pantaloni!»
Chiara si stava sbellicando dalle risate. Aveva capito che la mia scenetta si riferiva a Bianca e al suo vestiario fuori luogo, troppo leggero - salvo l’impermeabile - per una città rigida come Nevepoli, la cui temperatura non superava i venticinque gradi nemmeno durante il dì in estate.
«Quella è fuori di testa… oltre che parecchio masochista!» esclamò.
«L’unica cosa che vorrei dimenticare è proprio quella Bianca. Adesso forse sapremmo cosa diavolo nasconde quel quartiere nord, sono sicura che c’è sotto qualcosa… se solo non fosse arrivata lei!» protestai, inaspettatamente anche per me, che pensavo fino al momento prima di mettere una pietra sopra a quell’evento.
Persino Chiara si sorprese: mi lanciò un’occhiatina maliziosa ma non aggiunse altro. Eravamo ormai sopra la parete di roccia a noi tanto familiare e semplice da scalare, sedute nella neve in attesa che arrivasse la voglia di alzarci e varcare l’entrata fiancheggiata da abeti del Lago. Il consumato pannello di legno, che riportava in scala la cartina di esso e lasciava un bel po’ di informazioni e curiosità ai visitatori, recitava con le sue lettere consumate da neve e pioggia: “Lago Arguzia - Aperto ai visitatori nei mesi invernali e primaverili”.
Già, le visite erano accettate solo in inverno, quando le rive tendevano a ghiacciarsi e tutto era ricoperto della neve migliore che il periodo dell’anno potesse offrire. Inverno e primavera erano le stagioni in cui il Lago dava il meglio di sé. Non che durante le altre due esso fosse chiuso, o meglio, in teoria doveva esserlo; ma ormai io e Chià eravamo diventate amiche della guardia forestale adetta a quella zona, a forza di andare in quel bel posticino.
A proposito della guardia, stranamente non c’era. Di solito ci teneva compagnia per i primi cinque minuti della nostra visita abituale; era un uomo simpatico che di lì a pochi anni sarebbe stato mandato in pensione. Chiara non parve accorgersi della sua assenza. «Aah, che pace!» cantilenò, evitando di muoversi con leggadria, perché la neve avrebbe reso vani i suoi tentativi e probabilmente sarebbe caduta a faccia in giù in essa.
Mi guardai intorno. Non tirava un filo di vento, le acque del Lago erano immobili e si intravedeva, avvolto in una tenue nebbiolina azzurrognola, l’isolotto al centro di esso, perennemente disabitato. Gli alberi attirarono la mia attenzione, mentre Chiara si era ormai inginocchiata nella neve facendo qualche stupido disegnino con le dita.
«Sembrano un po’ malati gli abeti, vero?» le chiesi, cercando di attirare la sua attenzione.
Immediatamente alzò lo sguardo e studiò le piante. Il colore dei rametti rivestiti di aghi, che poi erano le loro foglie, parevano scoloriti, ma la maggior parte di essi era di uno sgradevole marroncino spento. Molti erano caduti a terra, anche la corteccia degli alberi era addirittura saltata in non pochi punti, graffiata via e scaraventata nella neve. I frammenti di essa affioravano in mezzo alla distesa bianca che, mano a mano che ci si avvicinava alle rive del Lago, andava facendosi meno spessa. Chiara aveva studiato abbastanza a lungo gli alberi.
«Hai ragione. Sembrano secchi» disse a bassa voce.
No, non lo sembravano. Lo erano. Mi avvicinai ad essi e staccai un rametto, che si sgretolò nella mia mano non appena si poggiò delicatamente, sul serio delicatamente, sul mio palmo. Mi ritrovai quindi con un mucchietto di quella che pareva cenere e che non era marroncina, ma grigia. Il problema però era perché la cenere, non il suo colore. Con voce tremante chiesi a Chiara di prenderne uno e il rametto da lei staccato si polverizzò esattamente allo stesso modo. Ci guardammo, io silenziosamente interdetta, lei a bocca aperta.
«Che razza di malattia è questa?!»
«Non lo so.» Avevo una strana sensazione d’inquietudine. Sentivo che gli abeti malati e il quartiere nord erano in qualche modo collegati tra loro, anche se non sapevo dire come.
«Però…» La voce acuita dall’ansia di Chiara mi risvegliò dai miei pensieri. «Sembra che ne stiano piantando degli altri. Forse vogliono sostituire gli abeti malati, ma boh, io non mi intendo di queste cose.»
Nemmeno io se per questo. Seguii la direzione indicata dal suo dito indice, puntato verso dei piccolissimi abeti che quasi si confondevano con i cespugli, o con uno strano tipo di erba verde e altissima, tanto da affiorare dalla neve per arrivare oltre i nostri fianchi. «Non saprei, può darsi» mormorai.
Non ci intendevamo per niente di botanica, per questo le nostre proposte erano assolutamente ingenue e chiunque avrebbe potuto facilmente smontare le nostre supposizioni, affermando per esempio che era rischioso piantare delle nuove piante in un terreno su cui si trovavano alberi malati. Gli abeti di cui parlava Chiara affioravano da quella strana, viva erba alta che pareva frusciare senza l’ausilio del vento. Le punte erano coperte di neve ed erano tutti così uguali e ben fatti, dritti, che parevano essere usciti dal disegno di qualcuno che ancora ne aveva di strada da fare per rappresentare la vera realtà. In silenzio osservammo quei piccoli alberelli.
Qualcosa si ruppe nell’equilibrio della situazione quando essi si mossero. Spalancai gli occhi e un mugolio di Chiara mi confermò che anche lei stava assistendo a quella scena. Non soffiava il vento in quella giornata estiva e non era comunque normale che quei piccoli, strani, innaturali abeti girassero su sé stessi, che si alzassero o si abbassassero immergendosi nel mare di vivida erba alta per poi riaffiorare in superficie con le punte.
«Cosa diavolo sta succedendo?» mormorai, indietreggiando.
Chiara non rispose ma la seguii mentre si avviava, camminando all’indietro, verso l’uscita dalla zona del Lago Arguzia. La nostra inguaribile, pericolosa curiosità ci impose di non andare via subito e di osservare lo spettacolo che si stava delineando davanti ai nostri occhi, di capire qualche cosa di più su quell’assurda situazione.
Quegli abeti animati uscirono dalle fronde e si mostrarono a noi come delle creature uscite fuori dalla mente di un mangaka che aveva voglia di divertirsi. La punta della testa, unita al corpo senza un collo, era coperta di neve e un paio di occhietti neri, cattivi, brillavano poco più giù; scendendo ancora si aveva un largo corpo panciuto e due zampette che a malapena sorreggevano il peso di quelle cose, vagamente somiglianti a radici. A completare il tutto c’erano le braccia che finivano con un mazzetto di rametti d’abete al posto delle “mani”.
Non sapevo cosa pensare. Era tutto troppo inverosimile per essere la realtà. Mi dissi che stavo sognando, che i quartieri di una città non compaiono all’improvviso insieme a degli abeti bipedi che guardano male chiunque gli capiti a tiro. Purtroppo le uniche presenti eravamo io e Chiara. Il cuore mi batteva all’impazzata ed ero incredula oltre che basita. Mi pareva di sentire il terrorizzato battere dei denti della mia compagna, che stranamente aveva perso l’uso della voce. Di solito era impossibile zittirla, ma un evento del genere doveva rendere innocua anche la sua perpetua chiacchiera. Niente era chiaro in quel momento, avevo bisogno di una spiegazione razionale.
Fui io a parlare. «Forse c’è qualcuno nascosto dentro di loro. Magari sono costumi.»
«Non dire…» Chiara pronunciò qualche parola volgare per sfogarsi come faceva di solito. Era fatta così.
«Sto solo cercando di capire cosa ci sta succedendo.»
Nemmeno feci in tempo a finire la frase che quei ridicoli esseri lanciarono un acuto grido che ci fece trasalire. Puntarono le corte braccine contro di noi e spalancai gli occhi alla vista di schegge di ghiaccio, cristallizzatesi forse nell’aria, comparire da un momento all’altro sopra le loro teste e dirigersi verso le nostre. Mentre mi abbassavo con uno scatto repentino, strattonai Chiara e anche lei riuscì a non essere trafitta. Le mozzarono una ciocca dei suoi capelli neri che si adagiò sulla neve, spiccando in maniera inquietante.
Una creatura ritentò e mirò a me. Non so per quale miracolo riuscii a cavarmela, ma strillai più per la sorpresa che per il dolore quando sentii un fastidio graffiante sul braccio. Una lancia di ghiaccio era riuscita a prendermi lì, aveva tagliato superficialmente la pelle. Non faceva granché male ma già sanguinava.
«Stai bene?!» gridò Chiara. Le lanciai una veloce occhiata senza risponderle mentre mi sedevo addosso a un albero vicino a me: era terrorizzata, forse più della sottoscritta. Forse aveva paura che la prossima scheggia, diretta verso di lei, non l’avrebbe presa di striscio come era fortunatamente successo a me.
Ma il successivo attacco fu impedito da una forza esterna, intervenuta proprio nel momento giusto. Un essere sconosciuto, un altro, entrò in scena e si frappose tra noi due e quei mostriciattoli: era una figura che in quel momento non riuscivo a descrivere, forse umanoide, ma quando dopo si voltò verso di noi notai dei tratti felini sul muso. Il colore prevalente nel suo corpo snello e rapido era un blu scuro; aveva una specie di cresta magenta sul capo e una piccola coda dello stesso colore.
Altri dettagli che non memorizzai si confusero quando scattò, era velocissimo: parve tagliare orizzontalmente l’aria avanti a sé con gli artigli acuminati che possedeva e un’ondata nera si propagò da quello squarcio invisibile. Distrusse ogni scheggia di ghiaccio sotto gli occhi sconvolti di me e Chiara.
Ripeté la stessa azione più volte, un po’ per parare i colpi e un po’ per colpire i nemici con quei graffi che, forse era una mia impressione, lasciavano una scia nera laddove tracciavano un solco nell’aria o sui corpi di quei mostri. Cadevano a terra all’istante uno dopo l’altro, non riuscendo a resistere agli attacchi di quella creatura salvatrice. I colpi che dava non li graffiavano a fondo: sembrava che non li ricevessero nemmeno. Ma a giudicare dai rumori prodotti dall’incontro di “corteccia” e artigli dovevano essere sufficienti per mandarli al tappeto.
L’ultimo lamento del sesto abete animato si estinse nell’aria immobile. Io e Chiara non osavamo proferir parola, troppo scioccate dal breve combattimento che si era avuto nell’ultimo minuto.
L’essere si voltò verso di noi. Dapprima ci scrutò diffidente con i suoi intelligenti occhi scuri, poi però arricciò le labbra e riuscimmo a intravedere qualche dente acuminato, minaccioso. La sua arma peggiore però restavano gli artigli: erano due o tre per zampa, dalla forma piuttosto rozza, ma comunque promettenti grande dolore. Ringhiò qualcosa ma sembrava comunque amichevole, nonostante il ghigno.
«Weavile, ritorna.»
Un lampo di luce rossa accompagnò il suono emesso da quella voce femminile. Andò a toccare quell’essere, che a quanto pareva doveva chiamarsi Weavile; si illuminò anch’esso di quella luce rossa e poi si dissolse nel nulla.
Mi voltai lentamente, lo stesso fece Chiara. Bianca stava ritta in piedi in mezzo alla neve, il suo sguardo non era più vitreo ma determinato e freddo. Teneva in mano una sfera semichiusa bianca e rossa; riuscii a vedere un frammento del lampo di luce rocca sparire all’interno di essa, che si richiuse definitivamente.
Un bottoncino grigio spiccava in mezzo ai colori vivaci di quella palla piccola, traslucida. Capii che quella cosa era la stessa rappresentata nel logo della Palestra.
Bianca infilò una mano in tasca e sospirò, guardandoci con una strana, al momento incomprensibile mestizia. «Si era capito che il vostro arrivo sarebbe stato inevitabile.»






Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Ecco alcune note/spiegazioni:
- Personaggi: la maggior parte dei personaggi rilevanti e degli amici della protagonista sono inventati. Anche il bamboccio (?) comparso nella videochiamata a Cyrus del prologo è originale. Comunque ci saranno più o meno tutti, morti o vivi :P, i personaggi del videogioco e alcuni del manga, ma faccio riferimento prevalentemente al primo e lo mescolo con qualcosa che mi piace del secondo - i giochi li ho come minimo provati quasi tutti, con il manga mi sono fermata a Emerald, cioè lo dovrei ancora iniziare, ma non credo di andare avanti per parecchio tempo almeno… Cosa importante dei personaggi è che la futura combriccola della protagonista è composta da personaggi ispirati ai miei primi, grandi amici conosciuti sulla piattaforma forumfree - tutti loro sono quelli a cui è dedicata la mia one shot “PokémonRainbowWorld”. Chiara quindi, come avrete notato dalla descrizione fisica, non è la Capopalestra - ci mancherebbe, mi sta pure sui cosiddetti quella. Gli altri ve li presenterò (?) man mano. Poi alla protagonista ho dato il mio nome. Non è pigrizia la mia, vi prego di credermi!: un motivo se ho ficcato praticamente me stessa in una storia c’è e lo dirò… non lo so. Con ogni probabilità a storia finita perché mi piace lasciare un senso di suspence. Vi basti sapere che volevo vivere un’avventura fuori dal “mondo reale” anche io. 
- Contesto spazio-temporale (è troppo forte dirlo): la storia si ambienta parecchi anni dopo gli avvenimenti dei videogiochi. Più avanti - spero non direttamente nella seconda parte lol - saprete quanti ne sono passati con esattezza, ma personaggi già anziani, se non saranno risparmiati alla morte da vecchiaia (:P), saranno abbastanza decrepiti e con un piede nella fossa. Altri, come Bianca, che erano ragazzini sono ormai uomini e donne abbastanza maturi. Lo spazio rimane quello conosciuto, quindi le sei regioni classiche e se malauguratamente (!) dovesse uscire una nuova generazione che si porta appresso un’altra regione… ehm… me ne fregherò abbastanza. In ogni caso dubito di aggiungere nuovi luoghi a questo mondo, a meno che nella terza parte non mi si presenti l’occasione, ma la vedo molto difficile. Non ci saranno, insieme alle regioni Pokémon, Stati e continenti del mondo reale.
- Genere slice of life: no, questo ve lo spiego nel prossimo angolo. Ahahaha 

Comunque. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, nel prossimo si capiscono un po' di cose. Come inizio è un po' lento, forse, soprattutto rispetto alla prima versione di questa parte, però non avevo proprio voglia di fare 3 primi capitoli in cui succede tutto di fretta. Me la prendo con più calma pure per rendere tutto abbastanza realistico, in particolare le emozioni provate dalle due protagoniste. Va be', secondo me è giusto fare così, poi giudicherete anche voi. :P
A sabato prossimo, dunque!
Ink
  
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