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Autore: White Trash    26/08/2015    2 recensioni
«E poi, diavolo, guardami in faccia quando ti parlo!»
Bill si fermò, quasi paralizzato e, con una lentezza inquietante, si voltò lentamente verso il rasta, gli occhi semi ricoperti dalla frangia.
«Sono cieco, razza di coglione».
Genere: Drammatico, Romantico, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
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Bill si fermò, quasi paralizzato e, con una lentezza inquietante, si voltò lentamente verso il rasta, gli occhi semi coperti dalla frangia.

«Sono cieco, razza di coglione».

 

Quella frase rimbombava nella testa di Tom da ore ormai. Persino la ramanzina del signor Trumper o quella di Andreas non gli provocò nessun tipo di effetto.

Aveva fatto una abnorme figura di merda, anche se…

Perchè farsi un tatuaggio se si è ciechi? Tom non lo capiva, chi aveva scelto il colore, la grandezza, il modo in cui la catena doveva spezzarsi, il punto preciso, come cazzo faceva quel tipo se non vedeva niente?

 

Il rasta si prese la testa fra le mani, cercando di scacciare via tutte quelle domande che, sapeva, non avrebbero mai avuto risposta.

Si trovava nel salone di casa sua, seduto sul divano. In TV trasmettevano un vecchio film di fantascienza e tutto ciò che vedeva, leggeva, sentiva, gli ricordava quello strano tizio truccato e suo padre, ma, soprattutto, l’enorme figuraccia che aveva fatto!

In effetti, ora si spiegava perché il moro non lo guardasse mai negli occhi, capiva perché aveva perennemente lo sguardo abbassato, anche se il suo modo di muoversi era sciolto e, apparentemente, Tom non aveva notato assolutamente niente di anomalo, nei suoi occhi. Anche se, ricordò, non li aveva visti affatto.

Li abbassava troppo velocemente, quasi vergognandosi di mostrarli, eppure Tom stava cominciando a covare una curiosità morbosa verso quell’essere umano.

Cosa strana per lui che era conosciuto proprio per la sua cattiveria verso questi individui.

Quando Bill gli aveva sputato in faccia quelle parole, Tom non potè fare altro che sgranare gli occhi e balbettare una serie di patetiche scuse al ragazzo e al padre che, nel frattempo, si era avvicinato al figlio con fare protettivo.

Per un istante, Tom aveva perso quella perenne espressione da duro che lo caratterizzava e, a dirla tutta, ringraziò che il tizio truccato non potè vederlo, non potè vedere quando, con una frase, tutto il suo essere macho si fu dileguato in quel momento.

Ad ogni modo il tatuaggio era finito, perciò non avrebbe mai più rivisto quello strambone. Tirò un sospiro di sollievo e, sentendosi enormemente stanco, si lasciò ricadere sul divano.

 

*
  

«Bill, tesoro, è pronta la cena!»

Il tatuaggio non gli faceva più male, era un fastidio sopportabile ed il braccio non era più arrossato. Stava applicando la crema che quel tizio gli aveva prescritto, quando si soffermò a rimuginare al giorno prima.

Era abituato a vivere certe esperienze e a ricevere scuse su scuse quando qualcuno, dopo anche un’ intera serata, si rendeva conto che il moro fosse cieco. Questo perché i suoi occhi erano perennemente nascosti dalla frangia, questo perché in compagnia camminava a contatto di gomito o mano con qualcuno, rendendo la sua figura e il suo passo assolutamente sciolti. Questo perchè usava un IPhone, un PC, questo perché si truccava, perché aveva piercing, tatuaggi.

Per la gente il cieco in sé non dovrebbe avere certe caratteristiche, eppure Bill le aveva e, da un certo punto di vista, odiava questo aspetto di se stesso.

Da quando perse la vista all’età di 12 anni la situazione psicologica dell’impatto non fu poi così grave. Anzi, non aveva mai visto uno psicologo in vita sua, ma da qualche anno a quella parte le cose erano cambiate.

Odiava quelli come lui, perché tendevano a frequentarsi fra di loro, a crearsi mini sette che, puntualmente, erano circondate da una fitta nebbia di vittimismo. Bill odiava i ciechi, quando anche lui era uno di loro, ma non si sentiva tale, ecco.

Lui voleva fare cose normali, viaggi con i suoi amici, con persone vedenti e, ok, se ci fosse stata l’occasione, non avrebbe disprezzato qualche amico cieco, per carità. Il fatto era che la maggior parte delle persone come lui tendeva ad aumentare quella…diversità che già, a dirla tutta, li contraddistingueva.

Ecco perché evitava i gruppi su Facebook, gli incontri per discutere delle loro “problematiche” legate alla malattia, ecco perché storceva il naso al sol sentir parlare di associazioni e cose varie.

Bill non rifiutava, Bill era realista. E molte persone, nella sua situazione, erano delle fottute vittime.

E lui odiava le vittime.

 

Sentì la madre richiamarlo per la quinta volta, ma non se ne curò affatto. Scosse la testa e si lasciò ricadere sul letto, prendendosi quest'ultima parte del corpo fra le mani, stringendosi con forza i capelli fra le dita.

Non aveva mai parlato apertamente con nessuno della sua storia, perché nessuno si era mai, diciamo così, realmente interessato a lui. Le solite domande da parte di tutti, la curiosità, poi l’abbandono.

«Ma, oddio, come fai?»

«La tua malattia è curabile?»

E altre cazzate simili. La sua situazione era difficile, schifosamente difficile. E la gente non faceva altro che peggiorarla, perché la gente semplicemente era superficiale con le persone come lui.

Era un bel ragazzo, con un carattere abbastanza interessante. Non era noioso, tutt’altro. Ma lui era cieco. E se lui era cieco, il resto non contava, perché aveva un problema e nessuno era mai andato oltre, nessuno. Nessuno tranne Friedrich, uno dei suoi unici e veri, amici. Lui lo aveva accettato e, anche se il loro rapporto non era fatto di abbracci, esternazioni e pianti, a Bill andava bene così.

I due a modo loro si confidavano, anche se l’amico era un po’ restio ad ascoltare i problemi della gente. Eppure andava bene, perché era…tutto normale. E la normalità andava bene.

«Sì, cazzo, ora scendo!» Gridò il moro, all’ottavo richiamo della madre che stava minacciando il figlio di sfrattarlo di casa assieme a quella bestia feroce del suo cane.

Rania, uno splendido esemplare di pastore tedesco era un altro dei compagni fedeli di Bill. Quest’ultimo odiava a morte quel fottuto bastone bianco, perciò dopo un forzato corso di orientamento con quella “cazzo di bacchetta”, finalmente entrò in scena il bellissimo cagnolone che, in quel momento, era sdraiato accanto al moro sul materasso.

 

«Papà, devo proprio?»

«Bill, sono le regole, devi saper camminare anche con il bastone bianco».

«Papà, ti prego, sembro un coglione con sto affare in mano». 

«Oh, andiamo, io penso invece siate una bella coppia!»

«Quando tutta questa sceneggiata demenziale sarà finita, compreremo un cane, vero? Col cazzo che giro con st’affare, papà!»

 

 

Tom si svegliò con un incredibile mal di testa. La televisione era ancora accesa e lui era ancora in salone, doveva essersi addormentato per i troppi pensieri in testa e la stanchezza che questi gli avevano provocato.

Si scosse lentamente  e solo dopo qualche minuto realizzò che il telefono stava squillando in una delle sue tasche. Impiegò un altro paio di secondi per trovarlo e il nome di Andreas illuminava lo schermo, quando lo afferrò saldamente in mano.

Era un suo sms: "Glory stasera?"

Il rasta sorrise. Sapeva sempre tirarlo su, quando serviva e il Glory era uno dei locali preferiti di Tom.

"E me lo chiedi? Ci vediamo li!" scrisse, inviando poi l’sms.

 

Quella sera, nessun pensiero sfiorò minimamente l’argomento “Bill”.

 

-

 

Tom arrivò puntuale come sempre, in sella alla sua moto costosa. I rasta perfettamente in ordine, i blue jeans e la maglietta larga nera gli conferivano un aspetto casual, ma particolare nel suo insieme.

Si guardò attorno e, non vedendo Andreas, ritardatario come al solito, ne approfittò per accendersi una sigaretta, ghignando alle occhiate meravigliate delle ragazze che, entrando nel locale, si fermavano ad  osservare ammaliate prima la moto, poi il proprietario.

Dopo venti minuti circa, trafelato come al solito arrivò, Andreas che, quella sera, non era di certo il suo capo. Quella sera erano amici, amici che volevano sballarsi alla grande.

 

“Ehi, Kaulitz, quando la smetterai di darti tutte quelle arie?”

Risero, dandosi un paio di pacche sulla spalla.

 

“Sai Andy, dovrei trattarti bene perché mi paghi, ma la verità è che fra i due, sono io il più figo”

Andreas si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Era abituato al narcisismo del suo amico, perciò non disse nulla.

Entrarono nel locale e furono investiti dal familiare puzzo d’alcool e fumo, il tutto reso ancora più confusionale dalle luci stroboscopiche e dalla musica ad alto volume.

“Stasera offro io!” urlò Tom, indicando il bancone.

Il barman servì ad entrambi due Long Island ed un Cosmopolitan in omaggio che Tom rifiutò visibilmente infastidito, mentre Andreas si contorceva per le risate.

 

“Cazzo, Tom. E’ solo un drink, bevilo!”

“Ho la faccia di uno che beve drink da gay?” disse, indicandosi con fare fiero.

“Uh, beh, no. Però il Cosmopolitan è un buon drink”

Tom scosse la testa ed ordinò altri due drinks, dopodiché un paio di shots che tracannò in meno di due secondi.

“Un giorno mi spiegherai perché ce l’hai tanto con i gay”, borbottò Andreas, ma il rasta riuscì a comprenderlo tramite il labiale.

 

“Il diverso fa schifo”

 

 si limitò a rispondere, mentre si  torturava il labret, alla ricerca di una bionda da portarsi in pista e…anche in bagno.

Quello sguardo attento e anche un po’ arrapato fece capire ad Andreas che il discorso era finito. Perciò quest’ultimo si alzò e, dopo un terzo shot, diede una pacca piuttosto forte all’amico che nel frattempo aveva già adescato la sua preda.

“Buona fortuna, io vado a fumare una sigaretta”

Ma Tom non lo stava ascoltando, era partito in modalità macho. Così si alzò e, con passo deciso, si avvicinò alla ragazza in fondo alla sala, circondandole la vita con un braccio. Un paio di parole sussurrate e la bionda era già in bagno, in ginocchio, a darsi da fare con Tom.

 

 

 

Nel frattempo, Bill era raggomitolato fra le calde lenzuola della sua stanza, il portatile sulle gambe,  a scrivere una poesia.

Ci stava lavorando da un paio di giorni ma, a causa dei suoi frequenti mal di testa, era stato costretto a rimandare più di una volta. Si sistemò le cuffie in modo tale da non svegliare nessuno con la sintesi del suo PC e ricominciò a battere sulla tastiera. Le idee chiare, le parole uscivano come un fiume in piena.

Si bloccò solo quando sentì il telefono vibrargli sotto il sedere, vibrazione che intanto aveva svegliato Rania.

Non si curò di vedere chi fosse, si limitò a rispondere un po’ scocciato.

“Sì, pronto?”

 

“Ehi, Trümper! Tu stasera esci con me, ho voglia di bere”

Il moro sospirò, sapeva a chi appartenesse quella voce.

“Fri, quando tu non vuoi bere? Praticamente il sabato sera vuoi fare sempre quello!”, disse Bill, stizzito.

“Dai non rompere, almeno non rimani a casa a fare il casalingo depresso!”

“Ok, ok. Dammi venti minuti, ci vediamo al solito posto”

“Vuoi che venga a pren…”, ma Bill chiuse il telefono prima che l’amico concludesse la frase. Da quando aveva fatto il corso di orientamento, non voleva per nessun motivo al mondo sentire qualcuno usare il verbo “portare”, riferendosi  a lui. Nessuno “portava” Bill, i pacchi postali si portano, non le persone. E lui era abbondantemente munito di palle per cavarsela da solo.

Ricordava di quando, prima del corso, doveva stare ai capricci del suo amico, senza potersi mai ribellare. Se Friedrich voleva rimanere in un posto, Bill non poteva opporsi, non poteva andarsene, perché lui dipendeva dagli occhi dell’amico.

Grazie a Gordon però, tutti quei problemi erano stati risolti. O, per lo meno, dimezzati.

Ecco il perché del tatuaggio.

Bill non voleva vivere in catene, non voleva dipendere da niente e nessuno. Presto sarebbe cominciata l’università e tanti saluti. Bill avrebbe cominciato una nuova vita, avrebbe cominciato realmente a vivere e…magari, avrebbe trovato anche qualcuno che…lo trattasse da persona normale. Magari qualcuno che…lo amasse.

A tale pensiero fatto Bill si alzò di scatto, maledicendosi mentalmente. Non avrebbe mai vissuto l’amore, lo sapeva.

Chi cazzo voleva mettersi con un cieco?

In una società in cui se non sei perfetto non vali un cazzo, in una società dove tutto è superficiale, Bill cosa poteva mai ricevere di buono?

Nulla, perché lui dava, ma non riceveva.

E quante volte si sentiva dire in faccia che era un problema, un peso? Quante volte a scuola, i compagni ed i prof stessi gli parlavano alle spalle? Alcuni pensavano anche che la sua fosse tutta una messa in scena, che lui sul problema ci stesse marciando, che lui in realtà poteva fare di più e altre cazzate simili. Era ovvio che la cattiveria si accumulava e, a dirla tutta, se fosse morto un insegnante, se ne sarebbe sbattuto altamente il cazzo.

Perché era quello che era diventato, per colpa loro: un mostro, un mostro che apparentemente era divertente, squallido nelle sue battute di pessimo gusto, ma la verità era un’ altra. Bill non era così, Bill indossava svariate maschere, persino con Friedrich.

Ad ogni modo riuscì a vestirsi a tempo di record, perché sì, lui sapeva riconoscere perfettamente i suoi vestiti dal tessuto, al massimo usava il riconoscimento di colori per un momentaneo vuoto di memoria, avendo migliaia di magliette, ma non usava cazzate come etichette tratteggiate o roba simile.

Infilò nelle tasche dei jeans le chiavi, il cellulare ed un pacchetto di sigarette e, dopo aver infilato a Rania l’imbracatura, uscì da camera sua, lisciandosi i capelli nel frattempo. Non aveva tempo di truccarsi, lo avrebbe fatto una volta arrivato.

“Mamma, io esco”

Jutta si voltò, sgranando gli occhi.

“Bill, tesoro, a quest’ora vuoi uscire? Non sarà pericoloso?”

Essendo a conoscenza del fatto che avrebbe dovuto prima fare un lungo discorso alla madre protettiva, ne approfittò per  truccarsi. Non era poi tanto difficile, dopotutto bisognava solo seguire una certa linea, un certo spazio. Certo, le prime volte che Bill si truccava erano davvero uno scempio, ma poi ci aveva preso la mano e, diciamocela tutta, faceva invidia ad un make up artist.

“Mamma, mi ha chiamato Friedrich, non tornerò tardi, non avevo manco voglia di uscire”

Sapeva che la madre lo stesse guardando, perché non stava emettendo nessun suono.

“E perfavore, piantala di guardarmi!”

Jutta ridacchiò, poggiando una mano sulla spalla di Bill che, seppur con educazione, se la scrollò di dosso.

“Tesoro, non riempirti di quella robaccia nera, lo sai che poi il medico ti sgrida”

“Non me ne frega un cazzo, mamma!”

Sbottò il moro, in effetti era così. Poteva truccarsi, ma doveva andarci piano soprattutto con matite ed altri trucchi che potevano avvicinarsi troppo agli occhi.

Bill però non se ne curava, perché era convinto che truccandosi, avrebbe nascosto maggiormente la visuale dei suoi occhi, una volta semi coperti anche con la frangia. Era un ragionamento idiota, lo sapeva. Il fatto era però che non voleva farsi vedere, non voleva che nessuno lo guardasse negli occhi, perché erano brutti, lo sapeva. Ci fu un periodo in cui il suo occhio sinistro era quasi del tutto bianco, senza una vera e propria pupilla e la gente lo guardava con orrore, sapeva anche questo. Dopodichè, dopo aver convissuto con l’orrore in viso, il medico decise di sottoporlo ad un trapianto di cornea. Non battè ciglio quando seppe che l’organo proveniva da un diciottenne morto in un incidente. Ad ogni modo, l’operazione sembrò andare bene, ma solo dopo un paio di mesi l’occhio ritornò a cambiare colore. E ora il suo occhio destro era normale, anche se normale non era proprio la parola adatta, essendo opaco e con dei puntini all’interno. Il suo occhio sinistro era tendente al bluastro, con la mancanza del cristallino e, a dirla tutta, odiava quando gli dicevano che erano fighissimi, quando nessuno li aveva visti per davvero, a poca distanza e, soprattutto, dal vivo.

Si rese conto di essere rimasto immobile e con la matita a mezz’aria. Doveva piantarla di pensare.

La madre era sicuramente andata via. Bill sapeva di farla piangere certe volte, perché lei era buona e ci rimaneva male quando Bill l’aggrediva. E Bill, in quei momenti, si sentiva doppiamente una merda, perché lui non era arrabbiato con lei, Bill era arrabbiato con il mondo, ma non con lei. E certe volte voleva dirglielo, ma non ce la faceva.

Il moro in realtà non aveva mai avuto una discussione sui suoi sentimenti o, per lo meno, non troppo lunga. Sapeva di averne un fottuto bisogno, ma sapeva anche che, una volta cominciata la conversazione, quest’ultima sarebbe cessata quasi all’istante, perché Bill sarebbe scoppiato in lacrime.

Ecco perché Bill non parlava mai di sé, perché sarebbe scoppiato a piangere. E lui non voleva mostrarsi debole, perché doveva essere più forte degli altri, più libero degli altri.

 

Perché lui non voleva vivere in catene.

 

 

   
 
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