Capitolo
4 – Lonely People
Part
3/3
È
strano come il cervello umano riesca a formulare mille pensieri e
progettare altrettante congetture in quello che potrebbe essere
considerato davvero un piccolissimo spazio di tempo, come un millesimo
di secondo.
L’abbraccio tra Michael e Katy si era sciolto
nell’arco di qualche battito di ciglia, eppure io ero caduta
in un vortice di emozioni e strane sensazioni difficili sia da
decifrare per la loro complessità sia da elencare tutte
senza rischiare di tralasciarne qualcuna.
La dolcezza di quell’immagine aveva avuto la stessa forza di
uno schiaffo, ne portavo ancora i segni sul viso.
Ero addirittura riuscita ad andare indietro nel tempo, quando a 4 anni
ero io ad essere stretta in quel modo da un uomo con gli stessi occhi
scuri e grandi, che io chiamavo “papà”.
Non so perché mi venne in mente proprio quella scena, forse
ci avevo trovato lo stesso livello di amore o forse la mia mente mi
giocava brutti scherzi.
Ormai non sapevo più cosa pensare. Cominciavo a pentirmi di
essere andata a quella benedetta festa.
Ancora con gli occhi distolti, sentii distrattamente la voce di Michael
suggerire a Katy quanto fosse stata brava ad interpretare il suo
personaggio nello spettacolo.
Cercai di riportare l’attenzione sulla scena che avevo di
fronte.
La timidezza di Katy sembrava essersi dissolta nel nulla, era tornata
ad essere la bambina testarda e coraggiosa che avevo imparato a
conoscere e ad amare.
Sorrisi nel vederla finalmente ridere.
<<
Tutto bene signorina? >>.
Mi girai in direzione di quel suono, non senza fare un piccolo saltello
dalla sorpresa.
Il bodyguard di Michael si trovava al mio fianco, occhi puntati dritti
nei miei, il capo leggermente piegato.
Da dove era saltato fuori? Sembrava avesse agito furtivamente
perché non mi ero proprio accorta di nulla, ma la colpa
doveva essere soltanto mia. In fondo, ero tornata in me solo qualche
secondo prima.
<<
Si, tutto bene. Perché? >>, chiesi, sulla
difensiva.
<<
Sembrava sovrappensiero ed anche turbata. Credevo stesse male
>>.
Riflettei un attimo su quelle parole prima di rispondere. Non ci vedevo
nulla di male in quell’interessamento, per cui tornai ad
essere serena.
<<
In effetti ero sovrappensiero. E parecchio direi. Ma sto bene, non si
preoccupi >>, sorrisi del tutto sincera.
<<
Oh bene. Comunque, mi scusi per non essermi presentato prima. Sono Bill
>>.
Allungò la mano aspettando la mia. Gliela strinsi, cordiale
ma anche rilassata, non scorgevo nessuna mal intenzione in
quell’omone. Sembrava uno di quei personaggi che si vedono
nei film, quelli che sono costretti a fare la parte dei duri
esclusivamente a causa della loro stazza, ma che in verità
è un ruolo che non ricoprono nella vita reale.
<<
Salve Bill, io sono Isabella >>.
<<
Lo so >>, disse ridendo.
<<
Lo sa? E come? >>, chiesi, stupita.
<<
Sua madre oggi non ha smesso di parlare di lei a Michael, ed io,
standogli vicino visto che sono la sua guardia del corpo, ho sentito
tutto >>, concluse a trentadue denti.
Oh, ma certo. Mia madre.
Giuro
che se ha detto qualcosa che …
<<
Non faccia quell’espressione >>, disse
divertito. << Mi creda, non ha detto nulla di cui si
debba preoccupare, anzi >>.
E invece no. Quando c’era di mezzo mia madre, c’era
sempre qualcosa di cui mi dovevo preoccupare. Volente o nolente, quella
donna era capace di catastrofi a livello globale. Non a caso il suo
livello di pericolosità era inversamente proporzionato alla
sua statura. Ci
trovavamo di fronte ad un’arma letale.
<<
Non saprei, la conosco troppo bene per starmene tranquilla
>>, dissi, visibilmente preoccupata.
<<
Chi è che conosci troppo bene? >>.
Parli
del diavolo …
La
testa di mia madre fece capolino al di sopra della mia spalla,
raggiante come solo lei poteva essere. Mi guardava come se sapesse
già ogni cosa, come se lei avesse la risposta per ogni
dilemma e il suo chiedere fosse solo un tentativo per rompere il
ghiaccio.
Alternai gli occhi da lei a Bill, alla ricerca di una qualche fonte di
ispirazione per architettare una bugia plausibile all’ultimo
momento.
L’aiuto arrivò inaspettato, ma non per questo meno
apprezzato.
<<
Beth! >>, esordì una voce sottile.
<<
Michael! Lascia che ti faccia i miei complimenti per il bellissimo
discorso di poco fa. Come sempre sei di grande ispirazione sia per i
grandi che per i piccoli, e grazie di cuore per la donazione.
È il gesto più importante e significativo che
questo orfanotrofio abbia mai ricevuto da un’unica persona.
Grazie davvero >>.
Una volta finito di parlare si avvicinò a Jackson e lo
abbracciò forte, non solo come fosse una fan, cosa che
effettivamente era, ma soprattutto per esprimergli semplicemente tutta
la sua gratitudine.
Mi ritrovai a sorridere nel guardarla abbracciare quello che poteva
considerarsi il suo più grande idolo. Ero quasi certa che se
fosse stata più giovane avrebbe cercato di sedurlo, tanto
era perfetto ai suoi occhi.
Oddio,
Michael Jackson come patrigno …
Sgranai
gli occhi e risi apertamente, coprendomi subito dopo la bocca con una
mano. Mi scusai imbarazzata con i presenti, intenti a guardarmi
stranamente e riposi da parte qualsiasi pensiero surreale.
Sciolto l’abbraccio, Michael si girò verso noi ed
altre persone che nel frattempo ci avevano raggiunto.
<<
Per quanto strano possa sembrare, sono io che vi ringrazio di cuore.
Stasera il più bel regalo l’ho ricevuto io stesso.
Questo è il primo Natale che festeggio >>,
disse piano, come imbarazzato, ma sorridendo di un’emozione
che sembrava pronta per esplodere, tanto era potente.
Non parlò nessuno in quel momento, o almeno così
parve alle mie orecchie.
In quell’istante capii parte di quella nota malinconica che
avevo scorto qualche ora prima, e perché mentre parlavo
della mia giornata di Natale i suoi occhi erano talmente interessati.
Per lui si trattava solo di un’idea,
un’immaginazione, niente che realmente avesse vissuto.
Quando arrivai alla conclusione di quel pensiero, mi resi conto che il
silenzio era da tempo stato spezzato da coloro che ora circondavano
Michael propinandogli quante più domande riuscissero a
formulargli.
Gli occhi di tutti, compresi i miei, erano puntati su di lui, che in
quel momento sembrava essere diventato un essere a due teste, lontano
da ogni comprensione umana, giudicato nella sua diversità.
Mi diedero fastidio quegli occhi indagatori, mi sembravano troppo
giudiziosi e insistenti. E le domande martellanti non facevano che
aumentare la tensione in quel viso delineato, accentuando il guizzo
malinconico di cui si nutrivano le iridi castane.
Frustrata, mi decisi a zittire tutti.
<<
Mamma mia, io sto morendo di fame, e voi? >>, quasi urlai.
Scatenai qualche risolino divertito e ci fu un’approvazione
generale, in men che non si dica la maggior parte della folla si
disperse davanti il lungo tavolo da buffet, portandosi dietro
l’imbarazzo dal viso di Michael.
Sospirai come se io stessa mi fossi tolta un peso e accolsi il
ringraziamento subliminale che lo sguardo di Michael mi rivolse, prima
di essere trascinato via da Katy e altri bambini. Era riconoscente e
sollevato.
Anche se nemmeno io sapevo bene perché lo avessi fatto, mi
sentii allo stesso modo più serena. Non ero mai stata in
confidenza con l’attenzione in generale, soprattutto quando
non era per nulla desiderata né richiesta. E poi mi sembrava
di stare ad indagare troppo a fondo nella vita privata di qualcun
altro, avevo avuto l’impressione che gli stessimo facendo del
male, noi e i nostri occhi.
Uscii dalla porta secondaria per non correre il rischio di trovarmi di
fronte quell’orda schiamazzante di fan. Non avevo
però fatto i conti con l’aria gelida di una notte
d’inverno, il cui vento, seppur leggero, aveva la
capacità di pungere la pelle come una moltitudine di aghi.
Chiusi bene il cappotto, avvolgendomi la parte alta intorno al collo,
premurosa di non lasciarmi ammalare, visto che la maggior parte delle
volte mi riusciva piuttosto bene. Trovai un angolo appartato dove
appoggiare la schiena, abbastanza al riparo dallo sferzare del vento e
rimasi lì, immobile, cercando di scovare una stella, una di
quelle che d’inverno coraggiose sfidano il cielo terso e la
loro luce si impone al buio della notte.
Seppure il buio non fosse più mio amico da molto tempo,
amavo ancora la notte perché portava con sé le
luci migliori.
C’erano molte stelle quella sera, per mia fortuna. Alla sola
vista riuscii a rilassarmi, resettare la mente e bearmi di
ciò che quel palcoscenico illuminato aveva da offrire.
Ad essere sincera era un mero tentativo di impegnare la mente, uno dei
più banali anche, ma stava avendo i suoi frutti.
Se non che …
Nello stesso attimo in cui sentii quei colpi nel petto, avvertii il
rumore cadenzato di passi lenti calpestare l’erba bagnata.
Trattenni il fiato, pregando di ritrovarmi davanti un viso familiare.
E, stranamente, così lo reputai.
Michael aveva un’espressione furbesca, di chi era appena
diventato l’artefice di qualche marachella e una volta
fuggito poteva finalmente godersi l’audacia delle sue gesta.
Ma cambiò non appena mi vide in viso, sgranando
impercettibilmente gli occhi e schiudendo la bocca, prima tesa a
formare un ghigno.
<<
Isabella, tutto bene? >>, chiese forte e deciso.
Deglutii e presi un bel respiro. Dal di fuori dovevo essere sembrata
parecchio agitata.
<<
Si >>. La voce uscì roca, avvolta dalla paura
che prima aveva saputo come prendere il controllo delle mie emozioni,
ancora una volta.
<<
Scusami, non volevo spaventarti >>.
Scossi la testa, se non altro per non aprire di nuovo bocca, ma quando
vidi tornare a far capolino l’espressione birichina di poco
prima, mi sentii costretta a muovere le labbra.
<<
Che ci fai qui fuori? >>.
Si avvicinò di qualche passo, e solo allora mi accorsi di un
pacchetto incartato in quello che sembrava essere un modo sbrigativo,
tenuto insieme dalle sue mani.
<<
Pensavo di farti compagnia. Ero andato in bagno, quando da quella
finestra – alzò una mano per indicare la suddetta
– ti ho vista qui da sola. Sono corso in sala, ho preso due
pezzi di torta e me la sono svignata di nascosto >>,
concluse, trionfante.
<<
Sicuro che nessuno ti abbia visto? Nemmeno Bill? >>.
<<
Bill sa fare molto bene il suo lavoro, ma io col tempo ho affinato la
mia tecnica di fuggitivo >>, rise, ed io con lui.
Srotolò la carta che teneva tra le mani e mise in bella
vista tutta la refurtiva che aveva portato con sé.
<<
Tieni. Devi provare questa torta, è divina! Non avevo mai
assaggiato l’accostamento mele e cocco, non sapevo nemmeno
che potessero coesistere nella stessa torta, e invece mi sono dovuto
ricredere. Ne ho già mangiati due pezzi >>.
Mi porse davanti agli occhi la protagonista di tanto clamore, quella
che sembrava essere, da come ne aveva parlato, la torta più
buona del mondo.
La mia.
Mi piegai in due, liberando la risata che era nata in me.
La situazione aveva un ché di surreale, mi sembrava di
essere stata vittima di una candid camera e che da qualche parte
qualcuno stesse ridendo del suo stesso scherzo. E invece era tutto
reale, Michael aveva portato proprio la mia torta ed ora mi guardava
con un sopracciglio alzato, confuso ma divertito.
Presi una fetta di torta e lo invitai a fare altrettanto con
l’altra.
<<
Sei molto gentile, riferirò alla cuoca i tuoi complimenti
>>, dissi, prima di addentare un pezzo.
<<
Aspetta … - rimase a guardarmi, mentre io me la ridevo sotto
i baffi – l’hai fatta tu, non è vero? La
torta è tua >>.
Sorrisi e annuii brevemente. Mise una mano davanti agli occhi e
girò il viso da tutt’altra parte.
<<
Non posso crederci, che figura! >>.
Ridemmo entrambi di quel momento buffo, mi servì per
spezzare la tensione, non ancora sciolta dai muscoli del corpo.
<<
Un giorno dovrai darmi la ricetta >>.
Aveva le sembianze di una promessa, non di una frase buttata
lì da una Star.
<<
È una ricetta segreta, mi spiace. Me l’ha
tramandata mio padre ed io la tramanderò solo ai miei figli
>>.
Non se la prese, anzi sorrise, con gli occhi e la bocca, guardandomi
pensieroso dall’alto di quei pochi centimetri
d’altezza che ci separavano.
Mangiammo in silenzio, in piedi una di fianco all’altro,
infreddoliti e con il vento gelido che non aveva smesso un solo istante
di soffiare, sempre più avido e arrabbiato nel colpire tutti
i corpi animati e non, che ostacolavano il suo passaggio.
Michael aveva tenuto la testa alzata tutto il tempo, contemplando il
fascino del cielo o forse immerso nei suoi stessi pensieri. Io invece
lo guardavo di sottecchi, come presa da un’improvvisa
esigenza di comprendere l’uomo al mio fianco e il suo strano
modo d’essere, così fuori dal comune,
così delicato.
Io e la delicatezza facevamo a pugni il più delle volte.
Faticavo a trovarne anche un solo briciolo nelle persone, e quando poi
me la ritrovavo davanti fuggivo via, disabituata a parole o gesti
delicati. In verità, la paura era quella di essere
“letta”, poiché solo chi possiede un
animo sensibile è capace di vedere oltre, ma io mi
nascondevo dietro il falso pensiero che scontrarsi contro la cruda
realtà, contro l’arroganza di tutti i giorni era
molto più facile per chi ogni giorno era costretto ad
indossare una maschera come me.
La brutalità è un atteggiamento che ti permette
di attaccare a tua volta, la sensibilità invece ti costringe
ad abbassare la testa e a buttare le armi.
Abbassai il capo, chiedendomi se valesse o meno la pena rispondere.
Non era un argomento che volevo affrontare, si scontrava troppo con
ciò che ero diventata da qualche anno. Parlare di mio padre
era causa di un’angoscia istantanea, di una consapevolezza
che si presentava quando mi accorgevo per l’ennesima volta
che non l’avrei più rivisto, che c’era
stato ma che non c’era più e più ci
sarebbe stato.
Avevo uno strano modo di affrontare il dolore, io. Quando me lo
ritrovavo di fronte, invece di osservarlo, analizzarlo e lasciarlo
confluire in me per comprenderlo e trovare un modo per andare avanti,
gli voltavo le spalle testarda, risoluta nel non voler condividere il
mio mondo con cose più grandi di me, come la morte di una
persona cara.
Ancora adesso, parlarne mi costava caro. Preferivo pensare che non
fosse mai successo, e che in fondo, non importasse poi tanto. Lasciare
questi pensieri nella mia testa mi aiutava a non guardare negli occhi
il dolore, perché dar loro voce significava parlare con il
dolore stesso, dargli modo di esprimersi e di infiltrarsi in me,
sbattendomi in faccia la realtà.
Ero quindi pronta a sviare quel discorso, a comportarmi dalla codarda
che ero, ma le parole che uscirono sembrarono avere vita propria.
<<
È successo il 13 aprile di diciotto anni fa. Io avevo
all’incirca 7 anni >>.
Avevo sputato fuori quelle parole il più velocemente
possibile, in modo da non lasciare il tempo al cervello di cambiare
intenzione e tornare in modalità difesa. Sorprendentemente
il tono era calmo e sereno, come il sole di inizio primavera, timido e
un po’ fuori forma dopo essere stato tanto tempo in letargo.
<<
Mio Dio, eri piccolissima >>, commentò
aggrottando le sopracciglia.
<<
Vero, ero solo una bambina >>.
<<
Di cosa è morto? >>.
<<
Oh, il termine scientifico sembra essere Leucemia
mieloide acuta … ma
questo l’ho imparato solo da qualche anno. Non mi
è mai importato realmente di dare un nome alla malattia.
Sapevo solo che qualcosa di cattivo stava facendo del male a mio padre
e che quel qualcosa gli stava togliendo tutta la sua dignità
– respirai, prima di continuare, bloccata da un improvviso
macigno al petto - L’ho odiato! Avrei voluto affrontarlo
faccia a faccia, intimargli di lasciar stare mio padre, ma combattere
senza avere un avversario di fronte non ti farà mai vincere
la partita. Per tanto tempo ho tirato pugni a vuoto, e alla fine, ho
perso l’incontro >>.
Chiusi qualche attimo gli occhi, concentrandomi per rimanere
controllata.
Dicono che basta poco per crollare, ma di solito a me bastava un niente.
<<
Non c’era nulla che tu potessi fare realmente Isabella. Ma
hai combattuto per lui, sei stata tenace per lui, e questo deve avergli
dato molta forza fino all’ultimo istante della sua vita
>>.
Era un pensiero quello che aveva lo stesso effetto di un balsamo
lenitivo.
<<
Sono addolorato per la tua perdita. Eri troppo piccola. In tutto questo
periodo deve esserti mancato molto >>.
<<
Ci si abitua a tutto, Michael. Il tempo sa essere paziente con chi ha
bisogno di guarire, alla fine lenisce qualsiasi dolore
>>, risposi, atona.
<<
Hai ragione – tornò a guardare davanti a
sé, la voce divenuta flebile - è così
che funziona. Purtroppo però, tu non sembri né
abituata né guarita >>.
Strinsi i pugni, all’improvviso timorosa di uscire allo
scoperto. Perché me lo diceva? Perché
ciò che provavo doveva essere così tangibile solo
a lui? Forse aveva qualche strano potere nascosto, forse riusciva ad
intravedere al di là della facciata superficiale di
chiunque, a scorgere ciò che si trovava nel profondo. O
forse ero io che stavo abbassando le difese, che permettevo di far
vedere oltre, di mettere a nudo qualsiasi cicatrice, stanca di quella
serata troppo impegnativa a livello emotivo.
Sentii l’impulso di coprirmi gli occhi con le mani,
vergognosa di quello che mostravo, ma mi trattenni.
<<
Lo ammetto, è vero, dentro di me sento ancora che avrei
potuto fare di più, che sarebbe potuta andare diversamente.
E che mi manca, molto … - dissi a fatica – Ma sono
anche consapevole che se mi ci fermo a pensare torno ad essere la
bambina di 7 anni che piangeva in ospedale, ed io non posso
permettermelo, Michael, non adesso che ho altro su cui concentrarmi
>>.
Altri
dolori da nascondere.
Lo
sentii annuire lentamente, come chi rimane sovrappensiero e non
è più in pieno contatto con la realtà,
ma con ciò che gli circola in testa.
Di sicuro, quella volta non avevo nascosto nulla, nulla che potesse
trovarsi al riparo dentro la mia corazza. Alcune parti erano state
lasciate libere apposta, alla mercé di un uomo che insisteva
nel voler abbattere qualsiasi muro gli si ponesse sulla strada.
<<
Concentrarsi su altro fa bene, lo so perché è una
tecnica che uso anch’io - disse, qualche istante dopo
– Vedi, a volte è l’unica cosa da fare,
la più facile se vogliamo dirla tutta. Per quanto triste
possa sembrare, ognuno ha i suoi problemi nel mondo, sono pochi quelli
che li affrontano, molti preferiscono nascondersi >>.
Non gli dissi quanto avesse ragione dato che io per prima facevo parte
dell'ultima categoria.
<< Tu dove ti nascondi?
>>, chiese dopo un po’.
Aveva un tono che mi costrinse a girarmi. Non c'era accusa nei suoi
occhi, anzi, era per la prima volta dopo quel lungo discorso,
emozionato e curioso di scoprire qualcosa di nuovo e di importante, a
giudicare dall'intensità dello sguardo.
Sorrisi inavvertitamente, posando l'attenzione sulle luci del cielo.
<< Dietro la lettura di un buon
libro. Credo che le parole siano l’arte più
preziosa e i libri lo strumento capace di rievocare e a volte
addirittura creare immagini ed emozioni dal solo utilizzo di una parola
o una frase ben formulata. Sono una via di fuga, un universo parallelo
al nostro, inviolabile perché segreto ed intimo.
È la solitudine di una compagna silenziosa che cura
l’anima >>.
Mi rigirai verso di lui e lo trovai a guardarmi con il suo perenne
sorriso sul volto. L’ombra di una qualche forma di emozione,
forse l’empatia, a posarsi sul viso.
Chissà se anche
lui è uno di quelli che si nascondono.
<<
E tu ... tu anche ti nascondi? >>, azzardai, sentendomi
subito dopo una stupida.
Lo guardai attentamente per osservare ogni sua reazione.
Mi sembrò di vederlo vacillare un attimo prima che la sua
solita aria serena tornasse a far capolino sul suo viso.
Tuttavia non riuscii a scrollarmi di dosso la sensazione di aver
oltrepassato un confine che doveva rimanere invalicato.
Mi sentii molto invadente, nonostante fosse stato lui il primo ad
introdurre quell'argomento, spingendo il discorso in ambiti personali.
Come previsto non rispose, si limitò a sorridermi, forse
indeciso se, per una volta, lasciare andare se stesso.
In preda alla più grande impazienza che avessi mai
sperimentato, aspettavo di vederlo aprire bocca, di sentire quelle
poche parole che, avevo come l’impressione, sarebbero state
un tassello importante per spiegare il complesso puzzle che era
quell’uomo.
E nel momento in cui stavo perdendo le speranze vidi schiudergli le
labbra, lo sguardo più sereno, come avesse combattuto una
grande battaglia e ne fosse uscito vincitore.
<<
D… >>.
<<
Michael! Eccoti, ti ho cercato dappertutto! >>.
Bill ci raggiunse con la stessa ferocia che la sua imponente mole era
in grado di mostrare.
Michael si alzò all’istante. Avrei voluto vedere
la sua espressione ma ciò non mi fu concesso
perché mi diede le spalle ed io mi ritrovai a pensare che
forse quel puzzle non sarei mai riuscita a completarlo. Non mi chiesi
perché ne sentii il bisogno, preferii non farlo.
Tornammo insieme alla sala principale dove Jay era pronto ad
intrattenere i bambini con il suo costume da Babbo Natale.
Michael
era tornato a sorridere come se nulla fosse successo e la cosa mi
infastidì parecchio.
Avevo rivelato molto di me stessa, più di quanto avessi mai
fatto con estranei, e l’ultimo discorso era rimasto in un
angolo piuttosto attivo della mia mente, esposto fin troppo da non
lasciare spazio ad altri pensieri di intrufolarsi e permettermi di
distrarmi.
Fu così per quasi tutta la serata, fino a quando, finito
ogni spettacolo, incrociammo gli occhi e i suoi sembravano volessero
rivelarmi qualcosa di segreto che non riuscii a comprendere,
né trovai un qualche indizio nel sorriso che mi rivolse.
Tuttavia, il nero di quello sguardo mi parve più scuro del
solito, e il sorriso, solitamente aperto a distendergli in pieno le
labbra, adesso soltanto accennato, fermato da qualche forza invisibile
che lo rendeva spento e in costante conflitto con se stesso.
E purtroppo devo dire che sarà così anche per i
prossimi capitoli, non credo che riuscirò ad aggiornare con
una certa regolarità a causa di impegni lavorativi che mi
tolgono quel poco tempo libero che ho.
Mi sembrava giusto informarvi di ciò.
Per il resto, buona lettura e un bacio a tutti.
Martina <3