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Autore: GipsySoul    13/08/2015    1 recensioni
Un’immagine suggestiva, dolcetti francesi, musica e una bambina che tenta inutilmente di rinnegare la sua fantasia si amalgamano insieme sullo sfondo di una Parigi autunnale.
Niente amori struggenti o epiche battaglie: sono le realtà e gli incontri più semplici a suscitare le emozioni più intense.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II

Sophie si chinò nuovamente in avanti, sulla targhetta bianca bordata di rosso, rilesse con interesse titolo, sottotitolo e quella strana accozzaglia di lettere che sembravano essere messe lì alla rinfusa (come se il gatto fosse saltato sulla testiera proprio l’attimo prima di mandare tutto in stampa) e che dovevano evidentemente formare il nome dell’artista. Non capiva proprio come fosse possibile dare un suono a quella combinazione di segni senza annodarsi la lingua o lasciarsi scappare un verso sgraziato.
Storcendo vistosamente il naso, Sophie osservò ancora il quadro, privo di cornice: c’era un’esplosione di colore, giallo e celeste, al centro, una manciata di pagliuzze dorate mangiate della campitura grigiastra dello sfondo e una linea verde muschio che lo tagliava in verticale.
L’arte moderna non era decisamente il genere che la mamma preferiva, mille volte meglio una scultura del Canova, diceva sempre, ma doveva scrivere un articolo per la rivista per cui lavorava ed era stata costretta a visitare quella mostra di pittori emergenti. Si era messa il vestito blu e le scarpe col tacco e ogni tanto appuntava qualcosa sul suo quadernino con le pagine di carta riciclata, quindi, si era detta Sophie, anche se non le piaceva poi così tanto, voleva fare un buon lavoro. Come sempre. Mamma era fatta così.
Ogni tanto si piegava su di lei e le chiedeva qualcosa e Sophie, mentre si aggirava oziosamente per le sale, tentando con tutta sé stessa di non apparire annoiata e disinteressata, rispondeva a monosillabi, ricambiando il sorriso che tutte le volte mamma le regalava.
E poi aveva visto quel quadro: forse per il titolo, forse per il suggestivo groviglio di colori e forse anche per lo strambo nome dell’autore, quella tela l’aveva bloccata all’improvviso, lasciandola in mezzo al bianco della stanza, come imbambolata, a costruire improbabili favolette.
Scosse la testa come se volesse richiamarsi all’ordine.
Possibile che a otto anni ancora si abbandonasse a certe puerili fantasie con tanta facilità?
Quegli assurdi voli pindarici erano ben lontani dall’immagine di bambina seria e con i piedi per terra che voleva mostrare di sé e rimase fortemente interdetta quando realizzò che era stata proprio quella stupida mostra di - come si dice? - astrattismo a risvegliare il suo lato meno razionale. Era grande ormai, doveva comportarsi come tale e davvero non capiva perché sua sorella la prendesse così tanto in giro quando le esponeva i suoi propositi… ora che ci pensava, era proprio colpa di Celine se la mamma aveva dovuto portarla con sé, perché doveva andare al cinema con le sue amiche e non poteva stare a casa con lei… glielo avrebbe fatto notare.
Mentre ragionava sulla giusta punizione da infliggere a Celine la mamma le sfiorò la spalla.
“Eccoti qua! Ero già alla sala successiva e mi sei sparita da sotto il naso.” le disse. “Questo quadro lo avevo ignorato. A te piace?” aggiunse poi, notando evidentemente la sua espressione persa.
“No.” fu la sua risposta, secca e convinta.
La mamma alzò le sopracciglia e la squadrò, inclinando il viso. Gli orecchini tintinnarono.
“Avrei giurato di sì.”
Lei fece spallucce e la informò piuttosto del fatto che aveva una gran fame e le facevano male i piedi. La mamma rise e cacciò nella borsa quadernino e matita: avrebbero tralasciato di proposito l’ultima serie di opere, visto che anche lei era stanca, tanto nessuno se ne sarebbe accorto, e, uscite dalla mostra, avrebbero comprato qualche macarons da Ladurée, in rue Bonaparte, e nel tornare a casa si sarebbero fermate su una panchina del lungosenna a gustarsi quelle piccole bontà.
Mamma aveva un incomprensibile debole per le panchine del lungosenna e, anche se a Sophie annoiava terribilmente starsene lì seduta senza fare nulla, assecondava sempre quella sua sciocca fissazione perché la mamma era bella quando guardava i battelli scivolare silenziosi sull’acqua del fiume e forse un giorno anche lei avrebbe capito perché mai chiudeva gli occhi quando suonavano le campane della cattedrale. Solitamente Sophie pensava ai compiti che le aveva assegnato la maestra ma quel giorno era sabato, i compiti li aveva già diligentemente svolti e mentre uscivano da Ladurée si accorse, non senza un briciolo di comprensibile disagio, che probabilmente si sarebbe trovata senza nulla a cui pensare.
Mamma tentava spesso di prenderle la mano e lei, gentilmente, rifiutava ogni volta, fingendo di non averla vista, accelerando un poco il passo, indicando qualcosa: soprattutto in pubblico non le piaceva che la trattasse come una bambina piccola ma purtroppo anche lei, al pari di Celine, non sembrava prenderla molto sul serio riguardo la sua ferma volontà di conformarsi ai suoi rispettabili otto anni.
Conquistarono la loro solita panchina e Sophie aprì subito il sacchetto colmo di dolcetti colorati, lanciando un’occhiataccia alla mamma che aveva accavallato le gambe in modo decisamente poco femminile come se fosse in salotto a guardare un bel film, accoccolata accanto a papà, senza curarsi almeno un minimo dei passanti: è vero, in un tardo pomeriggio d’autunno come quello non c’era molta gente in giro, ma scomporsi così era eccessivo!
“Mamma, la gonna!” le fece notare all'istante ma lei ridacchiò.
“Ma dai, non si vede nulla. Me ne passi uno?”
Sophie cercò un macaron al cocco e glielo porse.
Solo in quel momento capì da dove proveniva quella leggera musica che inizialmente aveva confuso per la suoneria di un cellulare e che pareva confondersi con il leggero venticello che continuava a scompigliarle la frangia: c’era un signore seduto a terra, poco distante da loro, chino in avanti come se stesse piangendo, ma non piangeva, e vedeva le sue mani impegnate a suonare un tamburo, ma non era un tamburo, dalla superficie ammaccata e la forma così simile (anche se le pareva impossibile) ad un’astronave.
Addentando una meringa al pistacchio, strizzò gli occhi per capire che strumento avesse tra le mani… ma che faceva con le mani? Era tutto un andare su e giù, qua e là su quel disco scuro, senza nemmeno sfiorarlo, senza nemmeno guardarlo, e la musica che, in qualche modo, usciva da quelle dita sembrava l’acqua di un ruscello in montagna o la nebbia di Luba che svaniva al sole.
La mamma le stava dicendo qualcosa ma lei, malgrado avrebbe voluto ascoltarla, non riusciva a concentrarsi sulle sue parole perché quel signore con la pelle mulatta ora cantava una rauca ninna nanna su quel fluire leggero di note e sospiri con una voce tanto ruvida che Sophie pensò avesse della carta vetrata in gola, come quella che i suoi compagni usavano a scuola per fare la polverina con i colori.
Le farfalle infuocate di Rhue ballavano su quell’armonia di suoni delicati e Luba si lasciava accarezzare dalle fiamme che, per assurdo, erano così simili alla sua natura e si posavano sulla sua pelle senza scottarla.
Sophie avrebbe saputo solo più tardi che mamma la stava osservando incuriosita: le avrebbe detto che sembrava stupita e un po’ confusa, ma così dolcemente affascinata da quel musicista, il macaron mezzo morsicato in mano e gli angoli della bocca leggermente all’insù, che non aveva avuto cuore per svegliarla dal suo incanto. Ma questo solo dopo.
Quando Rhue e Luba si furono riconciliati le rivelarono per un attimo i loro volti, celati dietro le maschere fino a quel momento, e tornarono ad essere elementi puri, stringhe di colore sottili e pulsanti che si lanciarono verso l’alto e sparirono, forse, per sempre.
Sophie si riscosse in uno starnuto, quasi che quel secondo viaggio ad occhi aperti nel giro di un solo pomeriggio le fosse risultato fin troppo fastidioso.
La mamma non era più seduta accanto a lei: stringeva la mano all’artista di strada, probabilmente complimentandosi con lui per l’esibizione, che aveva attirato anche altri due signori di mezz’età, molto interessati allo strumento appoggiato tra le sue ginocchia.
Lui aveva un sorriso che pendeva tutto da un lato ma era piacevole e bianco come neve e i lunghi capelli, già un po’ ingrigiti, erano tutti intrecciati e raccolti in una coda; solo ora lo guardava davvero e nel momento in cui la mamma lo lasciò, dirigendosi nuovamente verso la panchina dove lei si era risvegliata, le gambe ciondoloni e la frangia disordinata, quello le rivolse un saluto mandandole un bacio con la mano.
Distolse lo sguardo, imbarazzata, le guance scarlatte e un alquanto seccante subbuglio dentro lo stomaco.
“Grazie, chérie.” le disse, ma Sophie saltò giù dalla panchina e si avviò nella direzione opposta, cacciandosi un bocca quello che rimaneva del dolcetto.
Che succedeva quel giorno? Si erano forse tutti coalizzati contro di lei, decisi a farla sentire assolutamente inadatta e far crollare le sue certezze? Perché il cuore le martellava così forte per una sciocchezza del genere?
“Voglio andare a casa, mamma.” mormorò, la voce così debole che provò pena per sé stessa.
“Mamma?” la chiamò ancora.
“Guarda cosa mia ha dato quel signore.” disse, porgendole qualcosa, e Sophie esaminò quel qualcosa come se fosse stato un serpente che minacciava di morderla o qualche ordigno pronto ad esplodere, abbastanza certa di non voler sapere ma altrettanto curiosa.
“Cos’è?” domando infine.
“Un CD. Mi ha detto che lo ha inciso quando era giovane e che voleva regalarne una copia a te perché gli sei sembrata tanto presa dalla sua musica. Si può sapere perché sei scappata?”
Se la mamma pensava davvero che avrebbe ottenuto una risposta si sbagliava di grosso: ora l’obiettivo era arrivare a casa il più velocemente possibile, dimenticare quell’ondata di emozioni inconcepibili che le avevano sconvolto la giornata, l’umore e le idee, ricomporsi, regolare i conti con Celine - maledizione, era tutta colpa sua - e ricominciare da capo.
Quella sera, o al più tardi la mattina seguente, sarebbe tornato tutto alla normalità e per evitare altri incidenti di quel tipo, le prossime volte non sarebbe andata con la mamma a sedersi sulle panchine del lungosenna, a costo di non sapere mai perché il suono delle campane di Notre-Dame le faceva chiudere gli occhi e avere quell’aria beata. E anche alle mostre di arte - come si dice? - astratta non ci avrebbe mai più messo piede.
No. Non avrebbe corso un rischio del genere una seconda volta. Aveva una reputazione da difendere!
Mentre ragionava più o meno così, si era ritrovata il disco tra le mani al posto del sacchetto di macarons e quando lesse il titolo, scritto in caratteri azzurri, sottili e tortuosi su uno sfondo scuro, per un attimo credette di svenire lì, sul posto, in mezzo alla strada.
“Ti è piaciuta la musica?” le domandò la mamma.
“No.” fu la sua risposta, secca e convinta, ma qualcosa le si mosse dentro con enorme disappunto.
“Avrei giurato di sì.”

Monique osservò la figlia mentre camminava accanto a lei, il mento in alto come suo solito e i capelli di nuovo in ordine: l’avrebbe detta tranquilla, riacchiappata la sua impassibile serietà così poco adatta a una bambina di otto anni, se non fosse stato per le dita strette convulsamente attorno al suo regalo, perché in fondo di questo si trattava, e al fatto che ogni tanto, credendo di non essere vista, sbirciava il fronte della custodia del disco con un’espressione negli occhi a metà tra lo sconvolto e l’impaurito.
Si chiese cosa stesse rimuginando e se mai un giorno avesse avuto l’opportunità di capire cosa passasse veramente per la testa della sua Sophie. Ma quando si lasciò prendere per mano, senza opporsi né fare smorfie, anzi stringendole forte le dita, Monique non pensò più a nulla e quasi avvampò per l’emozione.

Sophie guardò ancora il disco, per assicurarsi, per l’ennesima volta, di aver letto giusto: niente da fare… magari fosse stato un altro scherzo della sua ridestata fantasia…
Il titolo era quello, nessun dubbio.

Aperte virgolette.
Sinfonia di contrari
Chiuse virgolette.

Nda

Quasi dimenticavo...se non conoscete l'hang, cercate su youtube! è uno strumento davvero particolare e io sono rimasta stregata dalla sua musica...
l'idea è stata quella di accostare una melodia tanto dolce e leggera ad una voce graffiante...una voce alla Marco Guerzoni ;)
  
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