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Autore: Espen    22/08/2015    1 recensioni
[Fanfiction partecipante al contest "Love for a fee" indetto da Yuko_chan]
All’interno del Rugiada, uno dei bordelli più famosi della Slam City, era Océan: la puttana con gli occhi del colore del mare e l’ombretto blu scuro.
Era facile, in fondo: uno sguardo ammiccante, un sorriso seduttore e un balletto volgare.
Era tutta una recita e lui doveva essere un grande attore, visto quant’era desiderato.
In quei momenti doveva interpretare la puttana dagli occhi color del mare e far finta che lui, la vita che non era riuscito a salvare, non fosse mai esistito.
Jaime, in realtà, odiava davvero Océan.
*********
Una puttana dagli occhi color dell'oceano che nasconde mille segreti, uno più doloroso dell'altro, e un sognatore intrappolato in una vita che non desidera.
Un incontro di una notte che si trasformerà in qualcosa di più.
In una città annegata da lotte fra clan e peccati di ogni tipo, quanto riusciresti ad amare?
Genere: Drammatico, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Organization Zero'
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Parte seconda.
Le Visioni ( de mort et de famille)
 
Dalla tapparella bucherellata cominciavano a penetrare i primi timidi raggi di sole, segno che una nuova giornata stava per cominciare. Jaime, però, aveva tutta l’intenzione di rimanere a letto. Quella notte era stato prenotato da Steven White, un cinquantenne pervertito che si divertiva a sottoporlo a certi giochetti, come li definiva lui.
Era un essere viscido e megalomane, lui non lo sopportava, ma, per sua sfortuna, era davvero molto ricco (abitava nella Tall City, probabilmente) e Huber era davvero lieto di lasciargli usare una sua puttana per tutta la notte.
Con un gemito di dolore si sdraiò su un fianco, tutto il corpo gli doleva e sapeva che i lividi sui polsi e sui fianchi non sarebbero andati via prima di due giorni.
“La nottata con Tajo è stata tutt’altra cosa” pensò, sospirando. Era passata più di una settimana dall’ultima volta che lo aveva visto, non sapeva se fosse vivo o morto e, per qualche strana ragione, era preoccupato. Aveva persino chiesto a Yana delle notizie sul suo conto, ma lei aveva risposto che non sentiva Gordon da quasi un mese.
In più aveva ripreso ad avere incubi, in quei giorni. Si svegliava nel cuore della notte piangendo e urlando e Micheal o Yana erano costretti a iniettargli dei sonniferi per farlo calmare.
Sospirò, mentre chiudeva gli occhi, sperando di non rivedere quegli occhi blu che lo tormentavano da anni.
 
 
 
 
-Posso alzarmi, adesso?
-No!
-Ma è passata una settimana, ormai sto bene!
Esclamò Tajo, sdraiato sul letto nella sua camera. Dopo che aveva sparato al cecchino che teneva sotto tiro Boris, era iniziato l’inseguimento e, nonostante avessero portato il pacco a destinazione, lui era stato ferito al bacino con un proiettile avvelenato.
Stando ai medici del clan, era stato fortunato poiché erano riusciti a curarlo prima che il veleno si diffondesse in tutto il corpo. L’unica cosa negativa era di essere stato costretto a letto per più di una settimana, con sua madre che lo rimproverava appena tentava di alzarsi.
-I dottori hanno detto che non devi fare sforzi per almeno altri tre giorni, quindi tu non ti muovi da lì!- gli urlò la sua adorabile mamma dalla cucina. Probabilmente stava preparando un’altra di quelle brodaglie disgustose e piene di verdure, che lei si ostinava a chiamare cibo.
Ines Iglesias proveniva da una famiglia importante a Madrid, ma quando aveva deciso di sposare Carlos,  umile commesso in un negozio di elettronica, era stata diseredata. Nonostante fossero successe cose disastrose in seguito, lei non aveva mai rimpianto quella scelta. Ora aveva una famiglia che amava con tutta se stessa e avrebbe fatto di tutto per proteggerla, anche se non poteva dissuadere Gordon dal non affidare incarichi a suo figlio. Avrebbe voluto per Tajo un futuro differente, ma non poteva farci niente, ormai erano troppo coinvolti negli affari del clan per tirarsene fuori.
-Ormai sono un uomo adulto, so capire da me se sto bene o meno!- ribatté il giovane, poco prima che sua madre si presentasse sulla soglia della camera, puntandogli minacciosamente contro il mestolo per il minestrone.
-Non mi importa cosa pensi tu, se il dottore ha detto che non devi fare sforzi, tu non gli farai. Non permetterò che mi hijo si faccia male, claro?
Tajo sbuffò, incrociando le braccia e lasciandosi cadere sul materasso –Sì, Mamà.
Ines sorrise soddisfatta, mentre tornava in cucina.
Tajo adorava davvero molto sua madre, ma alle volte era troppo apprensiva; ormai riusciva a camminare e a muoversi facilmente, poteva anche uscire per un po’! Per questo, quando la donna uscì di casa perché “il  frigo è vuoto, vado subito a prendere qualcosa di decente al supermercato” lui sgattaiolò immediatamente fuori da Palazzo Campbell, diretto al Meteor, aveva bisogno di qualcosa di forte.
 
Jaime finì di delineare il viso della ragazza che stava ritraendo. Non sapeva dove l’avesse vista, forse era solo un’immagine della sua mente. Era giovane, con un caschetto scuro e gli occhi grigi, che esprimevano una forte malinconia.
Tutti i soggetti dei suoi disegni erano tristi, forse perché anche lui si sentiva così.
-Disegni davvero bene, sai?
Quella voce lo fece sussultare sorpreso, mentre girava un po’ la testa per scontrarsi con degli occhi verdi.
-Tajo Iglesias- mormorò con voce neutrale, anche se in realtà era felice di sapere che stava bene. L’ispanico gli sorrise mentre si sedeva sulla sedia di fronte a lui, a quell’ora del pomeriggio il Meteor era quasi vuoto, ma a Jaime piaceva quel silenzio, così riusciva a concentrarsi meglio sui suoi disegni.
Tajo ordinò un paio di alcolici, per poi rivolgersi a lui - Come stai?
Jaime gli rivolse un’occhiata scettica –Non sono io quello che è sparito per una settimana.
Una risata rimbombò nel locale.
-Hai ragione. A proposito, volevo ringraziarti.
-Ringraziarmi?
Tajo annuì.
-Senza il tuo avvertimento non sarei qui adesso, ma come facevi a sapere quelle cose?
-Quale avvertimento? Non capisco di cosa tu stia parlando.
L’ispanico lo guardò con un sorriso ironico, credendo che stesse scherzando, ma quando si rese conto che l’altro veramente non capiva, si fece serio.
Davvero non ricordava niente di ciò che gli aveva detto?   
 I suoi occhi sembravano spenti, come se non fosse davvero lì…
Che Jaime soffrisse di qualche strana forma di sonnambulismo? Ormai, dopo la comparsa degli Skills, non si sorprendeva più di nulla.
Decise, dunque, di spiegargli cos’era accaduto la mattina della consegna e, man mano che il breve racconto continuava, vedeva lo sguardo del giovane farsi più realizzato e spaventato.
-Hai capito cos’è successo?- domandò con voce calma, notando che Jaime era improvvisamente impallidito.
Il ragazzo annuì distrattamente, era da anni che quello non si mostrava.
 
Un soffitto bianco e il perenne rumore di macchine attorno a lui.
Beep
Beep
 
-Non è niente di grave, ma vorrei che tu non ne parlassi più. Sappi solo che non ero in me in quel momento- sussurrò. L’altro, ignaro del suo scompiglio interiore, fece per replicare, ma l’occhiata supplicante di Jaime lo fece desistere.
 
Urla lontane e degli occhi blu che lo osservavano.
Beep
Beep
 
-D’accordo- non fece nemmeno in tempo a finire la frase che l’altro ragazzo era già uscito.
Tajo rimase solo con una sedia vuota e un block notes sul tavolo.
 
 
 
Jaime si era chiuso nella sua camera, scivolando con la schiena lungo la porta malandata.
Lacrime come rasoi gli scorrevano sulle guance.
 
-Jaime.
Una mano stretta nella sua, un sorriso e un piccolo neo sulla guancia destra.
Beep
Una voce lontana, fredda.
-Diamo inizio al Progetto Gemini.
Beep
La stretta che si rafforza e il sorriso sparisce.
La porta si è spalancata.
Beep
Beep
E poi c’è solo dolore.
 
 
Tornato nel suo appartamento, Tajo aveva dovuto sorbirsi la ramanzina di sua madre su quanto fosse irresponsabile e che  avrebbe dovuto pensare alla sua salute, ma un’improvvisa chiamata di Gordon l’aveva costretta a finire in fretta il suo discorso. Ines era un’ottima hacker, abilità molto richiesta nei clan, e doveva essere reperibile in ogni momento.
Una volta rimasto solo, il ragazzo si era spaparanzato sul divano, rigirandosi fra le mani l’album da disegno di Jaime. Al contrario di quello che aveva visto in camera sua, questo aveva una copertina verde e al suo interno erano rappresentati i grattaceli altissimi della Slam City e alcuni ritratti di persone: una ragazza seduta a un tavolo, un uomo che fumava, un bambino con una palla in mano e molti altri. Ciò che lo colpiva maggiormente era l’eterna malinconia che si respirava in ogni disegno, come una firma costante dell’autore, e il fatto che fossero fatti tutti con una matita grigia, eccetto uno.
Quel disegno lo stupì subito per la sua semplicità: un paio di occhi blu come le profondità marine. Sembravano lo sguardo innocente di un bambino, ma c’era sempre quella nota stonata, quell’accenno a una tristezza incurabile, che probabilmente, più che appartenere al soggetto del disegno, era proprio dell’autore.
Chiuse l’album con uno scatto, per poi appoggiarlo velocemente sul tavolo.
Mille domande gli vorticavano nella mente.
Perché Jaime aveva avuto una reazione del genere al locale? Cosa significava che “non era in lui”? Cosa nascondeva di così terribile?
Era deciso a scoprirlo quella sera stessa, costringendo Jaime a parlargli. Forse era un desiderio egoistico, ma aveva bisogno di dare una risposta a tutte quelle domande che lo assillavano.
 
Un paio d’ore prima che il Rugiada aprisse, Tajo aveva chiamato Huber al fine di prenotare Océan per tutta la notte, ma la sua risposta lo aveva sorpreso non poco.
-Océan questa notte non è disponibile, se vuole posso fornirle qualche altro mio ragazzo di uguale bellezza e abilità.
Il ragazzo aveva rifiutato, confuso. Che qualcuno lo avesse già prenotato?
A quel pensiero, una fastidiosa sensazione si diramò nel suo corpo.
Gelosia? Impossibile. Jaime era un ragazzo molto bello, ma non ne era affatto innamorato. Non poteva permetterselo, non nella Slam City e, soprattutto, non con una prostituta.
Decise che non doveva dare importanza a quel fatto, avrebbe potuto parlargli anche un'altra volta. Così decise di trascorrere la serata guardando la televisione, ma più il tempo passava, più il pensiero di Jaime si faceva più insistente.
Alla fine, quando ormai la vita notturna della Slam City era nel suo vivo, decise di uscire e dirigersi al Rugiada.
Era solo per assicurasi che Jaime stesse bene, si disse, ma, nel profondo, sapeva di mentire a se stesso.
 
Il locale era pieno quella sera. L’ambiente era caotico come sempre, con la musica a tutto volume e bei ragazzi e ragazze in abiti succinti, che si esibivano in balletti provocanti sul palco, altri invece si strusciavano sui clienti o andavano al piano di sopra, dove c’erano le camere, portandosi appresso uomini pieni di soldi che volevano sfogarsi.
Si sedette su uno sgabello al bancone del bar, ordinando un Mojito. Si guardò intorno, anche se con quelle luci psichedeliche non riusciva a distinguere bene i volti, non riusciva a vedere Jaime da nessuna parte.
Forse era davvero stato prenotato da qualcuno, in fondo era molto ricercato.
Sospirò, nascondendo un verso di frustrazione; avrebbe finito il suo drink e poi se ne sarebbe andato, non sapeva cosa avrebbe voluto ottenere con quella visita. Gli avrebbe dato l’album da disegno un altro giorno.
-Cosa sei venuto a fare qui, non ti hanno detto che Océan non è disponibile stasera?
Una voce lo fece sobbalzare, accanto a lui si era seduto un collega di Jaime. Lo conosceva di vista, doveva chiamarsi Storm o qualcosa di simile.
-E quindi? Non posso venire qui per scoparmi qualcun’altro?- ribatté con tono, forse, un po’ troppo rude e palesemente finto. Infatti l’occhiata scettica che gli rivolse l’altro, gli fece capire che non gli aveva creduto.
Il ragazzo si allungò verso di lui, in modo che le sue labbra gli sfiorassero l’orecchio, Tajo era già pronto a respingerlo, ma quello parlò.
-Te lo dirò solo una volta: non avvicinarti più a Jaime- gli sussurrò minaccioso. L’ispanico, a quell’affermazione, spalancò gli occhi e si scostò, come scottato, dall’altro.
-Chi sei tu per ordinarmi cosa fare con lui?- esclamò arrabbiato, ma chi si credeva di essere quel tipo?
Lo sguardo di Storm si fece più duro. Quel ragazzo non sapeva niente del legame che aveva con Jaime e di cosa avesse passato quest’ultimo, di come la cattiveria umana si fosse insidiata a forza nella sua vita.
-Lo conosco sicuramente da più tempo di te. E sono stato io ad aiutarlo quando ha avuto un attacco di panico, io so cos’ha vissuto prima di venire qui e io so cos’è meglio per lui al momento- tuonò, irato. Per fortuna che la sua voce era coperta dalla musica, in modo che solo chi gli stava vicino potesse sentirlo.
Tajo si paralizzò a quelle parole.
-Ha avuto un attacco di panico? Per questo non lavora oggi?- domandò preoccupato. Ripensò all’espressione spaventata che Jaime aveva assunto al Meteor e al modo precipitoso con cui se ne era andato. In effetti, visto il suo stato, l’aver avuto un attacco di panico era plausibile, la vera domanda era perché?
Storm si limitò ad annuire, per poi parlare con più calma –Ora sta meglio, ma sono quasi sicuro che la causa sia stata tu, ha ripetuto spesso il tuo nome durante l’attacco.
-Io non volevo farlo stare male- mormorò, come flebile scusa, ma l’altro, a causa della musica alta, non lo sentì.
-Per il suo bene devi stargli lontano- esclamò Storm, una volta fattosi più vicino, in modo che l’altro capisse ogni sua parola.
Nonostante la sua curiosità nel sapere qualcosa in più su Jaime, Tajo annuì accondiscendente. Doveva riflette sul da farsi e, almeno per quella sera, aveva capito di dover lasciare in pace Jaime.
Con un gesto rapido si sfilò l’album della prostituta da sotto il giubbotto, per poi consegnarlo a Storm.
-L’ha dimenticato al bar oggi pomeriggio, faglielo avere- disse, cercando di mantenere un tono calmo e controllato.
Poi si diresse velocemente verso l’uscita e sparì tra le strade della Slam City.
 
Jaime si svegliò di soprassalto, con un grido in gola e le lacrime agli occhi.
Aveva avuto un altro incubo.
Delle mani si posarono sulle sue spalle e, in un primo momento, si irrigidì, ma si rilassò appena capì a chi appartenevano.
-È stato solo un incubo, Jaime- gli sussurrò Yana, stringendolo a sé –va tutto bene adesso, sei al sicuro.
Il ragazzo annuì, cercando di fare mente locale. Era nella sua camera e sentiva la musica provenire dal piano di sotto. Fuori faceva buio, quindi doveva già essere iniziato il suo “orario lavorativo”.
-Sto saltando una notte- mormorò con voce flebile, ma preoccupata. Huber si sarebbe arrabbiato con lui, ma Yana lo tranquillizzò – Demetrius ti ha dato il permesso di saltare, per stasera. Hai avuto un attacco di panico, oggi pomeriggio, e ti è venuta la febbre.
Si passò una mano sulla fronte sudaticcia, aveva bisogno di una doccia, ma era troppo stanco per alzarsi.
-E tu non dovresti lavorare?- biascicò mentre si sdraiava sul materasso. La donna gli sorrise con fare materno, mentre gli scostava qualche ciocca scura dalla fronte.
-Ho il compito di prendermi cura di te. Mia madre era un’infermiera e, quando ero ragazza, mi ha insegnato qualcosa.
Quelle rare volte in cui Yana parlava della propria famiglia, originaria della fredda Russia, aveva sempre un tono nostalgico. Jaime pensava che le mancasse la sua vecchia vita, sicuramente migliore di quella che si era ritrovata a vivere in America.
In quei momenti la capiva benissimo, a lui mancava tantissimo Parigi, una delle poche megalopoli a conservare ancora le caratteristiche forme d’arte, come la Tour Eiffel o Notre Dame, nella quale si intrufolavano sempre per salire sulle enormi torri e osservare il tramonto.
-Hai bisogno di qualcosa? Vuoi che ti prepari qualcosa da mangiare?
La voce gentile di Yana distrasse Jaime da quei pensieri. Osservò per qualche secondo quella donna che lo aveva aiutato infinite volte, sin dal primo istante in cui era arrivato in quel bordello, quando era ancora terribilmente spaventato e sconvolto. Gli era sempre rimasta accanto, in ogni attacco di panico e incubo, nei momenti in cui il pensiero di lui era troppo vivido e doloroso da sopportare.
Jaime negò con un cenno del capo, poi, prima di addormentarsi, le mormorò –Io non ho molti ricordi di mia madre, ma spero che assomigliasse a te almeno un po’.
 
 
Un vicolo stretto e le insegne di negozi a illuminarlo.
Due persone, un uomo e una donna.
Uno sparo e un urlo trattenuto.
Un corpo che cade a terra e una sciarpa bianca insanguinata.
 
Jaime si svegliò di colpo, il respiro affannato e la fronte sudata. Sollevò il busto dal materasso, guardandosi attorno, ancora spaesato.
Erano passate due settimane da quando aveva avuto quell’attacco di panico ed aveva ripreso a lavorare normalmente, con gli incubi che continuavano ad assillarlo nel sonno.
Quello appena avuto, però, non era stato solo un brutto sogno.
 
Fili attaccati al corpo e delle voci in lontananza.
-Il risultato dello Schema Visioni?
-Al novanta per cento corretto e i soggetti sono ancora vivi e in buone condizioni fisiche. È un risultato sorprendente, dottore!
Applausi e acclamazione come echi nella sua testa.
-Il progetto Gemini sta dando finalmente i suoi frutti. Caro collega, i nostri sogni si realizzeranno presto!
 
Le Visioni, che si manifestavano quando dormiva, erano più vivide e dettagliate dei normali sogni, a volte non se le ricordava quando si svegliava, com’era accaduto con Tajo, altre volte, come in quel momento, erano impresse nella sua mente come un quadro guardato a lungo.
Qualcuno sarebbe morto, in quei giorni, ma non aveva idea di chi fosse. Spesso le Visioni erano collegate a persone che conosceva, sperava solo che non si trattasse di qualcuno con cui avesse qualche legame affettivo, difficilmente si riusciva a cambiare ciò che è stato visto.
Sospirò, alzandosi dal letto con una smorfia di dolore; quella notte era stato con Cooper, un trentenne che sfogava la sua rabbia nel sesso e, beh, il suo fondoschiena ne sentiva le conseguenze.
Diede una rapida occhiata all’orologio sul comò, mancava poco alle sei di mattina e fuori stava albeggiando, per poi dirigersi verso la piccola e malandata scrivania, dove stava appoggiato un album da disegno, lo stesso che aveva lasciato al Meteor quel fatidico pomeriggio di due settimane fa’. Non vedeva Tajo da quel giorno, era come sparito nel nulla.
Non che a lui interessasse, era solo un cliente in meno. Probabilmente l’aveva spaventato con quell’improvvisa fuga, portandolo a pensare che fosse uno psicopatico o avesse chissà quale malattia.
La cosa, comunque, non lo rattristava, per niente.
E il soggetto che aveva preso a disegnare non era affatto un ragazzo dai tratti mediterranei e gli occhi verdi. Assolutamente no.
 
Quel pomeriggio, nella cucina del Rugiada, si respirava un’aria gioiosa, che stonava con l’atmosfera tetra della Slam City.
Yana Polanski compiva trentasette anni e, probabilmente, quello era il suo ultimo mese nel bordello. Per l’occasione Micheal, con il permesso di Huber, aveva organizzato una piccola festa, preparando alcolici e persino una torta.
-Non dovevate fare tutto questo per me, davvero.
Yana era visibilmente imbarazzata da quella situazione, non si aspettava tanto entusiasmo per il suo compleanno.
-Invece te lo meriti, tu ci hai sempre aiutati nel momento del bisogno, Yana, avevi sempre una parola di conforto quando eravamo giù di morale. E in un posto come questo, vale tantissimo.
Micheal sapeva fare discorsi davvero commoventi e veritieri. Yana era la più anziana fra loro ed era stata, per i ragazzi e le ragazze del Rugiada, come una madre.
-Rilassati e goditi la festa, mamma- aveva esclamato Nikolaj, l’unico figlio di Yana. Jaime lo conosceva abbastanza bene, ma il loro rapporto si era raffreddato da quando l’altro era entrato nel clan Campbell.
Era una persona cinica e ironica, che, però, provava un grande affetto per la madre.
Il pomeriggio passò in fretta, fra risate e bicchieri pieni di birra e vino, fino a quando non consegnarono i regali.
In comune accordo, i ragazzi del Rugiada le avevano regalato alcuni strumenti per fare tatuaggi per il negozio che avrebbe aperto fra qualche mese, mentre Nikolaj le aveva donato una bellissima sciarpa bianca con ricamati dei disegni a fantasia.
-Così non ti lamenti più per il freddo- aveva detto, scherzando.
-Quanto è morbida!- esclamò Maya, una ragazza con i boccoli biondi e gli occhi azzurri, accarezzando la seta con le dita, subito seguita dagli altri. Quando, però, Jaime toccò la sciarpa, si irrigidì per qualche istante, mentre una visione gli passava nella mente, come in un flash.
 
Un vicolo stretto e sporco, il rumore del traffico in lontananza.
Odore di sangue nell’aria.
Il cuore batte veloce e il respiro si fa veloce.
Paura.
-E così tu saresti la puttanella dei Campbell, eh?
Qualcosa di viscido sulla guancia, un urlo coperto da una mano rude.
-Sarai un ottimo avviso di guerra.
Il freddo del metallo sul cuore e il sapore di lacrime sulle labbra.
Un altro urlo trattenuto.
Uno sparo.
E poi un freddo e desolato buio.
 
-I-io… devo andare un attimo in bagno!- esclamò con voce agitata e tremolante. Sapeva che molti occhi erano puntati su di lui, ma non gli importava, non poteva stare in quella stanza dopo ciò che aveva visto.
Fra tutte le persone, perché proprio lei, Yana, che era stata come una madre per lui, doveva morire? Non riusciva a crederci.
Si guardò per qualche istante nello specchio del bagno del locale e rivide Felix, Roxanne, Jeremy, Theo e lui, tutte quelle vite che aveva visto spegnersi davanti ai suoi occhi. Persone che aveva amato e che se ne erano andate con uno schiocco di dita.
Vi appoggiò la fronte contro e le lacrime cominciarono a scendergli sul viso.
-Jaime, tutto bene?
La voce di Micheal gli giunse lontana, ovattata, mentre i ricordi di una vita tornavano a ferirlo, come un demone che non se ne era mai andato.
Sentì due braccia esili stringerlo e Jaime soffocò i singhiozzi contro la sua spalla.
-Hai avuto un’altra visione, vero? Ti va di dirmi cos’hai visto?- il tono del ragazzo era calmo e gentile, finché gli passava le mani sul viso, asciugandogli le lacrime.
Jaime inspirò ed espirò profondamente, come per calmarsi, poi provò a parlare, ma la sua voce era tremolante.
-Yana…lei…- non riusciva a dire quelle parole, il suo intero essere rifiutava di crederci, ma Micheal lo capì benissimo, infatti lo strinse un po’ più stretto.
E Jaime fece finta di non sentire la maglietta bagnata di lacrime.


Micheal Dallas, prima di essere una puttana del Rugiada, aveva fatto parte di una famiglia importante della Tall City. Sua madre insegnava in un’università rinomata, mentre suo padre, Richard Dallas, era un famoso dottore. Questo, però, aveva un’insana passione per il gioco d’azzardo e, in una partita andata male, perse tutti i soldi e s’indebitò con le persone sbagliate. Una volta che i media vennero a sapere di ciò, la sua famiglia perse credibilità e prestigio e i suoi genitori vennero licenziati. Micheal, all’epoca, aveva quattordici anni.
Due mesi dopo, in preda alla depressione, sua madre si suicidò e suo padre cominciò a tornare a casa ubriaco.
Poi, qualche giorno prima del suo quindicesimo compleanno, degli uomini vennero a prendere Micheal come risarcimento. Il ragazzo avrebbe ricordato sempre gli occhi di Huber che lo guardavano come se fosse una merce rare e prelibata.
Micheal ricordava i primi mesi al bordello come i più infelici della sua vita, non riusciva ancora a realizzare che la sua vita fosse cambiata in modo così radicale e schifoso. Tentò anche di suicidarsi, ma Yana lo salvò e lo aiutò a rimettersi, a sorridere di nuovo.
Certo, ora aveva un sorriso disilluso e rassegnato, ma almeno non passava il resto dei suoi giorni a rimpiangere un passato che non sarebbe più tornato.
Yana lo aveva salvato e non poteva credere che stava per morire, quando era a un passo dalla libertà.
-Quindi adesso che facciamo?- domandò, sdraiato sul letto di Jaime, gli occhi castani rivolti al soffitto. Avevano entrambi finito il turno serale, ma non riuscivano a dormire da quando Jaime aveva avuto quella visione.
Sentì l’altro, accanto a sé, sospirare.
-Niente. Non possiamo fare assolutamente niente- mormorò afflitto. Se c’era una cosa che Jaime aveva imparato da quando aveva quei poteri, era che non si poteva cambiare il futuro. Il tempo è una struttura davvero delicata e fragile e metterci le mani avrebbe potuto portare a risultati nefasti.
E questo entrambi lo sapevano, Jaime gli aveva raccontato di cosa aveva provocato il giocare col destino.
-Forse potremmo…- azzardò Storm, ma l’altro lo interruppe subito.
-Non si può cambiare il futuro senza gravi conseguenze, Micheal.
Poi sospirò, prima di girarsi su un fianco e guardarlo negli occhi.
-Sono stanco di perdere le persone a cui voglio bene.
-Già, anch’io.
 
Alla fine decisero di non di dire niente a Yana, sarebbe stato davvero meschino e orribile dirle della sua morte prima del tempo.
Ciò, tuttavia, non rese i giorni seguenti più facili. Jaime era diventato bravo a reprimere tutti i sentimenti, così nessuno si era accorto del suo disagio, ma ogni volta che vedeva o parlava con Yana si sentiva morire dentro.
Non sapeva esattamente quando sarebbe successo, probabilmente nel giro di un mese, le visioni non ricoprivano un ampio spazio temporale.
Quell’avvenimento arrivò prima del previsto, in una notte simile a tante altre.
Dovevano essere le quattro di mattina, perché Jaime si era assopito da poco, quando aprì gli occhi di scatto con una strana inquietudine addosso.
Ancora in pigiama e con i battiti accelerati dalla paura, si diresse verso la camera di Yana. Bussò un paio di volte, sempre più agitato, prima di rendersi conto che la porta era aperta e che la sua proprietaria non c’era.
Si precipitò fuori dal locale, senza preoccuparsi del fatto che nevicava e, stando a piedi nudi sull’asfalto, gli sarebbe venuto un accidenti. Nella sua mente, però, questo non aveva importanza, mentre continuava a ripetersi che no, non poteva essere già giunto quel momento.
Urlò il suo nome più volte, mentre si aggirava per le stradine attorno al bordello.
Alla fine la trovò, morta in un vicolo sudicio. Un lampione illuminava parzialmente il suo corpo e vi poté scorgere i capelli biondi e la sciarpa candida sporchi di sangue.
Non sentiva più il brusio del traffico, i piedi dolergli o il freddo nelle ossa.
Cadde sulle ginocchia e niente, in quel momento, aveva più importanza.
Yana era morta e lui non aveva fatto niente per salvarla.
 
[1]
 
Il funerale si svolse un paio di giorno dopo. Era raro che una prostituta ne avesse uno, di solito i cadaveri venivano raccolti dalla polizia (che, in pratica, si limitava a svolgere quel compito, poiché troppo codarda e debole per mettersi contro qualcuno appartenente a clan) e, se non identificati, portati a una fossa comune appena fuori dalla megalopoli, senza cerimonia alcuna.
Per i membri dei clan, invece, si allestivano delle cerimonie funebri. La maggior parte delle volte, dato che la società era al 90% atea, era il boss che ricordava i pregi del defunto, per poi lasciare la parola a famigliari e amici. La cerimonia finiva con la sepoltura nel cimitero privato del clan e poi, alle volte, c’era un breve rinfresco.
Yana, in quanto informatrice e grande amica di Gordon, ebbe l’onore di ricevere questo tipo di rito.
Il funerale si svolse al Palazzo Campbell, nel piccolo giardino che fungeva da cimitero, ed erano presenti tutti i suoi colleghi e colleghe del Rugiada, persino Huber, e alcuni membri del clan Campbell, tra cui, ovviamente, Nikolaj, Tajo e i suoi genitori, Gordon con i suoi figli e qualche altro.
Era la prima volta che Jaime partecipava a un funerale e lo aveva trovato deprimente e orrendamente triste. Finché Gordon parlava, sembrava che la morte stesse volteggiando sopra le loro teste, sussurrando “questa è la fine che farete voi, siete mortali e a tutti spetta questo destino”.
E pensò che, forse, i funerali servivano più alle persone vive che non al morto.
-Non darti colpe che non hai- gli sussurrò Micheal all’orecchio, mentre la tomba di Yana veniva posta in una buca.
-Avrei potuto salvarla- si limitò a dire, cercando di non scoppiare a piangere, anche se gli occhi lucidi facevano ben intuire il suo stato d’animo.
-Ora sei accecato dal dolore, Jaime, lo hai detto tu stesso che non si deve giocare col tempo, no? Non condannarti per questo, la morte arriva per tutti prima o poi.
Jaime avrebbe replicato, se la voce grossa e un po’ roca di Gordon non avesse annunciato la fine del funerale.
C’era anche un rinfresco, ma Jaime non avrebbe partecipato, non se la sentiva di ricordare ancora di più che Yana non era più al mondo.
 
I giorni seguenti al funerale erano stati tra i peggiori della sua vita al Rugiada. Una forte malinconia alleggiava nel locale, come se facesse parte di loro. La morte di Yana aveva risvegliato in tutti ricordi spiacevoli, di persone scomparse da tempo e di una vita che avevano perso.
Jaime non chiudeva occhio da giorni e non perché lo prenotassero la notte. I sensi di colpa lo attanagliavano e gli incubi lo tormentavano, gli attacchi di panico si erano fatti più frequenti, i calmanti che aveva sempre adoperato non facevano più effetto, ma non aveva sufficienti soldi per comprarsene altri.
Sospirò, steso sul suo letto; per colpa dei suoi attacchi aveva saltato un’altra sera. Micheal se ne era andato da un paio d’ore, una volta assicuratosi che stesse meglio, e il rumore del traffico all’esterno era la sua unica compagnia.
Provò a chiudere gli occhi, nel vano tentativo di rilassarsi, ma subito le orribili immagini del cadavere di Yana gli tornarono alla mente.
Spalancò gli occhi blu di colpo e subito dopo sentì un tonfo provenire dal corridoio. Era strano che qualcuno si aggirasse per il bordello a quell’ora, forse si trattava di qualche cliente che si era attardato con qualche suo collega. Per assicurarsi che non si trattasse di un ladro o simili, comunque, prese la pistola dal sotto al letto e si diresse verso il corridoio. Ogni prostituta aveva un arma da fuoco nella camera, Huber si preoccupava molto della sicurezza della sua merce e non avrebbe permesso a nessuno di fare loro del male o di rovinarli.
Certo, era da anni che non usava una pistola, ma, anche se non avesse ferito il delinquente, il rumore dello sparo avrebbe avvisato del pericolo. Jaime, tuttavia, comprese che la pistola non gli sarebbe servita: sdraiato davanti alla porta della camera di Yana, vi era suo figlio Nikolaj. Sembrava avere decisamente un aspetto peggiore di quando lo aveva visto al funerale, con la pelle ancora più pallida, i capelli rossi unti e delle tremende occhiaie sotto gli occhi scuri.
Sapeva che dalla scomparsa della madre, Polanski aveva cominciato a bere molto, ma non immaginava che stesse in quello stato pietoso.
Con movimenti lenti si chinò alla sua altezza per poi parlargli con voce calma e bassa (non voleva di certo svegliare metà bordello)  –Nikolaj, come mai sei qui, hai bisogno di qualcosa?
L’altro ragazzo, però, cominciò ad urlare frasi senza senso, su sua madre e sul suo misterioso assassino, fino a quando Jaime non gli tappò la bocca con una mano, sperando che nessuno si fosse svegliato. Nikolaj provò a ribellarsi per un po’, ma era talmente debole che persino Jaime riusciva a tenerlo a bada, fino a quando non si addormentò fra le sue braccia.
Il giovane sbuffò, guardandolo.
–E adesso che faccio?
Non poteva di certo rimanere lì tutta la notte con un peso di ottanta chili per quasi un metro e novanta di altezza sulle gambe. Con non poca fatica, lo trascinò nel bagno della sua stanza e, appoggiatolo al lavandino, gli posizionò la testa sotto al rubinetto, per poi aprire sull’acqua gelata.
Con un piccolo urlo e un sussultò, Nikolaj si svegliò, ancora brillo ma più cosciente.
-Cacchio che mal di testa- mormorò, mentre si appoggiava alla parete fredda e sporca del bagno, solo in un secondo momento notò Jaime.
-Oh, Ocèan, che è successo?- biascicò confuso, mettendosi una mano sulla fronte.
-Ti ho trovato nel corridoio del Rugiada a urlare cose senza senso, prima di crollare a terra. Così ti ho svegliato con dell’acqua ghiacciata, in modo da farti passare un po’ la sbornia- spiegò brevemente, per poi riprendere a parlare –Riesci a tornare a casa da solo?
Non aveva usato un tono derisorio, era preoccupato per la salute di Nikolaj. In fondo erano stati amici un tempo, oltre al fatto che lui era il figlio di Yana, quindi aiutandolo avrebbe potuto redimersi, almeno un po’, dalle sue colpe.
Nikolaj annuì, troppo orgoglioso da ammettere le sue debolezze, infatti si rialzò barcollando e cadendo subito dopo, si sentiva le gambe come gelatina. Solo dopo un altro paio di tentativi falliti, consentì a un aiuto da parte di Jaime, il quale, sorreggendolo, lo aiutò a camminare.
Per fortuna il tragitto dal Rugiada al palazzo dei Campbell non era molto lungo, anche se Nikolaj non gravava completamente su di lui, era parecchio pesante.
 
Anche se era notte fonda, Tajo non riusciva a dormire. Dalla morte di Yana si respirava grande tensione nel clan. Fra i vari membri girava voce che sul corpo della prostituta vi fosse inciso il simbolo dei Murray, una pantera.
Se ciò era vero, allora presto sarebbe scoppiata una guerra fra clan e lui sapeva che erano in netto svantaggio. Anche se i Campbell erano il clan più grande della Slam City, i Murray avevano fra le loro schiere molti più Skill e armi più sofisticate.
In quei giorni stava accumulando tanto stress e sarebbe andato volentieri al Rugiada, ma le parole di Storm lo avevano sempre fermato. Il solo pensiero che potesse essere causa di dolore per Jaime, lo faceva stare male, anche se non ne capiva il motivo.
In fondo si trattava di una prostituta, che senso aveva preoccuparsi così? Aveva provato ad andare in altri bordelli, ma ogni volta che stava con qualcuno immaginava il suo corpo asciutto contorcersi dal piacere e i suoi occhi blu osservarlo.
Quel ragazzo lo avrebbe fatto impazzire.
I suoi pensieri furono interrotti da dei tonfi provenienti dal corridoio. Sbuffò e scese dal letto, probabilmente era il buttafuori di un qualche locale che riportava a casa un Nikolaj ubriaco. Dalla morte della madre, quel ragazzo aveva perso la testa, uscendo ogni sera a bere fin a non reggersi in piedi. E  dato che lui, in quanto vicino  del ragazzo, aveva una copia della chiave dell’appartamento dell’amico, gli toccava sempre aprirgli.
Stanco di quella situazione, aprì la porta del suo appartamento e rimase molto sorpreso dal trovarsi Jaime a reggere un Nikolaj esausto.
Per un attimo pensò che si trattasse di uno scherzo della sua mente, gli sembrava impossibile che il ragazzo, che tormentava la sua mente da settimane,  fosse davvero davanti a lui.
-Invece di rimanere lì a guardarmi, aiutami! Questo qui pesa!- gli disse a bassa voce con tono  minaccioso, gli occhi blu che brillavano nell’oscurità.
Tajo si riscosse dai suoi pensieri e venne in suo soccorso, sostenendo Nikolaj e aprendo la porta del suo appartamento, per poi metterlo a letto.
-Quel deficiente continua a ubriacarsi da quando è morta sua madre, mi dispiace che ti abbia causato disturbo- si scusò l’ispanico una volta che entrambi furono di nuovo nel corridoio, davanti alla porta di Iglesias.
-Non ti preoccupare, posso capire il dolore che prova.
Gli occhi di Jaime, per un solo istante, si velarono di tristezza e Tajo vi poté leggere tutto il dolore che si portava nel cuore da anni.
Quanto aveva sofferto quel ragazzo?
-Comunque è meglio che vada adesso- mormorò questo, facendo per andarsene.
-Aspetta!- esclamò, forse a voce un po’ troppo alta, trattenendolo per un polso –È pericoloso andare in giro da soli a quest’ora, perché non rimani a dormire qui? Non voglio farti niente, giuro!
Jaime fu sorpreso da quell’invito e valutò per qualche secondo l’offerta. Era strano essere invitati nella casa di una persona che non si vede da settimane, faceva fatica a credere che un suo cliente volesse stare con lui solo per dormire. Poi si ricordò della nottata che avevano passato insieme mesi addietro e si disse che, visto il mittente, una proposta del genere era possibilissima.
Con un sospiro, accettò l’offerta. Se le cose fossero degenerate, comunque, aveva ancora la pistola nascosta in una tasca interna del giubbotto.
-D’accordo, ma dormiamo e basta!
 
L’appartamento di Tajo non era grande e assomigliava a tante altre abitazione della Slam City, con le pareti rovinate e buchi sul soffitto. Era, però, pulito e abbastanza ordinato, se si escludevano alcuni cartoni di pizza sul tavolo e i piatti sporchi nel lavello. Sulle pareti, forse per coprire i buchi dell’intonaco scrostato, vi erano molti quadri e fotografie della Spagna e di paesaggi marini.
-La camera da letto è da quella parte- Tajo indicò una porta sulla sinistra, accennando un sorriso –Io dormirò sul divano.
Jaime osservò il sofà rosso che cappeggiava al centro della stanza, di fronte alla televisione. Era davvero piccolo e Tajo era alto, sarebbe stato scomodo per lui dormire lì.
-Posso stare io sul divano, immagino che tu non dormiresti bene- osservò, cercando di mantenere un tono neutrale.
L’ispanico, anche se riconobbe veridicità nelle parole dell’altro, lo congedò con un gesto della mano.
-Non lascio dormire gli ospiti sul divano! E poi è da notti che non riposo bene, per cui credo che finirò col fare zapping alla televisione.
-In realtà anch’io faccio fatica a addormentarmi, quindi…- mormorò Jaime, era strano avere una conversazione che non includesse il sesso con uno dei suoi clienti.
-Allora vorrà dire che ci terremo reciprocamente svegli!- esclamò Tajo, sorridendo. Aveva notato che l’altro non stava bene, anche se cercava di non darlo a vedere. Qualche distrazione avrebbe fatto bene ad entrambi.
Jaime gli rivolse un’occhiata scettica e stava per ribattere che non avrebbe fatto niente con lui all’infuori del Rugiada, ma, come molte altre volte, il ragazzo lo sorprese.
-Tu scegli un film, i cd sono nel mobile sotto la televisione, io intanto prendo qualcosa da mangiare, preferisci dolce o salato?
Il ragazzo rimase a bocca aperta, guardando l’altro aprire i cassetti della cucina.
-Esattamente che intendi fare?- chiese confuso.
Tajo lo guardò come se avesse fatto la domanda più scema del mondo.
-Guardare un film e mangiare schifezze, no?- spiegò con tono ovvio, tenendo in una mano  un pacchetto di patatine e nell’altra uno pieno di caramelle gommose.
-Allora, dolce o salato?
 
Era da anni che Jaime non faceva una cosa del genere, solo per puro svago. Alla fine aveva scelto un film d’azione, ma tutta la suspense veniva smorzata dalle battute di Tajo su quanto fosse assurda quella situazione o su come si comportava il protagonista, provocando le sue risate.
-Sei più bello quando ridi- gli disse, guardandolo con quegli occhi verde smeraldo e accennando a un sorriso.
Jaime arrossì, maledicendosi perché non poteva avere reazione simili solo per dei complimenti, quel ragazzo lo aveva visto nudo, diamine!
Quella riflessione gli fece venire in mente un altro pensiero.
-Non sei più venuto al Rugiada.
A quell’affermazione l’espressione di Tajo si fece seria, mentre annuiva leggermente.
-La sera stessa del nostro ultimo incontro sono venuto al locale per riconsegnarti l’album da disegno, ma ho incontrato quel tuo collega con i capelli viola, Storm, se non erro. Lui mi ha spiegato che avevi avuto un attacco di panico e io ne ero la causa- spiegò, per poi stringergli delicatamente una mano – Così ho pensato di non farmi vedere per un po’, se la mia presenza di provocava simili cose. E io non ti farei mai di mia spontanea volontà qualcosa di male.
-Lo so.
Fin da quella notte di mesi fa’, in cui avevano parlato di sciocchezze per tutta la notte, aveva capito, seppur inconsciamente, che quel ragazzo non gli avrebbe causato alcun danno.
-E, comunque, Storm a volte trae le conclusioni sbagliate. Non ho avuto un attacco di panico a causa tua, ma per ciò che hai detto- chiarì con voce calma e un po’ dispiaciuta.
Il ragazzo sembrò rilassarsi a quella notizia, ma mille domande vorticavano ancora nella sua mente.
-Non vuoi proprio dirmi perché quel fatto ti ha turbato tanto, vero?
Non era arrabbiato o deluso e, per farglielo comprende meglio, gli accarezzò piano la guancia, con solo la punta della dita, cosa che, aveva notato, gli piaceva molto.
Infatti Jaime sospirò e socchiuse gli occhi, strusciando appena il viso contro la sua mano. A Tajo ricordava un gatto bisognoso di coccole.
-Non adesso, sono cose molto difficile da raccontare per me- spiegò, sforzandosi di non pensare a cose tristi. Tajo annuì e si allungò per lasciargli un innocente bacio sulla fronte, come a fargli intendere che non ce l’aveva con lui, per poi riprendere a guardare il film.
Nell’oscurità Jaime arrossì e, senza nemmeno accorgersene, si appoggiò lentamente al corpo dell’altro, gli occhi blu che fissavano lo schermo.
Pian piano entrambi caddero tra le braccia di Morfeo e quella notte non fu popolata da incubi, ma solamente da occhi blu e sorrisi mozzafiato, da parole non dette e da un qualcosa che stava cominciando.
 
Nei giorni seguenti Tajo e Jaime continuarono a vedersi, sia fuori che dentro il Rugiada. A volte l’ispanico lo prenotava per tutta la notte, non prima di inviargli un messaggio che gli scaldava il cuore.
 
Stasera non truccarti, passiamo tutta la notte a guardare film e mangiare schifezze!
Tajo
 
Passavano intere nottate a ridere, parlare e, , baciarsi. Degli innocenti e brevi contatti, come un bacio a stampo sulle labbra, sulla fronte o sulla guancia, dati per scherzo o forse no, ma a nessuno dei due importava molto, non erano ancora pronti per definire la loro relazione a più-che-amici. Almeno non finché entrambi vivevano nella Slam City e svolgeva i loro lavori, le storie d’amore fra un membro di un clan e una prostituta raramente finivano bene.
Qualcosa, però, cambiò il giorno in cui, nell’appartamento di Tajo, questo consegnò un disegno a Jaime.
L’unico colorato dell’album scuro, rappresentante due occhi blu belli quanto tristi. Se l’era tenuto per sbaglio, ma più lo guardava, più gli piaceva e aveva deciso di tenerselo per un po’. Ormai, però, era tempo che tornasse dal suo proprietario.
Quel giorno Jaime, guardando quegli occhi che continuavano a tormentarlo negli incubi, prese un’importante decisione, ammettendo di fidarsi di Tajo completamente.
-Voglio raccontarti una storia- mormorò, senza staccare lo sguardo dal disegno. Sapeva di dover ancora una spiegazione all’amico, almeno quello glielo doveva.
-Quale?- domandò Tajo, sedendosi sul divano accanto all’altro.
-La mia.










Note:
[1] So che in quest’ultimo pezzo Jaime potrebbe sembrare una persona incoerente, perché, in precedenza, ha ribadito più di una volta che non può salvare Yana, dato che non è bene interferire col tempo.  Credo, però, che un conto sia pensare alla morte di una persona, un’altra vederla e capire che, effettivamente, lei non ci sarà più.
Quindi i pensieri di Jaime, da qui fino a fine capitolo, sono offuscati dal dolore e non perfettamente razionali e coerenti. 




   
  
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