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Autore: lulida    05/08/2015    2 recensioni
Coralline è cresciuta in una famiglia agiata, nella zona ricca di Manhattan, suo padre, uno degli avvocati più famosi di New York, discende dal conte di Essex, Thomas Cromwell.
La sua, una vita che poteva svolgersi solo in salita, eppure contrariamente a tutto ciò che era predestinato per lei, sceglie di abbandonare la casa paterna ed inseguire il sogno di divenire artista.
Dietro questa scelta, c'è un dolore che rifiuta d'accettare.
L'uomo che amava, l'ha ferita nel peggiore dei modi, tradendola con sua sorella.
Questo ha creato in Cora una sorta di rigetto verso gli affetti troppo profondi e un bisogno di tenere a debita distanza chiunque abbia il potere di farle battere il cuore.
Non le risulta un problema, fin quando non rientra nella sua vita, proprio l'uomo che l'ha distrutta.
Adesso Jared è un attore di successo e una rock star, è ricco, sempre bellissimo, forse più di allora e si diverte a provocarla, ma lei non è disposta a cadere nuovamente nella sua rete per niente al mondo e combatte strenuamente per non cedere, dando avvio a una serie di fraintendimenti, rivelazioni e bizzarre situazioni, che la costringeranno a prendere una decisone una volta per tutte.
Genere: Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                            Arrivo a Los Angeles




«Cora?...»
Con sollievo si voltò in direzione della voce sconosciuta che aveva appena pronunciato il suo nome.
Aveva temuto che individuare l'assistente di Jared nel caos dell'aeroporto, potesse trasformarsi in una caccia al tesoro. Fortunatamente non era stato così.
«Shayla?»
La bionda le porse la mano che lei strinse energicamente.
«È un piacere conoscerti. Spero tu abbia fatto buon viaggio».
«Sì e no», sorrise.
«Vieni, ti aiuto con le valige», disse l'altra con cortesia spingendo il carrello colmo di bagagli e guidandola verso l'uscita del terminal.
Appena le porte scorrevoli si aprirono e si ritrovò all'esterno, Cora venne investita da una risacca di onde sonore, odori, ed effetti cromatici.
In un cielo azzurro e limpido, apparvero le enormi superfici riflettenti degli edifici, abbacinanti sotto il sole californiano.
«Sei già stata a Los Angeles prima di adesso?», le domandò l'assistente, appena si accomodarono in macchina.
Cora rilassandosi contro il seggiolino, chiuse gli occhi per un'istante: «Un po' di anni fa. Ricordo poco e nulla».
In verità ricordava di non averla molto amata.
Tutto troppo influenzato da Hollywood, che raccontava se stessa attraverso la vita delle persone che in essa vivevano.
Al di là dei numeri del bilancio, i milioni di fatturato o gli utili prima delle tasse, Los Angeles era una città che si guardava vivere, come se assistesse a un film proiettato attraverso uno specchio. 
Dietro il nulla, davanti il vuoto.
L'altra cautamente si immise nel traffico, e pronunciò un'inoppugnabile verità che neppure Cora potè negare.
«Fa molto più caldo che a New York».
«La cosa non mi dispiace affatto».
Inclinò un po' il capo per godere del raggio di sole attraverso il vetro del finestrino, e guardò le abitazioni scorrere velocemente davanti ai suoi occhi.
Al contrario di New York, che tendeva a emarginare la povertà ai limiti, a Los Angeles, erano i ricchi a prendere le distanze dalla città, e più si allontanavano dal centro, più il lusso diveniva evidente. 
Allungò le gambe, cercando di sciogliere i muscoli intorpiditi dalla lunga immobilità.
«Non manca molto» le sorrise l'assistente studiando i suoi movimenti «Vuoi ascoltare un po' di musica per ingannare il tempo?».
Cora scosse la testa, e l'altra abbandonò sul cruscotto il telecomando dell'autoradio che aveva già preso in mano.
Imboccarono una strada secondaria, stretta e tortuosa che conduceva alla sommità di una collina. Con una rapida manovra, la bionda s’infilò dentro un cancello in ferro battuto aperto a metà, e  fermò l’automobile nel parcheggio privato. 
Cora scese dal veicolo scorgendo Shannon in fondo al viale che, allargando le braccia pronte ad accoglierla le si fece incontro.
«Benvenuta» la strinse brevemente «Fatto buon viaggio?».
Ripensò ai turisti che le avevano impedito di chiudere occhio tutto il tempo, e scosse la testa. 
«Un po' animato, ma lasciamo perdere. L'importante è essere qui».
Si guardò intorno.
«L’esterno è veramente splendido», disse con sincera ammirazione.
«La villa è rimasta disabitata per molti anni» le spiegò mentre faceva strada verso l'ingresso «Ci sono ancora dei lavori in corso, ma quest'ala dell'edificio è fortunatamente terminata».
Le aprì la porta e si fece da parte per lasciarla entrare.
L'interno ricordava le grandi case messicane: pareti in calce, travi in legno, cotto e pavimenti dai motivi vivaci.
«Ti mostro la tua camera, così ti metti comoda», le disse salendo i primi gradini della scala a chiocciola.
«Sarai stanca», aggiunse scompigliandole i capelli.
«Un po'», rispose lei continuando curiosa a guardarsi intorno.
«Per oggi prendila con calma, riposati, fai un giro della casa, ambientati…».
La guidò in un lungo corridoio pieno di opere d'arte appese alle pareti.
Cora cercava di non perdere nessun particolare, finché senza rendersene conto, rallentò il passo.
Accorgendosi che era rimasta indietro, Shan diminuì l'andatura a sua volta: «Molte tele sono state messe all'asta insieme alla casa. Non tutte le ha scelte Jared».
«Neo impressionismo cubista, primi anni settanta», disse lei puntando gli occhi su una tela.
Shan fece qualche passo in avanti e aprì una porta, rimanendo sulla soglia.
«Se lo dici tu mi fido. La tua camera è di qua.» indicò con un ampio gesto del braccio.
Cora entrò nella stanza dall'aspetto confortevole. Oltre il comodo letto, una poltrona e un piccolo scrittoio, c'era una grande portafinestra dalla quale si intravedeva il giardino.
Shan indicò un’altra porta: «Il bagno».
Interessata molto più al panorama, Cora fece scorrere la vetrata e uscì all'esterno, in una terrazza che si affacciava sulla piscina naturale a forma di laghetto.
«Per il momento» disse Shan arrivato a suo fianco «Credo d'averti detto tutto». Guardò per un istante il ragazzo che aveva appena portato le valige e poi tornò a rivolgersi a lei «Ti lascio disfare i bagagli e mentre ordini le tue cose, ne approfitto per sbrigare un impegno di lavoro. Qualunque cosa ti serva, chiedi pure a Shayla o a chi trovi in giro per casa».
Cora staccò gli occhi dal panorama per indirizzarli sull'amico.
«E Jared?».
Shan si limitò a rilevarne l'espressione mentre pronunciava il nome del fratello.
«Non tornerà prima di stasera».
Per alcuni secondi Cora rimase in silenzio, poi tornò a guardare in direzione del giardino, scura in volto. 
«Bene», disse con piglio sicuro.
Shan abbassò fugacemente lo sguardo e consultò l'orologio con una rapida occhiata.
«Devo proprio andare... Torno da te il prima possibile, mi raccomando fa la brava durante la mia assenza».
«Tranquillo, darò solo fuoco alla casa».
Lui la guardò torvo e lei fece una piccola smorfia.
«Avanti. Togliti dai piedi».
Qualche minuto dopo che fu uscito, Cora si trascinò lentamente nella stanza, scalciò le scarpe e sedette sul letto.
Rimase immobile per qualche secondo: sentiva dolorante ogni singola parte del corpo, e non si sarebbe voluta muovere dal letto per le successive ventiquattro ore. 
Invece con un sospiro guardò le valigie. 
Si alzò seppur controvoglia, ne estrasse un pantalone e una maglia, e si diresse in bagno. 
Uscì dalla vasca soltanto quando fu completamente rilassata, e pronta a mandare definitivamente al diavolo la donna sofisticata partita quella mattina da Manhattan: senza trucco, vestita semplicemente, con i capelli raccolti, si sentì finalmente a suo agio.
In attesa tornasse Shan, decise di vagare senza meta per la casa. 
Percorse i corridoi, entrò nelle stanze, trovò i passaggi della vita di Jared; una vita impigliata, sospesa nella penombra, nel silenzio della casa vuota, negli odori assenti, negli oggetti quotidiani.
Ovunque riecheggiava la disperata vanità degli oggetti: le “cose” erano lì a parlarle dell'effimera esistenza che lui stava conducendo in quegli ultimi anni. Cora ebbe l'impressione più che mai, che Jay si fosse dimenticato chi era stato, da dove era partito, e quindi alla fine il vero se stesso.
A ogni passo che la ragazza percorreva, sentiva le sarebbe stato impossibile relazionarsi con lui. Questa sensazione non aveva a che fare con il passato che avevano condiviso, e che ormai rappresentava solo l'epilogo di qualcosa che era andato irrimediabilmente perso.
Affondava al contrario, nella contemporaneità. In una nuova distanza tra loro.
Vagando, si ritrovò al laghetto che da subito aveva attirato la sua attenzione.
Rimase lì, all'ombra di un albero, pensando quanto lontano fosse arrivato quel ragazzo che alle prime esibizioni aveva sì e no venti persone che lo andavano ad ascoltare.
Nonostante questo Jared non si era mai perso d'animo, e cantava per quei venti come fossero stati duemila, con la stessa grinta, con la stessa voglia di dare il massimo. Doveva bruciare i ponti col passato, con tutto, a qualunque costo, e questo aveva fatto scattare una rabbia che non poteva non ascoltare, e che sfogava dentro le canzoni.
Cora si chiedeva se, arrivato in cima fosse realmente felice e se finalmente aveva acquietato la sua anima tormentata. Shan fermo dall'altro lato della piscina alzò il braccio, e le fece cenno di raggiungerlo destandola dai suoi pensieri. Gli sorrise e si mosse in sua direzione.
«Ci hai messo troppo!» lo rimproverò bonariamente appena gli fu davanti.
«Ti sei annoiata?».
«Un po'. Ma ho curiosato in giro per passare il tempo».
Sedettero intorno a un tavolino da dove si poteva godere la vista della piscina e del giardino che la circondava. C'erano degli uccellini che cantavano tra gli alberi, ma per lo più era silenzio.
«Questa tranquillità te la sogni nella tua adorata NY».
Lei pescò una patatina dal sacchetto che lui teneva in mano.
«Avrò gli incubi stanotte con tutta questa pace».
Shan ridacchiò e infilò a sua volta la mano nella confezione.
«Non ammetterai mai che Los Angeles è meglio di New York, vero?».
«Nemmeno sotto tortura, semplicemente perché non lo è. Ma mi adatterò a questo posto orribile pur di avere il piacere della tua compagnia».
«È per questo che hai accettato la commissione? Per il piacere della mia compagnia?».
«In parte.» disse infilando la patatina in bocca «Ma più per i soldi», rise sommessamente.
«Ti conosco fin troppo bene Cora Cromwell. So che l'ultima cosa che ti muove è il denaro».
Lei tornò un attimo seria: «Sono una giovane artista in ascesa. Devo pensare al mio futuro», riconobbe con franchezza.
«Già, un'artista di talento. Sembra ieri, che eri una ragazzina di buona famiglia ossuta, secchiona e rompi palle. Oh già, rompi palle lo sei ancora». 
«Solo perché ho sempre seguito le regole, al contrario di te». 
«Una secchiona: la prima della classe, leader alle proteste studentesche, redattrice del Crimson... Probabilmente detieni ancora il record della peggiore pianta grane di Harvard».
«Fatti gli affari tuoi».
Lui rise: «Quando hai piantonato l'Harvard Yard per manifestare contro lo squilibrio della distribuzione della ricchezza in America, credo tu abbia tolto vent'anni di vita a Oliver».
«Un branco di corrotti. Sono solo contenta di essermene tirata fuori», rispose con un'ombra d'irritazione nella voce.
Lui la osservò: «Certe volte mi domando come facciamo a essere amici. Non abbiamo niente in comune».
«Eri un cattivo ragazzo» fece una breve pausa, in faccia un’espressione troppo solenne per poter essere presa sul serio «la tua pessima reputazione mi è servita durante l'adolescenza, nella lotta alle convenzioni stabilite da mio padre». 
Shannon sorseggiò dalla bottiglia la sua birra e sorrise: «Quello era Jared. Io a Oliver sono sempre piaciuto».
«Vero. Tu piaci a tutti». 
Shan aveva lo sguardo di chi non sapeva giudicare. Era come avvolto da un alone di benevolenza, quell’alone che impediva di trovare terreno fertile all'avversione. 
«Mi piace questa stanza», disse lei quando Shan dopo un'ora, la portò a vedere la parete che avrebbe dovuto dipingere.
Era una grande e luminosa sala da pranzo che coincideva da un lato con la cucina, e dall'altro con l'ingresso.
«Il tavolo andrà spostato da qui».
«D'accordo».
Lo studiò di sottecchi, mentre sollevava la bottiglia e beveva la Beck's ormai calda.
«Per tutto il tempo che lavorerò qua dentro sarà una specie di cantiere, e immagino Jared non voglia mangiare in mezzo a colori e solventi...» buttò lì con apparente naturalezza.
«Non lo avrai tra i piedi. Sta tranquilla».
«Bene».
«Bene», ripeté lui con un sospiro esasperato.
«Occorre un telo bianco, nastro da mascheratura, un ripiano dove appoggiare l'attrezzatura e un trabattello», il tono era diventato più fermo, come le succedeva di frequente quando parlava del suo lavoro, quasi attingesse sicurezza dalle proprie conoscenze.
«Scrivi un elenco e consegnalo a Shayla. Ti farà avere tutto entro stasera». 
Qualche ora dopo, rimasta sola, Cora tirò fuori dall'imballaggio il materiale che le aveva consegnato la zelante assistente di Jared, mentre Shan, dall'altra parte della città, stava cenando in chissà quale ristorante dove lei si era rifiutata di seguirlo.
Aveva troppe cose da fare per mangiare qualcosa di più elaborato di un panino preparato in fretta.
Quando ebbe terminato di montare il trabattello, spinto e tirato il tavolo fino al punto scelto, e trasformata la stanza in uno studio, fece un passo indietro, e ammirò il risultato ottenuto a tempo di record.
A modo suo, era molto ben organizzata: gli anni senza contare sull'aiuto di un uomo, le avevano aguzzato ingegno e capacità pratiche.
L’unica cosa che mancava, pensò, era uno stereo a tutto volume. Ma presto avrebbe provveduto anche a quello.
Adesso l'ambiente le appariva molto più familiare: bastavano dei pennelli, una superficie da dipingere, e si sentiva immediatamente a casa ovunque si trovasse.
Era in cima al trabattello e stava tracciando le prime linee quando un suono di passi catturò la sua attenzione.
Non poteva essere altri che Jared.
Si voltò e il sorriso che gli rivolse fu freddo ma non del tutto ostile. Tra loro c'era una tensione iniziale che al momento non le interessava attenuare.
Jay allungò una delle due tazze che aveva in mano in sua direzione.
«Ehi», la salutò.
«Ehi», rispose lei con lo stesso tono.
La osservò con un pizzico di preoccupazione mentre cercava di scendere dall'impalcatura, operazione che risultò più complicata del previsto.
«Sei una scalatrice con i fiocchi, vedo», la prese in giro una volta che posò i piedi a terra.
Con testa alta ed espressione sicura lei si strinse nelle spalle: «Sì, è tra i miei hobby preferiti scendere sgraziatamente da strutture traballanti». 
«Beh stai attenta, finché sei sotto il mio tetto sono responsabile per te».
«E io illusa, che credevo di essere l'unica responsabile di me stessa», gli disse intanto che toglieva i residui di grafite dalle mani strofinandole sui pantaloni.
In silenzio Jared aspettò avesse finito, e poi le porse nuovamente la tazza: «Allora come va? Fatto buon viaggio?».
«Non mi lamento», rispose prendendola con titubanza. «Cos'è?», immaginava fosse uno dei suoi intrugli salutisti.
«Té bianco».
«E a te come va Jared?», gli domandò distrattamente mentre sorseggiava la bevanda che profumava di bosco.
Intravide sotto il suo braccio un copione; se era fortunata si sarebbe dedicato a quello e l'avrebbe ignorata dopo i primi convenevoli.
«Bene, ma il lavoro mi massacra», lasciò cadere senza interesse la sceneggiatura sulla poltrona togliendole quella speranza.
«Lo immagino: anche i minatori sarebbero d’accordo nel ritenere la tua, una vita faticosa».
La sua frase lo fece sorridere.
«Scusami se non ti ho fatto gli onori di casa oggi, ma sono nel bel mezzo di un grosso progetto».
«Tranquillo, non c'è problema. Anch'io sono stata occupata nell'organizzarmi, non mi sono neppure accorta della tua assenza». Una bugia bell'e buona.
 Lui osservò con interesse i barattoli pieni di colore che erano ordinatamente allineati su un ripiano insieme a una varietà considerevole di pennelli, tamponi di cotone, una mascherina, guanti di gomma e attrezzature varie sparse un po' ovunque.
«Hai fatto in fretta a predisporre la stanza».
«Prima è, meglio è. Voglio togliermi velocemente il pensiero di questo lavoro», si lasciò sfuggire.
«Devo prenderla forse sul personale?».
«Prendila come credi», fece spallucce. «E scusa... » simulò mortificazione «Non volevo crearti tanta confusione nella stanza. Ritengo che non la potrai usare finché il dipinto non sarà concluso».
Lui sorseggiò un po' del suo tè. «Oh, certo che volevi», rispose fissandola negli occhi con espressione astuta.
Cora non si lasciò intimidire. In fin dei conti non le dispiaceva che Jared avesse capito il senso nascosto del disordine. Era sveglio, lo era sempre stato, e lei aveva fatto affidamento su questo.
«Ti ringrazio per la comprensione».
Continuò a fissarla in silenzio in modo penetrante. A lungo. Nessuno manteneva il contatto visivo per tanto tempo. Sembrava stesse puntando una preda. Tuttavia, per quanto lo trovasse molesto decise che non gli avrebbe concesso la soddisfazione di fargli pensare che non fosse in grado di tenergli testa. Oppure che la mettesse a disagio. Non la impressionava affatto. Che facesse pure l'incantatore. 
«Abbigliamento notevolmente più sportivo dei tuoi soliti canoni...», sentenziò infine lui girandole intorno.
Bè se voleva trovarla in ghingheri era in ritardo di diverse ore.
«Sono in versione comoda, da lavoro», spiegò.
«Niente vestiti da vamp quando dipingi?».
«Io vamp? Sei ubriaco per caso?», si stava divertendo a sfotterla? Che razza d'idiota.
«Bevo solo acqua. L'alcol rallenta i riflessi, e non posso permettermelo con te».
«Grazie. Lo prenderò come un complimento», rispose lei.
«Ne vuoi parlare?», le disse poi Jared in maniera inaspettata, ma senza troppo entusiasmo.
Cora si mise immediatamente sulla difensiva, e pur intuendo quale potesse essere l'argomento domandò: «Di cosa?».
«Di questa convivenza forzata. Non ti fa strano dopo anni che mi hai evitato?», avanzò di un passo verso di lei e Cora cercò di resistere alla tentazione di arretrare, anche se dentro, indietreggiava come un cane che aveva preso troppe botte.
Dopo tanti anni di silenzio tra loro, era ridicolo rivangare il passato proprio allora... ma forse in quel momento lui lo riteneva indispensabile per instaurare una buona coabitazione.
Negli anni, si erano incontrati in tre o quattro occasioni, sempre casualmente, sempre comportandosi con esemplare  risolutezza, ed evitando di rimanere soli.
Incontri pieni di convenevoli di rito, grande distanza emotiva e formale educazione.
In fin dei conti, entrambi erano persone civili che, oltre a un pezzetto di passato, avevano in comune l'affetto per Shannon.
Ormai erano come due estranei che non avevano nulla da dirsi, eppure le era impossibile non ricordare che con l'uomo che si trovava davanti ai suoi occhi, aveva condiviso i momenti più intimi e intensi della sua vita.  
Non era facile stargli di fronte senza provare vergogna per la fragilità che in passato a lui, e solo a lui, aveva mostrato.  
Ancora a distanza di tempo, non sapeva dimenticare quella relazione e lasciarsela del tutto alle spalle.
Aveva fatto finta che niente fosse successo, che non fosse stata realmente così importante, ma, nel momento in cui erano di nuovo l'uno di fronte all'altra, guardandosi negli occhi senza intermediari, distrazioni o vie di fuga, l'intensa emotività che aveva cercato d'ignorare per tanto tempo la stava investendo in pieno. E faceva male.
«Certo che sì», ammise infine.
«Vuoi parlarne?».
«No», rispose secca.
«No?», chiese dubbioso.
«No!». Il tono di Cora era ancora più definitivo.
Non gli doveva alcuna spiegazione, non era pronta per farlo, più che mai con una notte insonne e sei ore di viaggio alle spalle.
Per qualche istante rimasero in silenzio, sfidandosi con lo sguardo. Poi lui cedette: «Dato che a te sta bene non affrontare l'argomento, cerchiamo solo di arrivare in fondo a questa cosa e fare in modo che non prenda una brutta piega. Ok?».
«Non è che non voglio. È che non ne abbiamo mai parlato. Perché iniziare adesso?», dal suo tono trapelava una punta di sarcasmo.
«Meglio tardi che mai».
«No, meglio mai con te. Hai avuto anni per farlo, e a questo punto, direi di tralasciare anche le ovvietà. Siamo qui, sotto lo stesso tetto perché abbiamo deciso di mettere una definitiva pietra sopra anche ai risentimenti».
Gli andava di parlare... dopo anni?
Dopo che lei aveva deciso di dare un segnale forte anche a se stessa accettando quel lavoro, e di mettere la parola fine anche agli strascichi del passato?
Peggiore della sua incapacità di tenere in piedi una relazione, c’era soltanto il suo tempismo.
«Sei pronta a impegnarti per cercare d'andare d'accordo?», le domandò scrutandola attentamente.
Sostenne fieramente l'esame approfondito che le rivolse. Era la solita questione di dimostrare chi era il più forte tra loro. E lei non poteva perdere. In fondo, quella era una delle poche cose che avevano in comune. Venivano da due famiglie totalmente diverse, ma in qualche modo, sia il padre di Cora che la madre di Jared li avevano caricati dello stesso peso: mai mostrarsi deboli!
«Se lo sei tu», fece spallucce, ma in cuor suo non ne poteva più di quel confronto. 
Doveva chiudere l’argomento, andare a riposarsi, riprendere il controllo di sé.
Per sfuggire alla tenacia di Jared spostò l’attenzione sui progressi che aveva apportato sulla parete.
«Capisco che frequentare solo modelle analfabete sia un tantino noioso e tu voglia allargare i tuoi orizzonti, ma io avrei altro da fare a parte dilettarti. Shan non mi paga a sufficienza per diventare una piacevole compagnia per te. Quindi, possiamo tornare al vero motivo per cui sono qui?» e senza dargli il tempo di rispondere, aggiunse con l’aria più professionale di cui era capace «...Potrei avere bisogno di materiale difficile da reperire, e mi servirebbe la tua conoscenza della città per sapere come muovermi».
«Tienimi questa», disse allungandole la sua tazza.
Cora guardò il tavolino che era a pochi centimetri di distanza, e sul quale avrebbe potuto benissimo poggiarla.
Chiaramente la richiesta aveva un significato simbolico, del tipo: sono gentile con te, se tu lo sei con me... o una stronzata del genere…
Sbuffò ma la prese, intanto che lui rovistava nella tasca alla ricerca del cellulare.
«Conosco una persona che può esserti d'aiuto. È il responsabile dei restauri al MoCA e saprà dove indirizzarti. Gli parlerò domani stesso avvertendo che lo contatterai», disse facendo scorrere i numeri della rubrica.
«Ti ringrazio».
Sembrava fosse riuscita finalmente nel suo intento di portare la conversazione su questioni di lavoro.
Jared prese una penna e scrisse velocemente su un foglio.
«Qui c'è il suo nome e numero, così potrai metterti d'accordo direttamente con lui non appena lo avrò informato».
Le tese il foglio mentre riprendeva la tazza, e Cora guardò gli sgorbi che aveva buttato giù di fretta.
Erano a malapena leggibili.
«Questo è un tre?».
Lui annuì e sorrise.
«La mia scrittura è terribile. Un terapista probabilmente avrebbe molto da studiarci».
Nonostante Cora non lo desiderasse, le sfuggì un'espressione divertita.
Alzò gli occhi e incontrò il suo sguardo.
Chiaramente un errore: i suoi famigerati occhi blu la imprigionarono.
Tutto sommato capiva perché avesse Hollywood e mezzo mondo ai suoi piedi: seppure le costava fatica, sapeva essere abbastanza obbiettiva da ammettere che era oggettivamente un uomo carismatico.
Distolse lo sguardo scottata da quell'attimo di smarrimento.
L'ora tarda e la stanchezza dovevano aver limitato di molto le sue capacità di autocontrollo.
Meglio tornare vigile.
«Nessun problema», disse magnanima.
Jared proseguì dandole informazioni utili sul restauratore del MoCA e mettendosi a sua disposizione con tranquilla efficienza.
Niente che non fosse misurato nei suoi gesti o nella sua voce, niente che le ricordasse lo sbruffone di sempre, dimostrando che quando voleva sapeva essere serio e non necessariamente uno stronzo totale. Di certo l'esperienza gli aveva insegnato a limare all'occorrenza certi suoi difetti.
Giocoforza si ritrovò a osservarne le mani che muoveva mentre le parlava.
Aveva sempre amato le sue lunghe dita affusolate. E anche se ormai non le facevano più lo stesso effetto, portarono a galla un accenno di malinconia, che lei dopo veloce analisi, archiviò come normale e, tutto sommato sensato.
Di quelle mani in fin dei conti ne conosceva il tocco, e non c'erano stati altri amori importanti che ne avessero cancellato l'impronta.
Ma fu solo una manciata di secondi; corresse immediatamente il flusso dei propri pensieri concentrandosi sulle sue parole, e non su di lui.
«Ho visto che hai posato per Christopher Pugliese», le disse improvvisamente sorprendendola.
Rimase favorevolmente colpita dal fatto che nominasse l'artista semi-sconosciuto.
«Sì» annuì «Siamo amici. Tra qualche mese inaugureremo una serie di laboratori residenziali di pittura, musica, cibo, poesia. Christopher conosce molti musicisti di nicchia. Abbiamo già fatto un bel gruppo. Ma comunque non si tratta di un'iniziativa commerciale. È riservata solo ad artisti di talento».
Tante informazioni non erano richieste, ma preferiva addentrarsi in quell'argomento relativamente neutro piuttosto che in altri potenzialmente pericolosi.
«Una volta ho visto una sua mostra a Londra. Credo fosse per promuovere Save the children», rispose lui con aria annoiata. Si capiva benissimo che riteneva i risultati di Christopher ben poca cosa.
Lei annuì ancora.
«Non è affermato come Hirst e mi sorprende tu lo conosca».
«In verità non avevo la minima idea di chi fosse» rispose con un sorriso ineffabile «Ho solo riconosciuto te, nei suoi dipinti, e devo dire che non ti ha reso giustizia».
Cora storse la bocca: più che un complimento indirizzato a lei, sembrava un attacco immotivato di disistima nei confronti di Chris.
Decise che non era il caso di scoprire altri nervi, respirò profondamente e rispose indulgente:  «Forse. Ma a me piace».
«... e siete solo amici?», buttò lì, come cedendo a un impulso, osservandola con malizia per verificare se l'avesse messa a disagio.
La domanda era assolutamente inappropriata, fuori luogo, e date le circostanze, eccessiva. 
«E tu... con l'ultima modella appena ventenne con cui sei stato fotografato... solo amici?», fu la risposta secca di lei, netta come il taglio di un bisturi.
Negli ultimi tempi, sembrava che Jared prelevasse le sue compagnie femminili direttamente dall'asilo.
Lui scrollò le spalle con noncuranza, e aggiunse con quel tono tranquillo e distaccato che faceva sembrare giusto tutto quello che gli usciva dalla bocca: «Era solo una domanda per fare conversazione. Non c'è bisogno di prendertela così, “piccola”».
Cora provò un'improvvisa fitta di rabbia.
I lineamenti le si rannuvolarono, mentre il sorriso da giocatori di scacchi di Jared si dilatava.
Era sgradevolmente esasperata da quell'aria da saputello e decise che per quella sera aveva fatto il pieno delle sue cazzate da macho.
Incrociò le braccia sotto il petto e chinò la testa da un lato: «Be, allora forse, tanto per fare conversazione, credo di dover chiarire un paio di cose con te. Non sono la tua “piccola”, e se dobbiamo andare d'accordo ti consiglierei di evitare argomenti personali. L'unica cosa di cui dobbiamo parlare è di lavoro, “piccolo”. La mia arte e, la mia competenza sono l'unica cosa che devono interessarti. So che sei abituato alle donne che fanno di tutto per avere la tua attenzione e uno dei tuoi fascinosi sorrisi, ma io non sono una di loro. Non aspiro a diventare una delle tue tante fans, perciò riserva le allusioni e i tuoi ridicoli giochetti a loro. Non ti permetto di fare il coglione con me: hai perso questo diritto molti anni fa, quando ero troppo ingenua e stupidamente persa per metterti in riga».
Una settimana a programmare il comportamento da tenere e solo un minuto perché Jared con il suo atteggiamento le rovinasse tutto.
Le sarebbe piaciuto spiegargli quanta tensione aveva accumulato durante la giornata in previsione di quell'incontro, per non parlare della confusione e del bisogno di difendere i confini del proprio spazio emotivo. Non si trattava solo di una sfida professionale che doveva affrontare, ma del carico emotivo e psicologico che comportava... e Jared non aveva capito niente di tutto questo!
Lui continuò a guardarla con i suoi occhi blu, ridenti, simili a quelli di un ragazzino dispettoso il cui più grande piacere era quello di mettere continuamente alla prova il mondo in cui era costretto a vivere.
Non sembrava particolarmente colpito da quello che Cora gli aveva detto; data la sua esperienze di vita probabilmente ben poche cose lo colpivano, e tuttavia la luce beffarda dei suoi occhi aveva lasciato posto a un lampo d'interesse.
Aveva il ghiaccio nella voce quando parlò: «Non ti preoccupare, Coralline. Starò attento a non turbare troppo la tua suscettibilità, date le circostanze, meglio evitare spargimenti di sangue sul tappeto persiano. Che, d’altra parte, avrebbe comunque bisogno di una ripulita.», elusivamente guardò il grosso e compatto tessuto di lana che ricopriva il pavimento, e sul quale Cora aveva poggiato incautamente dei barattoli.
Lei si portò le mani ai fianchi e stava per dirgli dove poteva ficcarsi il tappeto ben arrotolato, quando vide che Jared, con il sorriso supponente di chi pensa già di aver vinto la partita qualche match in anticipo sulla fine dei giochi,  stava aspettando la sua esplosione di rabbia.
Decise di non dargli soddisfazione. Fece un profondo respiro, e poi esibì il sorriso più dolce: «Bene, siamo d'accordo allora» consultando l'orologio aggiunse «Che ore si sono fatte? Oh cavolo! Sarà meglio che vada a dormire. Ho avuto una giornata piuttosto pesante».
Lui corrugò la fronte, spiazzato dal suo cambio di programma, e per una volta tanto sembrò non avere nessuna battuta pronta che avrebbe potuto regalargli una casa base.
Per la prima volta in tutta la sera, nella sua voce si avvertì un certo risentimento mentre, senza guardarla in faccia, le rispose: «Buonanotte allora. Io rimango ancora un po' e ne approfitto per leggere il copione».
«Bene, ottima idea. Buonanotte», rispose lasciandoselo velocemente alle spalle.
   
 
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